Si è purtroppo assistito ancora una volta allo sconcertante spettacolo in cui la destra fascista e leghista sta guidando nel nostro paese l’opposizione al Meccanismo Europeo di Stabilità (MES), che si intreccia con le istituzioni dell’Unione Europea (UE). Si intreccia, perché esso non è un’istituzione dell’UE ma è nato sulla base di un trattato internazionale, che tuttavia serve agli scopi dell’oligarchia UE.
Il MES, infatti, ha il compito di assistere le banche e gli Stati, che, a causa delle politiche di austerità, si trovino in difficoltà finanziaria e siano costretti a ricorrere ad aiuti finanziari, la cui concessione è condizionata da ulteriori misure di austerità: la vicenda della Grecia dice che l’UE, con il supporto della BCE e del FMI, ha fatto varare il taglio dei salari e delle pensioni, la drastica riduzione dei servizi sociali, la precarietà del lavoro come misure per risanare i bilanci pubblici, riducendo in miseria il suo popolo. In generale, l’UE, con il pareggio di bilancio iscritto in Italia perfino in Costituzione nel 2012, impone ai popoli l’austerità, che si traduce nella precarietà del lavoro, nel taglio dei servizi sociali, nelle liberalizzazioni e privatizzazioni su scala europea.
In Italia il PD guida il fronte a favore del MES: si deve accettare tutto quello che detta Bruxelles, se si vogliono evitare le ritorsioni dei mercati finanziari che fanno innalzare gli interessi sui titoli del debito pubblico, delle banche e delle imprese.
Ancora una volta scatta il ricatto: o si accetta la riforma del MES oppure l’Italia si isola e viene ‘punita’ dai mercati finanziari, dagli speculatori. Si usa la parola ‘riforma’, ma si vuole dire una controriforma perché il nuovo Trattato, discusso e redatto nelle riunioni dei ministri finanziari assistiti dalla Commissione, stringe ancore di più i controlli sulla gestione del debito pubblico per far rispettare le regole del ‘pareggio di bilancio’. Gli aiuti, sia precauzionali sia ‘eccezionali’ (come li definiscono), sono subordinati alla ‘sostenibilità’ del debito cioè al rispetto della regola del deficit di bilancio del 3% e del debito pubblico al 60% rispetto al PIL, altrimenti si deve ricorrere alla sua ristrutturazione, che comporta perdite per i piccoli risparmiatori e per le banche, che a loro volta impongono nuove perdite ai risparmiatori. A questo servono le nuove misure sui CACs, le norma che disciplinano il voto dei detentori dei titoli.
E mentre il MES costituirà una iattura economica e sociale per i paesi non in linea con i parametri economici imposti dall’oligarchia europeista, sarà, invece, una manna dal cielo per quelle banche (tedesche in primis) che detengono in pancia titoli illiquidi, ovvero prodotti finanziari derivati, e potranno così ricorrervi per fronteggiare e risolvere le pesanti criticità in cui versano.
Infine il MES, governato dai ministri finanziari e guidato da un direttore generale, affiancherà la Commissione europea nella verifica dei conti pubblici con l’ottica di difendere gli interessi del creditore. Si ribaltano perfino le norme del codice civile, e dello stesso senso di civiltà, che prevedono, in caso di default, misure a sostegno dei debitori, che in questo caso sono popoli interi, e non a favore del creditore che questa volta è il MES stesso!!
Il governo Conte vuole salvarsi chiedendo solo un rinvio del voto che dovrebbe riguardare l’intero pacchetto relativo all’Unione bancaria, necessaria per mettere l’ultima pietra all’edifico del mercato unico dei capitali: la pezza peggiore del buco!
Non lasciamo al duo Salvini-Meloni le piazze per promuovere l’opposizione al MES, chiediamo che il Parlamento l’11 dicembre voti perché il governo a Bruxelles dica NO al MES e in Italia si avviino le procedure per referendum popolari sui Trattati europei, che stanno strangolando sempre più le vite dei popoli.
Proponiamo alle forze sindacali, sociali, politiche di attivare banchetti, flash mob, assemblee per informare i cittadini della gravità del nuovo e del vecchio MES.
Si sta discutendo l’ipotesi di un SIT IN per mercoledì 11 dicembre contro il MES.
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Da ciascuno secondo le sue possibilità, a ciascuno secondo i suoi bisogni
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06/12/2019
26/11/2019
L’incubo del MES sul nostro prossimo futuro
Ci scuserete se torniamo ancora sulla “incredibile” vicenda del Mes, il Meccanismo europeo di stabilità, che sta per essere approvato tra pochi giorni da tutti i membri dell’Unione Europea. In fondo, riguarda “soltanto” il brutto futuro che attende tutti noi (meno qualcuno). Però vi tranquillizziamo: questa volta non parleremo di “tecnica economica”, ma di politica. A un livello speriamo superiore rispetto alle sciocchezze che ci propina quotidianamente l’informazione mainstream.
Che cosa contenga il Mes, infatti, lo abbiamo già analizzato più volte, ricevendo ogni giorno nuove conferme anziché smentite.
In estrema sintesi, è un sistema di regole da applicare in modo pressoché automatico che “convince” – contando sulle normali dinamiche del mercato finanziario – i capitali a fuggire dall’Italia e altri paesi con un forte debito pubblico per indirizzarsi verso le banche tedesche, francesi, olandesi. Le quali hanno problemi assai gravi e rischiano di saltare nei prossimi mesi o al massimo pochi anni. Per funzionare davvero c’è bisogno che venga approvata anche l’implementazione dell’unione bancaria europea, secondo la proposta avanzata ancora una volta dalla Germania tramite il ministro delle finanze Olaf Scholz.
Una volta chiuso il cerchio, il ministero del Tesoro avrebbe difficoltà immense per piazzare i titoli di Stato sul mercato e contemporaneamente le banche avrebbero una tale necessità di capitali da chiudere i rubinetti dei prestiti a famiglie e imprese (oltre a vendere i titoli di Stato italiani, contribuendo così alla caduta del prezzo, all’aumento degli interessi da pagare e a un buco supplementare nei propri bilanci). Una gelata di lungo periodo sull’economia reale che arriverebbe (arriverà) dopo oltre un decennio di crisi-stagnazione.
Un cappio intorno al collo del sistema-Italia che perde quotidianamente pezzi importanti (Fiat-Fca, Ilva, Alitalia, ecc.). Poi basterà stringere... e oplà!
Un governo serio e minimamente competente avrebbe stoppato questo “combinato disposto” già al suo primo delinearsi, con le prime bozze messe sui tavoli intergovernativi a Bruxelles e dintorni. Ma naturalmente non lo abbiamo mai avuto, un governo così...
Tanto meno poteva farlo il governo “gialloverde” – ricordate? Quello con Cinque Stelle e Lega... – che doveva guadagnarsi la “fiducia” delle istituzioni europee cercando continuamente l’equilibrio tra i “tre governi in uno” di cui era composto.
E quindi quel progetto di “riforma” è andato avanti nel sostanziale silenzio del governo Conte Primo. Come ha spiegato in questi giorni Pierre Moscovici, Commissario uscente all’economia, “Il testo di riforma del Mes è stato accettato a giugno dal governo precedente, anche se ora qualcuno che era al governo dice cose diverse”.
Il voltagabbana Salvini, insomma, c’era e sapeva tutto. E se pure si può giustamente dubitare delle sue competenze economiche, di sicuro c’erano validi “esperti” leghisti in grado di fargli il disegnino con la spiegazione (Bagnai, Garavaglia, Borghi, Giorgetti, ecc). In ogni caso, un vice-premier di “peso” si porta dietro la responsabilità politica di ogni decisione, anche di quelle che non capisce.
Si può ipotizzare che la “svolta del Papeete” sia stata una furbata salviniana per non trovarsi in queste settimane nella scomodissima posizione di Conte, Di Maio, Gualtieri e via cantando. Che, dunque, sia stato messo in conto che il “pacchetto” (Mes più unione bancaria farlocca) sarebbe stato approvato comunque ma conveniva stare all’opposizione per capitalizzare poi il malessere sociale al momento delle (prossime) elezioni anticipate.
Ma i furbi sono sempre dei cretini che pensano di saperla lunga... Qualsiasi maggioranza esca dalle prossime elezioni politiche, infatti, si troverà a muovere il collo dentro quel cappio, oltre a quelli già in essere (Fiscal Compact, Six Pack, Two Pack, Trattato di Maastricht, ecc). Assumere “i pieni poteri” in quel contesto, insomma, sarebbe addirittura un boomerang, perché bisognerebbe ammettere “di fronte agli itagliani” che non si dispone di alcun potere (tranne quello di chiudere i porti e manganellare le manifestazioni di protesta).
A meno di non dichiarare di voler uscire immediatamente dall’Unione Europea e dall’euro, imbarcandosi in una trattativa tempestosa che replicherebbe la Brexit senza avere alle spalle la potenza (finanziaria e militare, con l’atomica) britannica.
Stronzate leghiste a parte, la situazione è però davvero terribile. Di fatto questa “riforma” passerà anche se il governo o il Parlamento italiano dovessero votare contro. Giovedì sera, non a caso, nella cena offerta a tutti i suoi ministri, Giuseppe Conte ha spiegato che sarà difficile per l’esecutivo dire di no: alla fine la riforma sarà approvata e l’Italia non potrà tirarsi indietro.
Per non perdere completamente la faccia potrà al massimo contrattare qualche modifica marginale o un parziale rinvio, invocando la “logica di pacchetto” (la riforma del Mes va di pari passo col completamento dell’unione bancaria e la creazione di un budget dell’Eurozona). Nulla che modifichi minimamente il quadro futuro.
Vero è che il Parlamento potrebbe bocciare il trattato europeo in corso di chiusura. Ma per farlo dovrebbe crearsi una nuova maggioranza (è impensabile che il Pd non lo ratifichi), ovvero quella vecchia esplosa in agosto. E con l’assoluta contrarietà di Mattarella. Le conseguenze, politicamente, sarebbero a quel punto imprevedibili e molti “leader” si troverebbero a dover improvvisare una “narrazione” comunque poco credibile.
