Quella di Hong Kong è platealmente una “rivoluzione colorata”. Ma, come ogni rivoluzione colorata, poggia su effettive basi materiali.
Il primo aspetto è palese. Lo evidenziano l’appoggio esplicito dei politici statunitensi – da Trump alla Clinton – e inglesi, la foto di alcuni leader della rivolta assieme a una funzionaria del consolato sicuramente in organico Cia (v. foto qui sotto da https://www.zerohedge.com/news/2019-08-08/evidence-cia-meeting-hk-protest-leaders-china-summons-us-diplomats-over-viral-photo: “consultazione” che gli interessati non hanno potuto smentire),
le bandiere a stelle e strisce sventolate nei cortei e quella di HK colonia britannica issata in occasione dell’irruzione al parlamento locale (mentre nell’assalto del 21 luglio all’ufficio diplomatico di Pechino l’emblema cinese è stato distrutto),
le continue provocazioni violente chiaramente finalizzate a suscitare una risposta dura della polizia (comparirà anche qualche cecchino Cia-diretto che come a Maidan spara contro rivoltosi e poliziotti?),
l’appoggio dei media occidentali – basta confrontare con il tipo di copertura mediatica sui gilets gialli o, per venire ai pennivendoli nostrani, sulle “ingiustificate violenze” dei NoTav – contro l’“autoritarismo di Pechino”, il supporto di Facebook, Twitter, ecc. e ovviamente l’azione neanche tanto nascosta delle Ong – lautamente sovvenzionate, ancor più che in occasione della protesta degli ombrelli dell’autunno 2014, dal National Endowment of Democracy, organo principale del soft power del Pentagono (https://www.strategic-culture.org/news/2019/08/17/the-anglo-american-origins-of-color-revolutions-ned/). Insomma, la Coalizione dei diritti civili non manca di appoggi di un certo peso...
Si potrebbe continuare. Ma, si diceva, come ogni rivoluzione colorata anche questa non è una pura costruzione mediatica o delle Ong, bensì poggia anche su basi materiali, con il presente incernierato in un pesante passato storico. È dunque indispensabile indagare su questi fattori, sia per analizzarne i risvolti sul piano dell’intreccio tra lotta di classe e scontro geopolitico Usa/Cina, sia per individuare qualche elemento eventualmente suscettibile di innescare una lotta qualitativamente diversa. Evitando così le opposte e speculari rappresentazioni di una mobilitazione sociale “spontanea e pulita” ma strumentalizzata dall’Occidente, e di un mero complotto eterodiretto.
Per comprendere quello che succede è necessario guardare innanzitutto alla storia. Nata come possedimento coloniale inglese a seguito delle guerre dell’oppio (sì, oppio!) di metà Ottocento, HK ha costruito la sua fortuna grazie allo sviluppo combinato e diseguale proprio dell’imperialismo. Dapprima porto franco per le merci da vendere alla Cina e hub per i prodotti cinesi da convogliare in Europa sottoposti al prelievo degli operatori commerciali britannici, ha progressivamente sviluppato una capacità produttiva propria, anche se prevalentemente di solo assemblaggio, grazie ai trasferimenti di popolazione e capitali dalla Cina toccata via via dalle rivolte dei Taiping, dei Boxer e infine dalla rivoluzione maoista. Dopo questa e la chiusura ufficiale della Cina Popolare, HK è divenuta ancora più ricca e cruciale fungendo da intermediario obbligato e spesso illegale per gli scambi economici con l’Occidente (questo aspetto dell’illegalità non va sottovalutato, gioca un suo ruolo ancora oggi: il movimento odierno nasce, non a caso, contro una legge che cerca di intaccare quello che è un vero e proprio diritto storico all’impunità legata all’intermediazione commerciale e finanziaria, fondamentale per lo sviluppo di HK come paradiso fiscale, ma oggi meno accettabile per Pechino, tanto più nella guerra commerciale in corso con Washington, per il rischio costante sia di ingresso di hot money puramente speculativo sia di fuga di capitali). Via via che la Cina sviluppava una propria produzione restando però esclusa dall’accesso diretto al mercato mondiale, HK ha potuto rafforzare il suo ruolo di intermediario per un mare di prodotti cinesi che raggiungevano il mercato occidentale con l’etichetta made in HK, con un intreccio peculiare tra prelievo neocoloniale occidentale e interessi dei cosiddetti cinesi d’oltremare.