Più che la “classe politica” (un informe ammasso di quaquaraqua intenti a strillare per farsi notare, con la complicità dei media di regime), è utile tener d’occhio gli imprenditori, specie quelli pesantemente indebitati, che si stanno facendo i conti in tasca e “scoprono” che stanno per rimetterci la ghirba. Ovviamente non parlano in prima persona, ma fanno pubblicare “interventi di esperti” anche su giornali insospettabili di “sovranismo” nazionalista.
Per esempio Francesco Carraro, su Il Fatto, definisce “patologica” la logica del nuovo Mes, se vista dal lato degli interessi della popolazione e delle sue condizioni di vita.
“In pratica, stiamo parlando di un sistema in cui uno Stato precariamente sovrano presta denaro a un soggetto giuridico terzo, composto da membri privi di qualsivoglia legittimazione elettorale, dotati di una immunità e insindacabilità pressoché assolute da fare invidia alle baronie della nostra prima repubblica. Per prestare quel denaro, ovviamente, lo Stato deve indebitarsi con i mercati (unico modo consentito). Poi, quello stesso denaro lo Stato potrà ottenerlo, ma solo in prestito, dal Mes e previo rispetto di una serie di “condizionalità” così brutali da mettere in ginocchio qualsiasi economia con qualche residua vocazione ‘sociale’”.
Sessanta milioni di persone (molte di più, calcolando anche Spagna, Grecia, Portogallo e altri paesi in condizioni simili) “governate” da poche centinaia di funzionari presuntamente “tecnici”, ma in realtà messi lì dai governi delle nazioni più forti (l’asse è franco-tedesco-olandese, di fatto), che decidono in che modo i capitali – e la possibilità di tenere in vita un’economia – dovranno defluire da determinati territori o istituzioni per viaggiare verso altri lidi.
Un rischio talmente grave da costringere Carraro a chiudere con una critica feroce erga omnes, “movimenti” sardineschi compresi:
“A questo punto, chiunque abbia a cuore la conservazione dell’assetto politico, economico e sociale della nostra convivenza civile, così come pensato dai Padri costituenti nel 1947, deve fare una scelta di campo precisa non solo rispetto al Mes, ma anche nei confronti di tutte le “riforme strutturali” consustanziali al trattato di Maastricht istitutivo dell’Unione europea. Il che richiede uno studio assiduo e una consapevolezza vigilante di cui soprattutto le nuove generazioni, e le “nuove” forme di movimentismo, sembrano drammaticamente prive.”
Ma persino l’Huffington Post italiano – parte del gruppo Repubblica-L’Espresso, ossia Carlo Debenedetti, ex “tessera n. 1” del Pd! – ospita un articolo di Alfonso Gianni (ex Prc) in cui il Mes è condannato senza appello:
“In sostanza il Mes agirebbe come una sorta di Fondo monetario europeo, sostituendo il Fmi in una rinnovata Troika (anche se l’intervento di quest’ultimo è sempre ritenuto possibile) o agendo in un ‘duo’ con la Commissione. La vicenda greca si ripropone quindi sotto altre vesti. L’invasività del Mes nelle politiche di bilancio degli stati membri diventerebbe clamorosa, tale da porre seri aspetti di incostituzionalità alla luce della nostra Carta fondamentale. Sarebbe un’applicazione perversa, ma dal loro punto di vista logica, di quell’austerità espansiva di cui hanno straparlato le elite europee”.
Quale conclusione possiamo trarne? Che la discussione sull’Unione Europea, le sue politiche, trattati, meccanismi, ecc., non ha soltanto due possibili schieramenti (“sovranisti” versus “europeisti”). Perché in ballo c’è per un verso la sovranità (appartiene al popolo o a una ristretta oligarchia fatta di amministratori delegati e tecnoburocrati?), per un altro i sistemi-paese (una volta che hai perso le parti strategiche del sistema industriale e finanziario ti serviranno decenni o secoli per risollevarti), per un altro ancora le disuguaglianze sociali (da ogni “riforma” qualcuno ci guadagna e molti altri ci perdono).
E non c’è alcun dubbio che il neoliberismo, anche in versione “ordo”-teutonica, sia una forma assolutamente cruda del dominio di classe. Che la Ue sia una struttura che approfondisce gli squilibri strutturali a vantaggio delle aree “forti” e a scapito di quelle più deboli. E che la questione della sovranità (in soldoni: chi comanda?) sia al tempo stesso una questione di classe, nazionale e internazionale.
Il fatto che una parte crescente del mondo imprenditoriale stia lanciando allarmi e critiche feroci al Mes è un segno preciso che questa “riforma” va a colpire strati sociali e figure di classe anche diverse, come accade per le guerre che si perdono o quando si viene invasi (non certo dai migranti, ma dai panzer!). Una situazione abbastanza frequente, nel Novecento, ma di cui si è persa sia la memoria sia le categorie interpretative.
È ora di uscire dal pensiero bi-polare in voga ai tempi della “globalizzazione” e ragionare un po’ – almeno un po’ – da marxisti.
Fonte
Che cosa contenga il Mes, infatti, lo abbiamo già analizzato più volte, ricevendo ogni giorno nuove conferme anziché smentite.
In estrema sintesi, è un sistema di regole da applicare in modo pressoché automatico che “convince” – contando sulle normali dinamiche del mercato finanziario – i capitali a fuggire dall’Italia e altri paesi con un forte debito pubblico per indirizzarsi verso le banche tedesche, francesi, olandesi. Le quali hanno problemi assai gravi e rischiano di saltare nei prossimi mesi o al massimo pochi anni. Per funzionare davvero c’è bisogno che venga approvata anche l’implementazione dell’unione bancaria europea, secondo la proposta avanzata ancora una volta dalla Germania tramite il ministro delle finanze Olaf Scholz.
Una volta chiuso il cerchio, il ministero del Tesoro avrebbe difficoltà immense per piazzare i titoli di Stato sul mercato e contemporaneamente le banche avrebbero una tale necessità di capitali da chiudere i rubinetti dei prestiti a famiglie e imprese (oltre a vendere i titoli di Stato italiani, contribuendo così alla caduta del prezzo, all’aumento degli interessi da pagare e a un buco supplementare nei propri bilanci). Una gelata di lungo periodo sull’economia reale che arriverebbe (arriverà) dopo oltre un decennio di crisi-stagnazione.
Un cappio intorno al collo del sistema-Italia che perde quotidianamente pezzi importanti (Fiat-Fca, Ilva, Alitalia, ecc.). Poi basterà stringere... e oplà!
Un governo serio e minimamente competente avrebbe stoppato questo “combinato disposto” già al suo primo delinearsi, con le prime bozze messe sui tavoli intergovernativi a Bruxelles e dintorni. Ma naturalmente non lo abbiamo mai avuto, un governo così...
Tanto meno poteva farlo il governo “gialloverde” – ricordate? Quello con Cinque Stelle e Lega... – che doveva guadagnarsi la “fiducia” delle istituzioni europee cercando continuamente l’equilibrio tra i “tre governi in uno” di cui era composto.
E quindi quel progetto di “riforma” è andato avanti nel sostanziale silenzio del governo Conte Primo. Come ha spiegato in questi giorni Pierre Moscovici, Commissario uscente all’economia, “Il testo di riforma del Mes è stato accettato a giugno dal governo precedente, anche se ora qualcuno che era al governo dice cose diverse”.
Il voltagabbana Salvini, insomma, c’era e sapeva tutto. E se pure si può giustamente dubitare delle sue competenze economiche, di sicuro c’erano validi “esperti” leghisti in grado di fargli il disegnino con la spiegazione (Bagnai, Garavaglia, Borghi, Giorgetti, ecc). In ogni caso, un vice-premier di “peso” si porta dietro la responsabilità politica di ogni decisione, anche di quelle che non capisce.
Si può ipotizzare che la “svolta del Papeete” sia stata una furbata salviniana per non trovarsi in queste settimane nella scomodissima posizione di Conte, Di Maio, Gualtieri e via cantando. Che, dunque, sia stato messo in conto che il “pacchetto” (Mes più unione bancaria farlocca) sarebbe stato approvato comunque ma conveniva stare all’opposizione per capitalizzare poi il malessere sociale al momento delle (prossime) elezioni anticipate.
Ma i furbi sono sempre dei cretini che pensano di saperla lunga... Qualsiasi maggioranza esca dalle prossime elezioni politiche, infatti, si troverà a muovere il collo dentro quel cappio, oltre a quelli già in essere (Fiscal Compact, Six Pack, Two Pack, Trattato di Maastricht, ecc). Assumere “i pieni poteri” in quel contesto, insomma, sarebbe addirittura un boomerang, perché bisognerebbe ammettere “di fronte agli itagliani” che non si dispone di alcun potere (tranne quello di chiudere i porti e manganellare le manifestazioni di protesta).
A meno di non dichiarare di voler uscire immediatamente dall’Unione Europea e dall’euro, imbarcandosi in una trattativa tempestosa che replicherebbe la Brexit senza avere alle spalle la potenza (finanziaria e militare, con l’atomica) britannica.
Stronzate leghiste a parte, la situazione è però davvero terribile. Di fatto questa “riforma” passerà anche se il governo o il Parlamento italiano dovessero votare contro. Giovedì sera, non a caso, nella cena offerta a tutti i suoi ministri, Giuseppe Conte ha spiegato che sarà difficile per l’esecutivo dire di no: alla fine la riforma sarà approvata e l’Italia non potrà tirarsi indietro.
Per non perdere completamente la faccia potrà al massimo contrattare qualche modifica marginale o un parziale rinvio, invocando la “logica di pacchetto” (la riforma del Mes va di pari passo col completamento dell’unione bancaria e la creazione di un budget dell’Eurozona). Nulla che modifichi minimamente il quadro futuro.
Vero è che il Parlamento potrebbe bocciare il trattato europeo in corso di chiusura. Ma per farlo dovrebbe crearsi una nuova maggioranza (è impensabile che il Pd non lo ratifichi), ovvero quella vecchia esplosa in agosto. E con l’assoluta contrarietà di Mattarella. Le conseguenze, politicamente, sarebbero a quel punto imprevedibili e molti “leader” si troverebbero a dover improvvisare una “narrazione” comunque poco credibile.
Più che la “classe politica” (un informe ammasso di quaquaraqua intenti a strillare per farsi notare, con la complicità dei media di regime), è utile tener d’occhio gli imprenditori, specie quelli pesantemente indebitati, che si stanno facendo i conti in tasca e “scoprono” che stanno per rimetterci la ghirba. Ovviamente non parlano in prima persona, ma fanno pubblicare “interventi di esperti” anche su giornali insospettabili di “sovranismo” nazionalista.
Per esempio Francesco Carraro, su Il Fatto, definisce “patologica” la logica del nuovo Mes, se vista dal lato degli interessi della popolazione e delle sue condizioni di vita.
“In pratica, stiamo parlando di un sistema in cui uno Stato precariamente sovrano presta denaro a un soggetto giuridico terzo, composto da membri privi di qualsivoglia legittimazione elettorale, dotati di una immunità e insindacabilità pressoché assolute da fare invidia alle baronie della nostra prima repubblica. Per prestare quel denaro, ovviamente, lo Stato deve indebitarsi con i mercati (unico modo consentito). Poi, quello stesso denaro lo Stato potrà ottenerlo, ma solo in prestito, dal Mes e previo rispetto di una serie di “condizionalità” così brutali da mettere in ginocchio qualsiasi economia con qualche residua vocazione ‘sociale’”.
Sessanta milioni di persone (molte di più, calcolando anche Spagna, Grecia, Portogallo e altri paesi in condizioni simili) “governate” da poche centinaia di funzionari presuntamente “tecnici”, ma in realtà messi lì dai governi delle nazioni più forti (l’asse è franco-tedesco-olandese, di fatto), che decidono in che modo i capitali – e la possibilità di tenere in vita un’economia – dovranno defluire da determinati territori o istituzioni per viaggiare verso altri lidi.
Un rischio talmente grave da costringere Carraro a chiudere con una critica feroce erga omnes, “movimenti” sardineschi compresi:
“A questo punto, chiunque abbia a cuore la conservazione dell’assetto politico, economico e sociale della nostra convivenza civile, così come pensato dai Padri costituenti nel 1947, deve fare una scelta di campo precisa non solo rispetto al Mes, ma anche nei confronti di tutte le “riforme strutturali” consustanziali al trattato di Maastricht istitutivo dell’Unione europea. Il che richiede uno studio assiduo e una consapevolezza vigilante di cui soprattutto le nuove generazioni, e le “nuove” forme di movimentismo, sembrano drammaticamente prive.”
Ma persino l’Huffington Post italiano – parte del gruppo Repubblica-L’Espresso, ossia Carlo Debenedetti, ex “tessera n. 1” del Pd! – ospita un articolo di Alfonso Gianni (ex Prc) in cui il Mes è condannato senza appello:
“In sostanza il Mes agirebbe come una sorta di Fondo monetario europeo, sostituendo il Fmi in una rinnovata Troika (anche se l’intervento di quest’ultimo è sempre ritenuto possibile) o agendo in un ‘duo’ con la Commissione. La vicenda greca si ripropone quindi sotto altre vesti. L’invasività del Mes nelle politiche di bilancio degli stati membri diventerebbe clamorosa, tale da porre seri aspetti di incostituzionalità alla luce della nostra Carta fondamentale. Sarebbe un’applicazione perversa, ma dal loro punto di vista logica, di quell’austerità espansiva di cui hanno straparlato le elite europee”.
Quale conclusione possiamo trarne? Che la discussione sull’Unione Europea, le sue politiche, trattati, meccanismi, ecc., non ha soltanto due possibili schieramenti (“sovranisti” versus “europeisti”). Perché in ballo c’è per un verso la sovranità (appartiene al popolo o a una ristretta oligarchia fatta di amministratori delegati e tecnoburocrati?), per un altro i sistemi-paese (una volta che hai perso le parti strategiche del sistema industriale e finanziario ti serviranno decenni o secoli per risollevarti), per un altro ancora le disuguaglianze sociali (da ogni “riforma” qualcuno ci guadagna e molti altri ci perdono).
E non c’è alcun dubbio che il neoliberismo, anche in versione “ordo”-teutonica, sia una forma assolutamente cruda del dominio di classe. Che la Ue sia una struttura che approfondisce gli squilibri strutturali a vantaggio delle aree “forti” e a scapito di quelle più deboli. E che la questione della sovranità (in soldoni: chi comanda?) sia al tempo stesso una questione di classe, nazionale e internazionale.
Il fatto che una parte crescente del mondo imprenditoriale stia lanciando allarmi e critiche feroci al Mes è un segno preciso che questa “riforma” va a colpire strati sociali e figure di classe anche diverse, come accade per le guerre che si perdono o quando si viene invasi (non certo dai migranti, ma dai panzer!). Una situazione abbastanza frequente, nel Novecento, ma di cui si è persa sia la memoria sia le categorie interpretative.
È ora di uscire dal pensiero bi-polare in voga ai tempi della “globalizzazione” e ragionare un po’ – almeno un po’ – da marxisti.
Fonte
22/11/2019
Tra il dire e il fare, c’è di mezzo il MES
Viviamo in un mondo folle. Mentre si pongono le basi del disastro definitivo di questo paese, il dibattito mainstream si occupa di cose irrilevanti. Per fortuna, però, non esistono solo Repubblica e il Corriere (non nominiamo neanche le tv, ormai sprofondate nell’abisso dell’intrattenimento anche all’interno dei tg).
Un merito fondamentale l’ha avuto la “riforma del Mes”, quel Meccanismo europeo di stabilità che i governi del 2019 (prima quello gialloverde, ora quello giallorosa) hanno accettato senza capir bene di cosa si trattava. Poi qualche voce critica ha cominciato ad alzarsi persino dalle fila degli europeisti ad oltranza (Giampaolo Galli, ex parlamentare Pd, per esempio) ed ora gli occhi esperti puntati su quel dispositivo sparano a zero, scoprendo – e dicendo – quel che prima era indicibile o non correct dire.
Avendo fatto da modesti anticipatori di queste critiche, ed essendo stato ampiamente confermato il nostro giudizio (“piano Scholz” e “riforma del Mes” sono un assalto tedesco agli asset degli altri partner europei, Italia in testa), possiamo ora provare a vedere come lavora la contraddizione all’interno delle classi dirigenti, e quali conseguenze politiche produce.
Due articoli usciti oggi ci forniscono piste davvero interessanti. Ve li proponiamo entrambi, qui di seguito.
Il primo, di Francesco Russo, per l’agenzia Agi (di proprietà dell’Eni, dettaglio da non sottovalutare...), è una lunga ricostruzione della carriera di Klaus Regling. Personaggio sconosciuto ai più, ma ormai assurto al rango di tecnocrate più potente d’Europa. È infatti lui l’amministratore delegato del Mes.
Il che significa che:
a) il Mes, con la “riforma”, diventa di fatti l’equivalente del Fmi per i soli paesi europei;
b) questo organismo funziona come un’azienda, non come un vertice di mediazione politica tra interessi dei vari paesi, e infatti ha al vertice un amministratore, non un ufficio di presidenza.
In secondo luogo, come ben spiega l’Agi, poiché Regling è il “silente burocrate che, dietro le quinte, è stato sin dal principio il vero regista dell’unione monetaria”, ossia dell’introduzione dell’euro, gli interessi tedeschi continuano ad essere prevalenti. Anzi, lo saranno ancora di più perché il “nuovo Mes” avrà un ruolo e una potenza di fuoco competitiva con quella della Bce, ma senza i condizionamenti politici di cui soffre – secondo la Germania – l’istituto di Francoforte, dotato di un board composto di rappresentanti delle banche centrali dei vari paesi.
Terzo dettaglio, ma decisamente importante, siccome la Bce non è un vera banca centrale – manca del potere di fare da “prestatore di ultima istanza” – il ruolo del “nuovo Mes” sarà prevalente per quanto riguarda il rapporto con gli Stati.
Un combinato disposto complicato, che rischia di oscurare l’obiettivo di tanto “cospirare”. Ed anche quello è detto chiaro e tondo dall’Agi (ossia dall’Eni, principale multinazionale italiana partecipata dallo Stato come “azionista di riferimento”): spezzare il legame tra banche e debito sovrano. Ossia tra le banche e i titoli di Stato. Se ciò avvenisse (e avverrà di certo se il “nuovo Mes” prende corpo, come ha anticipato Patuelli, presidente dell’Abi) salterebbe in un colpo solo sia la stabilità del sistema bancario nazionale – pieno di titoli di Stato italiani – sia la sostenibilità del debito pubblico (la speculazione finanziaria avrebbe campo completamente libero).
Anche il secondo articolo, pubblicato da Milano Finanza a firma di Roberto Sommella (“I tedeschi vogliono salvare soltanto se stessi”), affronta gli stessi problemi con gli stessi argomenti.
Dunque, visti gli interessi societari dietro le due fonti di informazione, dobbiamo prendere atto che una fetta rilevante della borghesia finanziaria e imprenditoriale italiana è oggi assolutamente convinta che la governance europea e europeista, per quanto neoliberista, è ormai un danno per i propri affari e i propri asset.
Diciamola semplice: questa “fetta” è stata assolutamente d’accordo con le politiche di austerità fin quando queste colpivano soltanto il mondo del lavoro, il welfare (pensioni, sanità, istruzione, servizi pubblici, ecc). Avere dipendenti con contratti precari e con salari da fame andava ovviamente bene, per loro.