Ma con l’apertura della Cina di Deng al mercato mondiale nel ‘79 – dopo il riavvicinamento con gli Usa in funzione anti-russa siglato dall’incontro Nixon-Mao del ’72 – le cose sono radicalmente cambiate. HK era destinata a perdere il suo ruolo di mezzano e, infatti, a inizio anni Ottanta Londra ha concordato la sua restituzione alla Cina. Ma se non serviva più come hub commerciale, poteva servire come cuneo politico. Questo il motivo per cui la Gran Bretagna si è battuta per inserire nell’accordo di restituzione la clausola dei cinquant’anni di “doppio sistema”, conservando all’Occidente una possibilità di influenza politica oltre che economica. Clausola preveggente, come si vede oggi.
Dal ’97, anno della restituzione, HK ha ancora conosciuto un periodo di benessere, grazie soprattutto al ruolo di snodo finanziario e di servizi commerciali nel traffico di capitali in entrata e in uscita da una Cina buttatasi a capofitto nei vortici della globalizzazione. Se infatti Pechino ha mantenuto uno stretto controllo sui flussi di capitale, ha però consentito a HK una rilevante libertà di movimento, purché essa non andasse a intaccare quella politica di controllo.
Se con la restituzione la Cina programmava di lasciare ad HK il suo ruolo di grossa piazza finanziaria volgendolo a suo esclusivo vantaggio, in quello stesso anno una grande crisi finanziaria colpì le tigri asiatiche, tra le quali appunto HK. Secondo molti analisti quella crisi è stata creata ad arte tramite, in particolare, la manipolazione del valore del dollaro – come già avvenuto con gli accordi valutari cui Washington aveva costretto il Giappone nel decennio precedente. Comunque sia, le tigri videro moltiplicarsi di colpo il valore dei propri debiti contratti in dollari e le loro economie furono oggetto delle solite amorevoli cure del FMI. La Corea del Sud ne rimase succube, la Thailandia cercò di resistere liberandosi negli anni a seguire del cappio dei debiti con il FMI. HK soffrì moltissimo e il governo centrale cinese dovette intervenire per sostenere il dollaro HK bersaglio di una violenta svalutazione. Insomma, l’obiettivo cinese di disporre in proprio di una piazza finanziaria di un certo rilievo si rivelò problematico ancora prima di iniziare a diventare realtà.
Nonostante ciò, nel decennio che precede lo scoppio della crisi globale HK grazie sempre all’aiuto cinese ha recuperato in parte significativa il proprio ruolo finanziario. Ma per Pechino è diventata chiara la necessità improrogabile di puntare a una politica diversa per accedere al mercato dei capitali, tale da non esporre troppo la Cina come stato all’indebitamento internazionale. Da allora, pur continuando a usare HK, Pechino ha puntato a costruire una propria struttura borsistica e finanziaria, concentrandola essenzialmente nella piazza di Shanghai.
Sulla scelta, in verità, può avere avuto un peso anche la scarsa affidabilità di HK a causa delle mai sopite velleità di indipendenza. Fatto sta che, oramai, la situazione è chiara a tutti: il Porto Profumato è destinato a un inevitabile declino a causa della perdita della sua peculiare rendita di posizione nel tessuto del (neo)colonialismo prima e della globalizzazione ascendente poi.