Ma ora che il modello export oriented imposto dall’ordoliberismo tedesco “batte in testa” – la Germania è in recessione, il suo sistema bancario è in buona parte sull’orlo del fallimento – la ricerca del profitto si riversa all’interno del sistema continentale. È insomma partito da tempo un processo che abbiamo chiamato di cannibalizzazione, in cui “i fratelli europei” si azzannano l’un l’altro cercando di sopravvivere.*
A questo punto, insomma, per una parte rilevante della borghesia finanziaria e industriale italiana, l’Unione Europea e le sue regole hanno smesso di essere un buon affare. La classe politica “europeista” che fin qui ha diretto il paese (dal Pd fino ai Monti e alle Fornero), accettando trattati che si sono rivelati cappi intorno al collo, non è più considerata in grado di difendere quegli interessi.
Serve qualcuno in grado di convogliare “consenso popolare” su una linea di maggiore capacità contrattuale con i poteri di Bruxelles, altrimenti “ci mangiano”. Non per “spaccare l’Europa”, ma per ottenere regole meno squilibrate a favore dei tedeschi (dei “padroni” tedeschi, ovviamente).
La straordinaria avanzata della Lega salviniana negli ultimi tre-quattro anni ha questo propellente alle spalle, oltre che qualche spicciolo russo o statunitense (alla Bannon-Trump...). Ovvio che serviva una retorica interclassista per cercare di tenere figure sociali che fin qui avevano perduto tantissimo dall’“austerità europeista” sotto il comando di quelle che invece ne avevano beneficiato. E altrettanto ovvio che questa retorica, non avendo nulla di concretamente materiale da offrire, si dovesse nutrire di fake news, razzismo, capri espiatori, cazzate “laqualunque”, ecc.
Il problema è comunque molto serio, perché anche chi vuole rivoluzionare il mondo (i rapporti di proprietà, il modello produttivo, ecc.) deve fare i conti con la materialità delle cose: si cambia la realtà che c’è, con gli strumenti che ci sono e quelli che si possono creare.
Un paese completamente saccheggiato, svuotato della sua “migliore gioventù” (costretta ad emigrare all’estero per trovare un lavoro all’altezza delle proprie competenze), deprivato delle parti strategiche del suo sistema industriale (acciaio, auto, telecomunicazioni, ecc.), azzerato come capacità di risposta alle sfide, è un paese senza futuro.
Per questo l’Unione Europea va combattuta ora, qui, davvero.
*****
Klaus Regling, l’uomo più potente d’Europa
Francesco Russo – Agenzia Agi
Quando il ministro delle Finanze di Berlino, Olaf Scholz, illustrò la sua proposta per il completamento dell’unione bancaria, il collega di Roma, Roberto Gualtieri, fu critico, sottolineando i rischi per il nostro Paese di uno schema che penalizzerebbe istituti, come quelli italiani, che detengono forti quote di debito pubblico nazionale. Il governo non è stato però altrettanto critico con il disegno di riforma del Meccanismo Europeo di Stabilità (Mes), che alla proposta di Scholz è fortemente intrecciato e persegue un analogo obiettivo: limitare lo spazio di manovra della nuova presidente della Bce Christine Lagarde, che intende proseguire la politica accomodante di Mario Draghi ma non ha lo stesso capitale di credibilità, e mettere al riparo una Germania sull’orlo della recessione dalle possibili conseguenze di un tracollo di Deutsche Bank.
Non è però facile per nessuno dire no a Klaus Regling, il numero uno del Mes, che nel 2017 è stato confermato per altri cinque anni alla guida del “fondo salva-Stati” europeo, i cui poteri – se la riforma in discussione in questi giorni passerà – si estenderanno a un punto tale da sovrapporsi in parte a quelli della stessa Banca Centrale Europea.
Con un’Angela Merkel appannata e contestata all’interno del suo stesso partito, è tutto in mano ai burocrati l’onere di difendere la dottrina dell’austerità sulla quale si fonda, sovente a scapito dei partner comunitari, la competitività del modello tedesco. Perso l’ex segretario generale della Commissione Europea Martin Selmayr, che a Bruxelles fu il baluardo degli interessi del Reichstag, questo compito è ora tutto in mano a Regling: già burocrate più potente del vecchio continente, con la riforma del Mes lo diventerà ancora di più.
Una carriera in costante ascesa
Il volto di questo economista di Lubecca, classe 1950, sposato con due figli, non appare spesso sulle prime pagine dei giornali e la rete scarseggia di profili a lui dedicati. Uno dei pochi è quello tracciato da Politico, che lo descrive come una persona affabile e riservata, nei modi più accostabile a un Draghi che alle asprezze di altri cavalieri teutonici dell’austerity, come l’ex ministro delle Finanze Wolfgang Schauble o il presidente della Bundesbank Jens Weidmann. La fonte più ricca di notizie su di lui è il sito stesso del Mes, che raccoglie puntualmente le sue non frequenti interviste e i suoi interventi presso le più prestigiose istituzioni economiche internazionali, le stesse che lo hanno visto accumulare un curriculum impressionante.
Figlio di un falegname, Regling studia Economia all’università di Amburgo, la stessa frequentata qualche anno dopo da Scholz, e nel 1975 completa gli studi a Ratisbona. Subito dopo inizia la sua carriera al Fondo Monetario Internazionale, dove lavora cinque anni nel dipartimento Ricerca e si occupa dei programmi dedicati all’Africa. Non male come scuola di austerità: nella seconda metà degli anni ’70 triplicano i prestiti del Fmi al continente nero, prestiti condizionati a duri tagli alla spesa e drastiche privatizzazioni, non sempre nell’interesse del Paese che ne era oggetto. Le stesse ricette che vedremo applicate decenni dopo in Grecia, il cui piano di “salvataggio” ebbe, soprattutto nelle sue ultime fasi, Regling come supervisore e regista.
Ritorno in Germania
Nel 1980, appena trentenne, Regling torna in patria e lavora al dipartimento economico dell’Associazione Bancaria Tedesca. Il ragazzo ha talento e si fa notare subito. Tempo un anno e viene assunto presso la Divisione Affari Monetari europei del ministero delle Finanze, allora retto da Hans Matthofer, un socialista vecchia scuola che si era fatto le ossa nel sindacato dei metalmeccanici. Era l’epoca in cui il progetto dell’euro stava prendendo forma e Regling lo vive in prima linea. Il Sistema Monetario Europeo era nato nel ’79 e il compito degli economisti di quel dipartimento era studiare come il solido marco si sarebbe fuso con la lira e la peseta, a quale tasso di cambio e a quali condizioni. Arriva l’82, il terzo governo Schmidt va in crisi, dopo tredici anni i democristiani riconquistano la cancelleria con Helmut Kohl. Regling rimane là fino all’85. Lo vogliono di nuovo a Washington.
In quattro anni Regling passa dal rango di economista a quello di senior economist fino a diventare vicedirettore della divisione Mercato dei Capitali del Fondo Monetario Internazionale. Le sue competenze in campo economico sono ormai variegate e poliedriche. Conosce il mondo delle banche, conosce la finanza pubblica, conosce le istituzioni internazionali, e nel 1999, come direttore esecutivo del Moore Capital Strategy Group, avrebbe conosciuto anche il settore privato. La sua unica lacuna è il fisco. Alla fine degli anni ’80 è rappresentante del Fmi in Indonesia, ruolo prestigioso. Ma nel 1991 la patria chiama di nuovo.
Al cuore del progetto dell’euro
Regling torna al ministero delle Finanze e si guadagna la fiducia personale del cancelliere, che lo invia come rappresentante economico della Germania nei consessi internazionali più disparati, dal G7 allo stesso Fmi, con il quale manterrà un rapporto stretto. Nel ruolo di capo della divisione Affari Economici Internazionali, Regling è anche uno dei protagonisti della stesura dei trattati di Maastricht. Insieme al futuro presidente Horst Kohler e all’allora presidente della Bundesbank Hans Tietmeyer, fa parte del team di negoziatori tedeschi al tavolo che porrà le basi per la nascita dell’euro. In tutto questo, trova anche il tempo per lavorare ai vertici dell’Asian Development Bank e dell’Inter-American Development Bank e di sedere nel board di Hermès Credit Insurance.
Nel 1998 i socialisti tornano al potere. Regling, ormai in quota Cdu, lascia. La sua carriera nel settore privato dura però appena tre anni. Nel 2001 il Manuale Cencelli europeo assegna a Berlino la struttura burocratica della Commissione Europea più importante di tutte: la direzione generale per gli Affari Economici e Finanziari. Gerard Schroeder ha bisogno di un cavallo di razza per guidarla. E chiama Regling, che ci resterà fino al 2008. Per quasi trent’anni, questo funzionario affabile e riservato ha vissuto ogni fase di sviluppo del progetto dell’euro, nel ruolo di protagonista e di garante degli interessi tedeschi. Il coronamento di una carriera così spettacolare non poteva che essere la presidenza della Bce. O almeno così sembrava.
Gli anni della grande crisi
La presidenza del francese Jean-Claude Trichet è la più disastrosa della storia dell’Eurotower: nel mezzo di una crisi del debito vengono alzati i tassi di interesse. Per salvare la moneta unica, Berlino deve fare un passo di lato e consentire alla Bce di allentare i cordoni della borsa, seppure non troppo e pur sempre in enorme ritardo rispetto alla Federal Reserve. Ma Angela Merkel non può certo mettere la faccia su un abbassamento dei tassi che avrebbe eroso i margini di profitto delle banche tedesche, abituate ad offrire ai correntisti rendimenti molto interessanti, né tantomeno su un possibile incremento dell’inflazione (che non avverrà). A Francoforte ci vuole un italiano. Ci vuole Mario Draghi.
Regling, dato inizialmente come possibile successore di Trichet, viene così dirottato nel 2010 alla presidenza dell’Efsf, il primo fondo salva-Stati europeo, che si occupa del salvataggio di Grecia, Irlanda e Portogallo. Le chiavi della cassaforte rimangono così in mano alla Germania, mentre la Bce rimane quello che è: una banca centrale che non è davvero una banca centrale, mancando del ruolo di prestatore di ultima istanza. Quando, nel 2011, Draghi prende le redini dell’Eurotower, lo spettro del default minaccia l’Italia. L’Efsf non ha abbastanza fondi per salvare un’economia di queste dimensioni. Dopo un duro braccio di ferro con Schaeuble e Weidmann, Draghi lancia il piano Omt (prestiti in cambio di riforme) e poi, finalmente, il ‘quantitative easing’. Nel frattempo all’Efsf si affianca l’Esm, o Mes, un organismo permanente che aumenta la sua dotazione a 700 miliardi e diventa un vero e proprio Fondo Monetario europeo. A cosa serve se c’è il piano Omt?
Un manager per l’Eurozona
Le azioni intraprese da Draghi erano blindate dalla copertura politica fornita da Angela Merkel la cui leadership europea, allora indiscussa, è oggi agli sgoccioli. Christine Lagarde, se uno Stato avesse di nuovo bisogno di aiuti, avrebbe molte difficoltà a far passare un piano Omt. Ciò perché nella Bce le decisioni si prendono per “consenso”, cercando con fatica un compromesso tra le parti. Klaus Regling è invece un “direttore generale”, ha un’autonomia maggiore e la Commissione Europea deve tener conto dei suoi pareri. Il suo ruolo nell’Efsf è quello di “Ceo”, amministratore delegato. Un vero e proprio manager con una “mission”: far sì che l’integrazione dell’Eurozona diventi più stretta solo al patto di seguire il disegno tedesco.
Il progetto di completamento dell’unione bancaria suggerito da Scholz e il piano di riforma del Mef procedono su binari paralleli e sono funzionali l’uno all’altro.
Il primo intende spingere le banche che detengono forti quote di debito pubblico a dismetterle, eliminando il “rischio zero”, scenario che avrebbe effetti devastanti per l’Italia.
Il secondo, oltre a garantire copertura al fondo comune di garanzia per i depositi che ancora manca all’unione bancaria, evoca lo spettro della ristrutturazione del debito per i Paesi, come l’Italia, con i conti troppo in disordine per poter accedere agli aiuti. Ciò significherebbe che, una volta entrata in vigore la riforma, si scatenerebbe subito un attacco speculativo ai danni di Roma e, in assenza degli accantonamenti richiesti dal progetto Scholz, il sistema bancario italiano verrebbe travolto.
L’obiettivo di Berlino è il solito, quello richiamato più volte da Schaeuble: spezzare il legame tra banche e debito sovrano, per creare un’Eurozona virtuosa dove i rischi saranno diventati abbastanza bassi da rendere accettabile per gli elettori tedeschi condividerli. Un obiettivo che per l’Italia avrebbe costi così alti da apparire irrealizzabili, politicamente improponibili.
La Germania intende comunque provarci e ha un piano molto chiaro. E l’unico che potrebbe riuscire a portarlo a termine è questo silente burocrate che, dietro le quinte, è stato sin dal principio il vero regista dell’unione monetaria.
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I tedeschi vogliono salvare solo se stessi
Roberto Sommella – Milano Finanza
Gli effetti che si prevedono dalla riforma del Fondo Salva Stati si arricchiscono di una nuova potenziale minaccia: gli aiuti andranno solo a chi non ne ha bisogno. L’assurdità delle regole che sottintendono alla riforma dell’Esm o Mes che dir si voglia, braccio armato per la correzione dei conti pubblici nell’Eurozona, e nuovo argomento di polemica politica tra chi presumibilmente non ha letto una riga delle oltre 700 pagine che compongono l’intero dossier, è stata messa a nudo da un recente studio del think tank Bruegel che ha scritto nero su bianco come solo 10 dei 19 Paesi della moneta unica potranno accedere al sostegno finanziario.
Gli strumenti messi a disposizione dalla nuova troika formata dal board dell’Esm, dalla Commissione Ue e dalla Bce, rischiano infatti di avere condizioni così stringenti da rendere il meccanismo inefficace. I criteri per accedere alla linea di credito precauzionale condizionata potrebbero addirittura lasciare fuori proprio gli Stati che ne avrebbero maggior bisogno. Come offrire le medicine a chi è sano e negarle invece a chi sta per morire. Al solo pensiero vengono i brividi poi se si considera che la revisione in questione dell’ex Fondo salva banche divenuto ora salva paesi è stato concepito dalla Germania, che ha purtroppo un’antica e tragica esperienza in questo genere di selezione di specie.
L’aspetto da tenere a mente è dunque che la riforma del Meccanismo europeo di stabilità (Mes) rischia di penalizzare eccessivamente i partners più in difficoltà, quando a soffrire in questo momento sono bel altri soggetti. Proprio ieri Moody’s ha tagliato l’outlook della banche tedesche, con Deutsche Bank che dal 2007 ha perso oltre il 60% di capitalizzazione e Commerzbank la metà.
La misura prevista dagli sherpa europei, pronta a essere finalizzata a dicembre e che sta appunto scatenando moltissime polemiche in Italia tra Matteo Salvini e il premier Giuseppe Conte, sarà limitata ai Paesi membri la cui situazione economica e finanziaria, pur fondamentalmente solida, potrebbe essere influenzata da uno shock negativo al di fuori del loro controllo. E non si tratta stavolta di un’ipotesi campata in aria ma prevista dagli annessi III e IV alla bozza di Trattato sul Fondo Salva Stati che dovrà essere ratificato da tutti i parlamenti dell’eurozona.
L’insensatezza della misura è palese, perché chi chiede l’accesso agli aiuti dovrà rispettare alcuni parametri quantitativi di bilancio nei due anni precedenti la richiesta di assistenza finanziaria, tra cui un disavanzo inferiore al 3% del pil e un debito pubblico inferiore al 60% del pil o una riduzione di questo rapporto di un ventesimo l’anno. Tanto per fare un esempio: in questo momento non potrebbe accedervi l’Italia perché, pur non avendo sforato il parametro di Maastricht sul fabbisogno, non sta rispettando la regola del debito, come gli ha puntualmente ricordato il commissario europeo, Pierre Moscovici, nel dare il via libera sostanziale alla manovra del governo. Non solo.
Il paese alla fame non dovrà neppure essere sotto procedura per disavanzi eccessivi, né avere squilibri esagerati. La revisione delle regole sui salvataggi affida poi allo stesso Mes, alla Commissione europea e alla Bce il compito di valutare la sostenibilità dei debiti sovrani. Insomma sarà la nuova euro burocrazia, che di fatto si sostituisce alla Commissione e oggi guidata, guarda caso, da un tedesco, Klaus Regling, a decidere chi può essere salvato e chi no.
Tempo fa un’analisi sempre del centro Bruegel evidenziava proprio questo aspetto insensato della riforma dell’Esm, che tanto fa discutere, dalla Banca d’Italia al ministro dell’Economia, Roberto Gualtieri, e che impegnerà il premier Conte il prossimo 10 dicembre in Parlamento per le sue comunicazioni sul tema. La modifica che permette agli Stati in difficoltà di chiedere aiuto, limitandosi a fornire una lettera di intenti, rischia, secondo gli studiosi, di tenere fuori circa la metà dei Paesi.
All’epoca sui 19 Stati che adottano la moneta unica, dieci non avrebbero avuto accesso al sostegno in caso di necessità e tra questi anche l’Italia, oltre a Francia, Spagna, Grecia e Portogallo. Lo stesso studio evidenziava anche come alcuni riferimenti al deficit strutturale rendessero tale criterio inadeguato, rischiando di portare a discussioni e negoziati tra Stati, Commissione Ue e Mes e riducendo il grado di trasparenza e prevedibilità del processo di valutazione, andando quindi in direzione opposta agli obiettivi che la revisione si è posta.
C’è ben poco da aggiungere. Fatta l’Unione, mancano ancora dei veri europei che ragionino oltre i tornaconto nazionali.
Fonte
* non penso sia del tutto corretto parlare di "cannibalizzazione". La definizione più adeguata è quella di imperialismo - o colonialismo - "interno".
Il vergolettato deriva dalla natura stessa della UE, una sovrastruttura non completamente statuale entro cui la Germania ha costruito (o meglio le è stato consentito di farlo) senza carri armati il proprio "reich".
16/11/2019
Il Corriere della Sera invita tutti alla resa
Se si vuol capire la resistibile ascesa di Matteo Salvini non si può fare a meno di maledire la “classe dirigente” di questo paese, compresa ovviamente – quasi in prima fila – la scarsa intellighenzia borghesuccia che pontifica dai media mainstream.
Due diversi “interventi”, sul Corriere della Sera di oggi, danno la misura del livello ignobile in cui è precipitata questa “classe” in palese confusione.
Si tratta di parole diverse per contenuto e competenza (toh!), ma convergenti nella conclusione politica (tipica del Corriere, peraltro): “non vi opponete mai, sarà peggio!”.
L’editoriale più “pesante” e pensato è quello di Lucrezia Reichlin, esempio paradigmatico della trasformazione della “sinistra” in baluardo del neoliberismo delle multinazionali. La figlia di Alfredo Reichlin (dirigente di altissimo livello del Pci) e Luciana Castellina (tra le fondatrici de il manifesto) è da decenni interna alle tecnoburocrazie che guidano verso il disastro le economie europee.
Con un cursus studiorum tutto costruito nei templi del “pensiero unico” (New York University, Université livre di Bruxelles, tranne l’adolescenza al liceo Tasso), è stata nientepopodimeno che Direttore generale alla Ricerca della Banca centrale europea, durante la presidenza di Jean-Claude Trichet, una delle 12 direzioni generali della BCE. Nel Gotha, insomma...