Questo il retroterra materiale delle angustie odierne della società di HK. La situazione economica e sociale è dunque destinata a mutare profondamente non per una scelta politica “autoritaria” di Pechino, quella di assimilare completamente HK alle condizioni economiche e sociali della Cina, ma per un evidente mutamento del suo ruolo nell’economia mondiale. A maggior ragione oggi con la riconfigurazione in corso degli assetti della globalizzazione che l’assalto yankee alle velleità cinesi di sviluppo capitalistico meno dipendente dall’imperialismo sta causando.
Le oligarchie finanziarie di HK ne sono consapevoli: per conservare almeno in parte il proprio ruolo non hanno altra opzione che sperare nella disponibilità della Cina di lasciar loro un qualche spazio nell’ambito del suo consolidamento come potenza economica mondiale (le difficoltà attuali della banca internazionale HSBC nei rapporti con Pechino illustrano bene questo aspetto: https://wolfstreet.com/2019/08/19/hsbc-runs-into-buzzsaw-in-hong-kong-china-its-home-market-generating-75-of-its-profits/). Ma sono anche consapevoli che molti passi indietro saranno inevitabili rispetto al glorioso e non più ripetibile passato: non per nulla il contributo di HK al Pil cinese è passato nel corso degli ultimi vent’anni da quasi un terzo al 3%.
I ceti proletari, soprattutto i più bassi, non certo piccoli numeri, possono avere con la completa assimilazione persino qualche speranza di miglioramento. A HK, infatti, le disuguaglianze sociali sono molto più acute di quelle che lo stato cinese consente al proprio interno – un quinto della popolazione vive al di sotto della soglia di povertà (https://www.scmp.com/news/hong-kong/society/article/2174006/record-13-million-people-living-below-poverty-line-hong-kong) – e una parte dei proletari di HK hanno condizioni persino peggiori di quelle dei mingong del continente (https://www.lastampa.it/topnews/primo-piano/2019/08/20/news/i-filo-cinesi-della-citta-ribelle-hong-kong-ingrata-con-pechino-1.37361377). È anche a loro che si rivolge il Global Times, testata cinese in lingua inglese su posizioni di inequivocabile nazionalismo, del tredici agosto: “Tutte le rivoluzioni colorate hanno ragioni interne, come il cattivo sostentamento e il divario crescente tra ricchi e poveri. Una rivoluzione colorata è una sventura in quanto prende ridicolmente la "democrazia" come ricetta per profondi problemi economici” (http://www.globaltimes.cn/content/1161356.shtml).
Il problema più bruciante riguarda, ovviamente, i ceti medi (in gran parte salariati), in particolare gli aspiranti ceti medi del futuro, ossia i giovani con grado di istruzione medio-alto (sul profilo sociale del cuore giovanile della protesta v. l’interessante articolo su https://www.scmp.com/magazines/post-magazine/long-reads/article/3019591/why-hong-kongs-angry-and-disillusioned-youth-are). Per loro la prospettiva quasi certa è che dovranno rinunciare alle condizioni dei propri genitori. Lavori e redditi buoni non saranno replicabili che per un’infima minoranza; per gli altri è possibile prevedere un sicuro peggioramento e, persino, l’incertezza di poter rimanere nel settore dei servizi cognitivi e della finanza, con il rischio di dover scendere allo scalino sociale del lavoro “materiale”.