Su cosa interviene? Sulla proposta di “riforma” avanzata dal ministro delle finanze tedesco, Olaf Scholz, per portare avanti “l’unione bancaria” in base a uno scambio: la Germania (e l’Olanda, con altri paesi del Grande Nord) accetta di condividere la garanzia dei conti correnti di banche che falliscono (oggi fino a 100.000 euro, ma a carico degli stati nazionali dove quelle banche sono basate), e gli altri, tra cui l’Italia, accettano una “stima di rischio” alta per i titoli di Stato emessi dai paesi del Sud Europa, trasformando il ruolo del Mes (meccanismo europeo di stabilità) in un meccanismo automatico anziché affidato alla mediazione tra governi nazionali.
Sull’argomento, effettivamente poco trattato dalla stampa nazionale mainstream, abbiamo già scritto, evidenziando come persino “europeisti” senza se e senza ma – dopo aver analizzato la proposta di Scholz – l’hanno diplomaticamente declinata in chiave di tentativo di rapina da parte tedesca.
Rinviamo a quello e altri articoli chi vuole approfondire la parte tecnica, qui ci limitiamo alla considerazione politica. La Reichlin, in buona sostanza, dice che la proposta di Scholz andrebbe accolta “anche se gli elementi singoli della proposta Scholz sono discutibili”, perché “chiudere il dialogo [con la Germania] non conviene a noi e impedisce ogni progresso del progetto europeo”.
Ai comuni mortali può sfuggire la “convenienza” del farsi rapinare mostrandosi arrendevoli con i criminali, ma in questo modo sono state condotte tutte le trattative tra governanti italiani ed europei negli ultimi 30 anni. La dimostrazione più lampante sta nella patetica scena di Romano Prodi – ex Presidente della Commissione Europea, prima di Barroso e Juncker, mica uno che passava di lì per caso – davanti alle critiche per la dismissione dell’Iri, che ha quasi azzerato il patrimonio industriale italiano. Una scena che ai cinefili richiama il John Belushi dei Blues Brothers, quando incontra nei sottopassaggi la fidanzata mollata il giorno del matrimonio...
Ma tant’è, per chi lavora da anni a una Unione asimmetrica, pro-multinazionali e paesi forti, “non c’è alternativa”. Tocca sottostare, farsi rapinare sorridendo altrimenti ci prendono pure a mazzate...
Simile, ma più terra terra, il “ragionamento di Aldo Cazzullo davanti alle contestazioni bolognesi a Salvini. La tesi è quasi imbarazzante: “Di sicuro avvantaggiano Salvini le contestazioni (quelle aggressive, non quella pacifica di Piazza Maggiore)”.
Chi ha seguito le due piazze (Salvini era chiuso nel Palazzetto) sa che una delle due manifestazioni è stata aggredita, sì, ma dalla polizia (nostalgica di Mr. Mojito?).
Peggio: “i sedicenti anarchici che vorrebbero impedirgli di parlare in realtà gli fanno il controcanto”. Siamo consapevoli che c’è sempre qualcuno che aspira anche ad una piccolissima citazione nella “Storia universale dell’infamia”; e conosciamo anche le grossolane tecniche retoriche dei reazionari al potere (“mostrificare l’avversario”), costretti a dipingere le migliaia di giovani e anziani (compreso il padre della candidata leghista!) come “aspiranti terroristi” (gli anarchici, nelle classifiche dell’immaginario borghese, sono quasi il massimo degli incubi, a dispetto della loro irrilevanza e indole pacifica).
Ma sappiamo benissimo che il povero Cazzullo è stipendiato – bene, ci sembra di capire – per portare ogni discorso sull’unico piano che interessa alla proprietà del Corriere: “non vi opponete, né alla Germania, né all’Unione Europea, né a Salvini... Lasciate che ci pensiamo noi, che sappiamo come venderci e soprattutto come vender voi”.
Non ci stiamo.
Fonte
Due diversi “interventi”, sul Corriere della Sera di oggi, danno la misura del livello ignobile in cui è precipitata questa “classe” in palese confusione.
Si tratta di parole diverse per contenuto e competenza (toh!), ma convergenti nella conclusione politica (tipica del Corriere, peraltro): “non vi opponete mai, sarà peggio!”.
L’editoriale più “pesante” e pensato è quello di Lucrezia Reichlin, esempio paradigmatico della trasformazione della “sinistra” in baluardo del neoliberismo delle multinazionali. La figlia di Alfredo Reichlin (dirigente di altissimo livello del Pci) e Luciana Castellina (tra le fondatrici de il manifesto) è da decenni interna alle tecnoburocrazie che guidano verso il disastro le economie europee.
Con un cursus studiorum tutto costruito nei templi del “pensiero unico” (New York University, Université livre di Bruxelles, tranne l’adolescenza al liceo Tasso), è stata nientepopodimeno che Direttore generale alla Ricerca della Banca centrale europea, durante la presidenza di Jean-Claude Trichet, una delle 12 direzioni generali della BCE. Nel Gotha, insomma...
Su cosa interviene? Sulla proposta di “riforma” avanzata dal ministro delle finanze tedesco, Olaf Scholz, per portare avanti “l’unione bancaria” in base a uno scambio: la Germania (e l’Olanda, con altri paesi del Grande Nord) accetta di condividere la garanzia dei conti correnti di banche che falliscono (oggi fino a 100.000 euro, ma a carico degli stati nazionali dove quelle banche sono basate), e gli altri, tra cui l’Italia, accettano una “stima di rischio” alta per i titoli di Stato emessi dai paesi del Sud Europa, trasformando il ruolo del Mes (meccanismo europeo di stabilità) in un meccanismo automatico anziché affidato alla mediazione tra governi nazionali.
Sull’argomento, effettivamente poco trattato dalla stampa nazionale mainstream, abbiamo già scritto, evidenziando come persino “europeisti” senza se e senza ma – dopo aver analizzato la proposta di Scholz – l’hanno diplomaticamente declinata in chiave di tentativo di rapina da parte tedesca.
Rinviamo a quello e altri articoli chi vuole approfondire la parte tecnica, qui ci limitiamo alla considerazione politica. La Reichlin, in buona sostanza, dice che la proposta di Scholz andrebbe accolta “anche se gli elementi singoli della proposta Scholz sono discutibili”, perché “chiudere il dialogo [con la Germania] non conviene a noi e impedisce ogni progresso del progetto europeo”.
Ai comuni mortali può sfuggire la “convenienza” del farsi rapinare mostrandosi arrendevoli con i criminali, ma in questo modo sono state condotte tutte le trattative tra governanti italiani ed europei negli ultimi 30 anni. La dimostrazione più lampante sta nella patetica scena di Romano Prodi – ex Presidente della Commissione Europea, prima di Barroso e Juncker, mica uno che passava di lì per caso – davanti alle critiche per la dismissione dell’Iri, che ha quasi azzerato il patrimonio industriale italiano. Una scena che ai cinefili richiama il John Belushi dei Blues Brothers, quando incontra nei sottopassaggi la fidanzata mollata il giorno del matrimonio...
Ma tant’è, per chi lavora da anni a una Unione asimmetrica, pro-multinazionali e paesi forti, “non c’è alternativa”. Tocca sottostare, farsi rapinare sorridendo altrimenti ci prendono pure a mazzate...
Simile, ma più terra terra, il “ragionamento di Aldo Cazzullo davanti alle contestazioni bolognesi a Salvini. La tesi è quasi imbarazzante: “Di sicuro avvantaggiano Salvini le contestazioni (quelle aggressive, non quella pacifica di Piazza Maggiore)”.
Chi ha seguito le due piazze (Salvini era chiuso nel Palazzetto) sa che una delle due manifestazioni è stata aggredita, sì, ma dalla polizia (nostalgica di Mr. Mojito?).
Peggio: “i sedicenti anarchici che vorrebbero impedirgli di parlare in realtà gli fanno il controcanto”. Siamo consapevoli che c’è sempre qualcuno che aspira anche ad una piccolissima citazione nella “Storia universale dell’infamia”; e conosciamo anche le grossolane tecniche retoriche dei reazionari al potere (“mostrificare l’avversario”), costretti a dipingere le migliaia di giovani e anziani (compreso il padre della candidata leghista!) come “aspiranti terroristi” (gli anarchici, nelle classifiche dell’immaginario borghese, sono quasi il massimo degli incubi, a dispetto della loro irrilevanza e indole pacifica).
Ma sappiamo benissimo che il povero Cazzullo è stipendiato – bene, ci sembra di capire – per portare ogni discorso sull’unico piano che interessa alla proprietà del Corriere: “non vi opponete, né alla Germania, né all’Unione Europea, né a Salvini... Lasciate che ci pensiamo noi, che sappiamo come venderci e soprattutto come vender voi”.
Non ci stiamo.
Fonte
08/11/2019
Germania in crisi, ma in cerca di prede facili
I nostri lettori ormai sanno che “il governo” di questo paese non risiede più, da molto tempo, a Palazzo Chigi; bensì nelle varie location delle istituzioni europee. E ogni giorno se ne ha una prova in più.
Ieri, per esempio, davamo conto della straordinario progetto di rapina nascosto dietro il “ramoscello d’ulivo” mostrato dal ministro delle finanze tedesco, Olaf Scholz (“socialdemocratico”, addirittura!), con la prima formale “apertura” alla possibilità di rafforzare l’unione bancaria continentale con un assicurazione europea dei conti correnti (fino a 100.000 euro) in caso di fallimento di una o più banche.
Oggi dobbiamo alzare un attimo il velo sulle trattative in corso sulla “riforma” del Meccanismo Europeo di Stabilità (Mes), ossia del fondo che viene attivato quando un paese non riesce più a piazzare i suoi titoli di stato sul mercato (è accaduto per la Grecia, e si è visto con quali effetti). Si sta discutendo, in gran segreto (come sempre, per queste cose che poi decideranno della vita di tutti noi), per trasformarlo in un vero e proprio trattato firmato e condiviso da tutti i paesi europei, consegnandogli così le chiavi della governance finanziaria futura.
Fin qui questo fondo è stato una sorta di polizza assicurativa, che viene pagata da ogni singolo paese ma risarcisce solo quando qualcuno ne fa richiesta (sottoponendosi a condizioni assai stringenti per quanto riguarda la spesa pubblica futura). Di fatto, visto che la Bce per statuto non ricopre questo ruolo, funziona da “prestatore di ultima istanza” e, in qualche misura, da “tranquillante” per gli investitori finanziari. Tutti i paesi coperti dal Mes, infatti, sono considerati “relativamente sicuri” proprio perché si sa che c’è un soggetto che, eventualmente, può pagare i creditori. Non sono e non siamo tutti uguali, a quegli occhi, e infatti la differenza viene misurata con lo spread.
Il suo limite è che nella sua forma legale attuale il Mes è “fuori dal perimetro delle istituzioni dell’Unione Europea”, in quanto solo citato all’interno del trattato chiamato Fiscal Compact. Non risponde al Parlamento europeo e il suo funzionamento è determinato con il “metodo intergovernativo” (trattative tra tutti gli Stati) e non in modo “automatico”. L’esigenza di “istituzionalizzarlo” in un apposito trattato, insomma, non è di per sé illogica. Ma il diavolo, come sempre, si nasconde nei dettagli.
Di cosa stanno discutendo, infatti, intorno al Mes?
Per saperlo, le Commissioni riunite V e XIV della Camera dei Deputati hanno convocati in audizione Giampaolo Galli, “europeista” duro e puro di lunghissima data, ex parlamentare del Pd, ex economista del Fondo Montario Internazionale, consulente della Commissionne presieduta da Romano Prodi, ex capo-economista di Confidustria e attualmente vicedirettore dell’Osservatorio di conti pubblici della Cattolica di Milano.
Contrariamente a quel che si potrebbe pensare, però, Giampaolo Galli ha bocciato senza appello le proposte di “riforma” avanzate soprattutto da Germania, Olanda e altri paesi del Nord Europa.
Sul piano istituzionale, infatti, “la riforma sposta decisamente l’asse del potere economico nell’Eurozona dalla Commissione al Mes” (ossia dal “governo” continentale a un istituto con appena 160 dipendenti “tecnici”, chiamato a decidere del futuro di milioni di persone).
Sul piano pratico, però, la “riforma” è anche più pericolosa, perché l’eventuale “aiuto del Mes può essere erogato solo a condizione che vi sia una ristrutturazione del debito”. Qui è necessario capirsi. “Ristrutturazione del debito” significa che un soggetto – un Paese o un privato – si dichiara incapace di pagare il suo debito per intero e dunque contratta con i creditori una formula di restituzione molto minore, con ovvia perdita per i creditori stessi.
Se i prestatori sono “investitori istituzionali” (banche d’affari, fondi di investimento, ecc), le loro perdite vanno iscritte a bilancio, ma vengono immediatamente “ripianate” con l’emissione di altri prodotti finanziari. Insomma, è quasi indolore...
Ma la “ristrutturazione” che si vorrebbe imporre con il Mes va a colpire i sottoscrittori dei titoli di Stato del paese che chiede aiuto. Ossia le banche di quel paese e quindi tutti i correntisti che hanno messo i propri risparmi in titoli di stato del proprio paese (“il popolo dei Bot”, veniva detto un tempo).
Lo stesso Galli, nonostante il suo antico amore per la Ue, è costretto a dire che questo “non ha senso nell’Italia di oggi, [dove] il 70% del debito è detenuto da operatori residenti. Una ristrutturazione sarebbe una calamità immensa, genererebbe distruzione di risparmio, fallimenti di banche e imprese, disoccupazione di massa e impoverimento della popolazione senza precedenti nel dopoguerra”.
Fa effetto sentire un placido economista navigato tra Fmi e Pd dire: “Una ristrutturazione preventiva sarebbe un colpo di pistola a sangue freddo alla tempia dei risparmiatori, una sorta di bail-in applicato a milioni di persone che hanno dato fiducia allo Stato comprando debito pubblico”.
Se, com’è necessario, teniamo presente questa “riforma” insieme al tipo di “unione bancaria” proposta da Scholz, il quadro che ne esce è quello di un futuro saccheggio “legalizzato” delle ricchezze ancora presenti su questo territorio (attività economiche, banche, risparmio delle famiglie, immobili, ecc). All’unico scopo di “salvare” altre attività finanziarie (come Deutsche Bank) ormai sull’orlo del fallimento.
Naturalmente i pochi media – di area fascioleghista – che hanno dato questa notizia fanno il giochino lurido di indicare in queste “trattative” il vero motivo dell’improvvisa “crisi di agosto”, con l’uscita della Lega dal governo.
In realtà, la Lega – al di là delle sparate mussoliniane del suo segretario Mojito – sta lavorando per ottenere uno status europeo che le consenta, la prossima volta, di andare al governo senza sollevare le preoccupazioni dei “mercati” e l’ostilità delle formazioni storicamente al governo nei palazzi di Bruxelles. Basta ricordarsi la sortita del suo vero “tessitore di trame”, Giancarlo Giorgetti, che qualche settimana fa – intervistato da Lucia Annunziata – ha di fatto annunciato la svolta “europeista” con queste parole: “La Lega nel Ppe? Non lo escluderei a priori. Con la Csu bavarese (la dependance regionale della Cdu, ndr), ad esempio, ci sono molti elementi di consonanza”.
Il Partito Popolare Europeo è il cortile di di casa di Angela Merkel, Wolfgang Schauble, Ursula Von der Leyen, Manfred Weber e via elencando. L’ultimo posto dove si possa giocare a fare i nazionalisti de noantri.
Fatevi due conti...
Fonte
Ieri, per esempio, davamo conto della straordinario progetto di rapina nascosto dietro il “ramoscello d’ulivo” mostrato dal ministro delle finanze tedesco, Olaf Scholz (“socialdemocratico”, addirittura!), con la prima formale “apertura” alla possibilità di rafforzare l’unione bancaria continentale con un assicurazione europea dei conti correnti (fino a 100.000 euro) in caso di fallimento di una o più banche.
Oggi dobbiamo alzare un attimo il velo sulle trattative in corso sulla “riforma” del Meccanismo Europeo di Stabilità (Mes), ossia del fondo che viene attivato quando un paese non riesce più a piazzare i suoi titoli di stato sul mercato (è accaduto per la Grecia, e si è visto con quali effetti). Si sta discutendo, in gran segreto (come sempre, per queste cose che poi decideranno della vita di tutti noi), per trasformarlo in un vero e proprio trattato firmato e condiviso da tutti i paesi europei, consegnandogli così le chiavi della governance finanziaria futura.
Fin qui questo fondo è stato una sorta di polizza assicurativa, che viene pagata da ogni singolo paese ma risarcisce solo quando qualcuno ne fa richiesta (sottoponendosi a condizioni assai stringenti per quanto riguarda la spesa pubblica futura). Di fatto, visto che la Bce per statuto non ricopre questo ruolo, funziona da “prestatore di ultima istanza” e, in qualche misura, da “tranquillante” per gli investitori finanziari. Tutti i paesi coperti dal Mes, infatti, sono considerati “relativamente sicuri” proprio perché si sa che c’è un soggetto che, eventualmente, può pagare i creditori. Non sono e non siamo tutti uguali, a quegli occhi, e infatti la differenza viene misurata con lo spread.
Il suo limite è che nella sua forma legale attuale il Mes è “fuori dal perimetro delle istituzioni dell’Unione Europea”, in quanto solo citato all’interno del trattato chiamato Fiscal Compact. Non risponde al Parlamento europeo e il suo funzionamento è determinato con il “metodo intergovernativo” (trattative tra tutti gli Stati) e non in modo “automatico”. L’esigenza di “istituzionalizzarlo” in un apposito trattato, insomma, non è di per sé illogica. Ma il diavolo, come sempre, si nasconde nei dettagli.
Di cosa stanno discutendo, infatti, intorno al Mes?
Per saperlo, le Commissioni riunite V e XIV della Camera dei Deputati hanno convocati in audizione Giampaolo Galli, “europeista” duro e puro di lunghissima data, ex parlamentare del Pd, ex economista del Fondo Montario Internazionale, consulente della Commissionne presieduta da Romano Prodi, ex capo-economista di Confidustria e attualmente vicedirettore dell’Osservatorio di conti pubblici della Cattolica di Milano.
Contrariamente a quel che si potrebbe pensare, però, Giampaolo Galli ha bocciato senza appello le proposte di “riforma” avanzate soprattutto da Germania, Olanda e altri paesi del Nord Europa.
Sul piano istituzionale, infatti, “la riforma sposta decisamente l’asse del potere economico nell’Eurozona dalla Commissione al Mes” (ossia dal “governo” continentale a un istituto con appena 160 dipendenti “tecnici”, chiamato a decidere del futuro di milioni di persone).
Sul piano pratico, però, la “riforma” è anche più pericolosa, perché l’eventuale “aiuto del Mes può essere erogato solo a condizione che vi sia una ristrutturazione del debito”. Qui è necessario capirsi. “Ristrutturazione del debito” significa che un soggetto – un Paese o un privato – si dichiara incapace di pagare il suo debito per intero e dunque contratta con i creditori una formula di restituzione molto minore, con ovvia perdita per i creditori stessi.
Se i prestatori sono “investitori istituzionali” (banche d’affari, fondi di investimento, ecc), le loro perdite vanno iscritte a bilancio, ma vengono immediatamente “ripianate” con l’emissione di altri prodotti finanziari. Insomma, è quasi indolore...
Ma la “ristrutturazione” che si vorrebbe imporre con il Mes va a colpire i sottoscrittori dei titoli di Stato del paese che chiede aiuto. Ossia le banche di quel paese e quindi tutti i correntisti che hanno messo i propri risparmi in titoli di stato del proprio paese (“il popolo dei Bot”, veniva detto un tempo).