La loro rivolta prende il nome della libertà e della democrazia – Libera Hong Kong è lo slogan principale dei manifestanti – ma ha come base reale il rifiuto di questo prevedibile futuro. Per invertire la prospettiva, però, libertà e democrazia non bastano, sarebbe necessario riportare HK alla precedente rendita di posizione sulle condizioni diseguali del rapporto della Cina con il mercato mondiale. Una buona parte dei rivoltosi sembra esserne del tutto consapevole, e lo dimostra – oltreché sigillando rigorosamente rivendicazioni e proteste rispetto alla condizione sociale proletaria, dei locali e degli immigrati – imbracciando le bandiere coloniali e invocando l’aiuto yankee. Il che vuol dire, piaccia o no, appoggiare la politica di Washington tesa a ricacciare la Cina al suo ruolo di paese completamente dipendente e subordinato all’imperialismo occidentale. Appoggiare, insomma, la politica obamiana del pivot to Asia con il contenimento dello sviluppo cinese, e la sua continuazione trumpiana dai ritmi e toni più espliciti. (Lasciamo perdere se poi gli yankees vogliono e sono ancora in grado di ricompensare gli utili idioti... gli italioti ne sanno qualcosa). Natura e programmi delle forze politiche che stanno alla guida delle proteste – tutt’altro che disorganizzate nel loro essere orizzontali, e con ampio appoggio anche nelle fasce meno giovani dei ceti medi – sono abbastanza eloquenti al riguardo, con uno spettro che va dagli indipendentisti e xenofobi anti-cinesi (i “localisti”) ai moderati pro diritti civili passando per gli adepti delle chiese filo-occidentali.
“Liberate Hong Kong; revolution of our times” (https://www.scmp.com/news/hong-kong/politics/article/3022057/two-months-and-nearly-2000-rounds-tear-gas-later-what-do)
Ora, il rifiuto della precarietà potrebbe costituire, preso in sé, una base formidabile per l’avvio di una seria lotta di classe. Ma per esserlo si dovrebbe rivolgere non a Trump e alla ex potenza coloniale, ma alla massa di tutti i precari, a HK e in Cina. Lo stesso rifiuto della prospettiva del lavoro manuale potrebbe costituire, in sé, una base ancor più formidabile per un movimento veramente anti-sistema capace di mettere in questione una società nella quale l’enorme produttività del lavoro realizzata dal sistema capitalistico continua a schiacciare alla pena del lavoro miliardi di persone. Ma, ancora una volta, il movimento dovrebbe cercare i suoi alleati nella massa già costretta a questa pena e non certo a chi la vuole confermare e persino peggiorare per tutti i proletari, della Cina e del mondo. Del pari, le rivendicazioni per alloggi e servizi sociali sostenibili è sacrosanta – gli affitti sono tra i più cari al mondo (https://www.scmp.com/magazines/post-magazine/long-reads/article/3019591/why-hong-kongs-angry-and-disillusioned-youth-are) – ma andrebbero portate avanti contro la finanziarizzazione dell’economia della città che fa lievitare la rendita immobiliare e in generale il prezzo di tutti i servizi, piuttosto che arroccarsi intorno all’identità di “cittadini di Hong Kong” che non vogliono confondersi con “quelli del continente”.
Va detto che la piega presa dal movimento di HK non dà alcun segnale di volere o potere evolvere in queste direzioni. Fuori luogo sarebbero gli accostamenti, per esempio, con la mobilitazione di piazza Tahrir: HK economicamente è più confrontabile, per dire, col Qatar che non con l’Egitto, e soprattutto la sollevazione egiziana è stata oltre che generazionale anche e decisamente proletaria e operaia, le sue rivendicazioni democratiche si sono sostanziate con contenuti economico-sociali classisti rivolti contro una cricca di potere strettamente legata all’imperialismo occidentale. I limiti di Tahrir – pur notevoli, come ha tristemente evidenziato il suo esito finale – sono comunque ben al di sopra degli aspetti meno compromessi della mobilitazione di HK. Che semmai ricorda alcune istanze secessioniste ben note in Europa. Di ambivalenze potenzialmente produttive, insomma, se ne vedono assai poche, almeno al momento.
La sua prosecuzione – ce ne sono, abbiamo visto, tutti i motivi, all’interno e dall’esterno – crea e creerà, ovviamente, problemi a Pechino. Tutti i nemici della Cina, che a casa propria non esitano o non esiteranno a reprimere senza limiti i movimenti di protesta (come già la Francia con i Gilets Jaunes e l’Italietta con i No Tav), aspettano al varco la repressione del movimento per poter dare fuoco alle grancasse sulla natura inguaribilmente dittatoriale di Pechino, e ricevere così legittimazione di fronte all’opinione pubblica per proseguire le loro politiche di contenimento e contrasto al suo tentativo di svincolarsi dall’asimmetria nei confronti dei capitali, e delle capitali, occidentali. Non è detto, però, che la Cina dia corso a interventi repressivi su vasta scala. Potrebbe lasciare che HK discenda altri gradini della sua stabilità e affidabilità, con conseguenze sociali ancora più pesanti proprio per i ceti in rivolta...
Washington, comunque vada, tenterà in tutti i modi di sfruttare la vicenda non solo per mettere in un angolo la Cina nello scontro in corso sui dazi commerciali, ma per utilizzare la questione HK come permanente spina nel fianco del nemico, attaccato così oramai fin dentro il proprio territorio nel quadro di una contrapposizione che spinge in prospettiva verso un confronto totale. Sarà poi la volta dello Xinjiang con l’oppressione degli uiguri, del Tibet coi suoi monaci così apprezzati dai new age occidentali... Ciò non toglie che in Asia l’immagine dell’Amerika risulta sempre più appannata: sarà pure la nazione più potente ma sempre meno viene considerata la migliore. E solo l’inveterata miopia eurocentrica che attanaglia la putrescente sfera mediatica occidentale può non vederlo.
Certo, se Pechino dovesse non riuscire a compensare in tempi e modi debiti, sul mercato interno e con le nuove Vie della Seta, la progressiva chiusura dei mercati occidentali, il campanello d’allarme che squilla da HK potrebbe essere l’annuncio di seri problemi anche nel compromesso che finora ha funzionato tra Stato cinese e ceti medi interni (subordinato, attenzione, a quello con il proletariato e i contadini). Il vecchio sogno da Nixon a Reagan, da Clinton a Bush e Obama di liberalizzazione dei rapporti politici cinesi per spianare la strada alla manomissione permanente della Cina da parte delle molto più potenti forze di mercato occidentali avrebbe qualche chances in più di realizzarsi. Una “Cina democratica” vanificherebbe la centralizzazione delle scelte politiche dello stato, rendendo il paese più debole nei confronti dell’Occidente, porterebbe dunque un segno di classe nettamente contrapposto ad una rivendicazione democratica da parte del proletariato cinese, una rivendicazione cioè di potere contro chi detiene il vero potere, l'imperialismo e, assieme a questo, contro le classi possidenti cinesi e il loro stato.
Tutt’altro che uno sviluppo armonioso dunque si annuncia prossimamente per la Cina. Ma gli occidentali, per contrappasso, avranno poco da godersi della difficoltà del Dragone se è vero che gli sconquassi futuri non potranno che rimettere in moto su tutti i livelli lo scontro di classe. Che non si fermerà certo al di qua della muraglia cinese e alla questione dei “diritti” – scibbolet indiscusso, oramai, per tutte le sinistre occidentali incapaci di chiedersi di fronte ai movimenti sociali: chi siete? cosa volete?, incapaci di mettere a fuoco i differenti contenuti economico-sociali delle richieste democratiche. Questo scontro andrà a rimettere in discussione, oltre agli equilibri di classe interni alla Cina, anche la rapina di sovraprofitti da cui l’imperialismo occidentale oramai dipende per mantenere il suo precarissimo equilibrio economico e sociale – peraltro già scosso dall’emergere dei neopopulismi (http://www.asterios.it/catalogo/i-dieci-anni-che-sconvolsero-il-mondo). Il mondo si è fatto piccolo, sostituti per il corpo – tutt’altro che piegato, però – del proletariato cinese e asiatico in giro non se ne vedono. Attenzione a risvegliarlo...
22 agosto 2019
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