Lo stesso Galli, nonostante il suo antico amore per la Ue, è costretto a dire che questo “non ha senso nell’Italia di oggi, [dove] il 70% del debito è detenuto da operatori residenti. Una ristrutturazione sarebbe una calamità immensa, genererebbe distruzione di risparmio, fallimenti di banche e imprese, disoccupazione di massa e impoverimento della popolazione senza precedenti nel dopoguerra”.
Fa effetto sentire un placido economista navigato tra Fmi e Pd dire: “Una ristrutturazione preventiva sarebbe un colpo di pistola a sangue freddo alla tempia dei risparmiatori, una sorta di bail-in applicato a milioni di persone che hanno dato fiducia allo Stato comprando debito pubblico”.
Se, com’è necessario, teniamo presente questa “riforma” insieme al tipo di “unione bancaria” proposta da Scholz, il quadro che ne esce è quello di un futuro saccheggio “legalizzato” delle ricchezze ancora presenti su questo territorio (attività economiche, banche, risparmio delle famiglie, immobili, ecc). All’unico scopo di “salvare” altre attività finanziarie (come Deutsche Bank) ormai sull’orlo del fallimento.
Naturalmente i pochi media – di area fascioleghista – che hanno dato questa notizia fanno il giochino lurido di indicare in queste “trattative” il vero motivo dell’improvvisa “crisi di agosto”, con l’uscita della Lega dal governo.
In realtà, la Lega – al di là delle sparate mussoliniane del suo segretario Mojito – sta lavorando per ottenere uno status europeo che le consenta, la prossima volta, di andare al governo senza sollevare le preoccupazioni dei “mercati” e l’ostilità delle formazioni storicamente al governo nei palazzi di Bruxelles. Basta ricordarsi la sortita del suo vero “tessitore di trame”, Giancarlo Giorgetti, che qualche settimana fa – intervistato da Lucia Annunziata – ha di fatto annunciato la svolta “europeista” con queste parole: “La Lega nel Ppe? Non lo escluderei a priori. Con la Csu bavarese (la dependance regionale della Cdu, ndr), ad esempio, ci sono molti elementi di consonanza”.
Il Partito Popolare Europeo è il cortile di di casa di Angela Merkel, Wolfgang Schauble, Ursula Von der Leyen, Manfred Weber e via elencando. L’ultimo posto dove si possa giocare a fare i nazionalisti de noantri.
Fatevi due conti...
Fonte
07/11/2019
Olaf Scholz, un vampiro travestito da colomba
Timeo Danaos et dona ferentes... o anche: quando il lupo si fa agnello, il pericolo è alle porte.
Il ministro tedesco delle finanze, Olaf Scholz, ha rotto senza preavviso un tabù cementato a suo tempo dal predecessore, il luciferino Wolfgang Schauble. Ha infatti ammesso che è ora di completare l’unione bancaria europea, dando anche vita a «una qualche forma comune di assicurazione dei depositi».
Fin qui, in caso di collasso di una o più banche, i conti correnti dei depositanti sono “assicurati” fino 100.000 euro dai singoli stati nazionali. Ma in una crisi di grandi dimensioni, come quella del 2008, le risorse nazionali potrebbero essere insufficienti; dunque, tutti i paesi più deboli avevano sempre chiesto che fosse creata una regola per la condivisione collettiva di questo rischio.
Non se n’è mai fatto nulla perché Germania, Olanda, Finlandia (e Francia, più silenziosamente) hanno sempre opposto un “niet” senza eccezioni. “Non chiederemo mai ai nostri cittadini di pagare per i debiti dei paesi che spendono i soldi in donne e champagne”, come sprezzantemente li definiva Jeroen Dijsselbloem, ex capo dell’Eurogruppo.
Apparentemente, dunque, l’apertura a una «una qualche forma comune di assicurazione dei depositi» può sembrare un ramoscello d’ulivo nei confronti dei paesi “cicala”. E così l’ha dipinta lo stesso Scholz: «Non è un piccolo passo per un ministro tedesco delle Finanze».
Naturalmente non è così. La disponibilità a ri-assicurare i correntisti è subordinata alla riscrittura dei criteri con cui si valuta lo stato di salute delle banche private. In particolare, Scholz chiede un’ulteriore riduzione dei “crediti deteriorati” e di valutare come rischiosi gli stessi titoli di Stato.
Silenzio assoluto invece sui “titoli illiquidi”, ossia i prodotti finanziari derivati da anni in pancia soprattutto alle banche tedesche e francesi. Uno strabismo curioso, visto che “i mercati” sono assai meno “comprensivi” con quelle stesse banche, con caduta continua dei valori azionari relativi.
Di fatto, insomma, Scholz chiede che le banche italiane (e di altri paesi in condizioni simili) creino “riserve” gigantesche a copertura di rischi legati ai crediti e ai titoli di stato. Ciò significa in primo luogo che queste banche dovrebbero ulteriormente ridurre il loro sostegno (sotto forma di prestiti) a imprese e famiglie. Ossia contribuire a una politica deflazionistica in piena stagnazione economica (il contrario di quel che serve, per dirla semplice).
Non basta. Nello stesso tempo il governo tedesco preme sulla Bce perché, non essendo fin qui riuscita a riportare il tasso di inflazione vicino al 2%, adotti un inflation targeting inferiore e quindi smetta di iniettare liquidità nel sistema finanziario (e bancario). Ossia un’altra misura deflazionistica, che indebolisce ulteriormente il ciclo economico.
C’è poi una terza coincidenza “curiosa” che smentisce qualsiasi “intenerimento” del ministro delle finanze tedesco nei confronti dei partner europei più deboli. Da mesi (e anni) c’è uno zombie che si aggira sui mercati europei e mondiali. Una banca di enormi dimensioni con problemi irrisolvibili legati proprio ai “titoli illiquidi” di cui aveva fatto incetta quando il capitale europeo preferiva giocare alla speculazione globale anziché finanziare innovazione tecnologica e crescita continentale.
Si chiama Deutsche Bank e ha in pancia titoli di carta straccia per un valore nominale (ma invendibili) per quasi 20 volte il Prodotto interno lordo della Germania. Venti volte quanto produce in un anno la più grande economia europea.
Questa banca, nei soli primi nove mesi del 2019, ha dovuto iscrivere a bilancio perdite per 3,78 miliardi di euro. Le sue azioni, nel maggio del 2007, si vendevano a 108,94 euro l’una; oggi a meno di 7 euro...
Viene, per così dire, il “sospetto” che questa (e altre) banca tedesca stia per fare il botto, e che dunque il governo di Berlino stia pensando soltanto ora a come “condividere il rischio” di dover assicurare tutti i correntisti della più grande banca europea.
Ma anche questo sembra troppo poco... Le condizioni poste dal governo tedesco – apertamente deflazionistiche – avrebbero come conseguenza quasi immediata una svalutazione sia delle banche che di altri asset italiani e di altri paesi europei. Che significa? Che chi dispone ancora di una certa liquidità può comprare quelle banche o quegli asset (immobili, industrie, attività) a prezzi inferiori a quelli attuali.
Un bell’affare, senza dubbio, specie se i potenziali acquirenti fossero – come sono – tedeschi. E potrebbero dunque far fronte all’esplosione del proprio sistema saccheggiando le ricchezze dei “partner europei”. Dando loro la colpa, ovviamente, di esser stati poco attenti a “fare i compiti a casa”...
Il che conferma come le “regole europee” altro non siano che una una forma di concorrenza asimmetrica fra paesi europei, ossia l’esatto contrario della “casa comune” con cui travestono ogni proposta criminale a scapito delle popolazioni.
Il minimo che si dovrebbe pretendere da un governo appena dignitoso è il veto assoluto a qualsiasi “proposta” di vampiri travestiti da colombe. Ma vi sembra che questi (e i precedenti) siano governi dignitosi?
Fonte
La UE si identifica ogni giorno di più come lo spazio geograficosu cui la classe capitalista tedesca esercita il proprio imperialismo.
Il ministro tedesco delle finanze, Olaf Scholz, ha rotto senza preavviso un tabù cementato a suo tempo dal predecessore, il luciferino Wolfgang Schauble. Ha infatti ammesso che è ora di completare l’unione bancaria europea, dando anche vita a «una qualche forma comune di assicurazione dei depositi».
Fin qui, in caso di collasso di una o più banche, i conti correnti dei depositanti sono “assicurati” fino 100.000 euro dai singoli stati nazionali. Ma in una crisi di grandi dimensioni, come quella del 2008, le risorse nazionali potrebbero essere insufficienti; dunque, tutti i paesi più deboli avevano sempre chiesto che fosse creata una regola per la condivisione collettiva di questo rischio.
Non se n’è mai fatto nulla perché Germania, Olanda, Finlandia (e Francia, più silenziosamente) hanno sempre opposto un “niet” senza eccezioni. “Non chiederemo mai ai nostri cittadini di pagare per i debiti dei paesi che spendono i soldi in donne e champagne”, come sprezzantemente li definiva Jeroen Dijsselbloem, ex capo dell’Eurogruppo.
Apparentemente, dunque, l’apertura a una «una qualche forma comune di assicurazione dei depositi» può sembrare un ramoscello d’ulivo nei confronti dei paesi “cicala”. E così l’ha dipinta lo stesso Scholz: «Non è un piccolo passo per un ministro tedesco delle Finanze».
Naturalmente non è così. La disponibilità a ri-assicurare i correntisti è subordinata alla riscrittura dei criteri con cui si valuta lo stato di salute delle banche private. In particolare, Scholz chiede un’ulteriore riduzione dei “crediti deteriorati” e di valutare come rischiosi gli stessi titoli di Stato.
Silenzio assoluto invece sui “titoli illiquidi”, ossia i prodotti finanziari derivati da anni in pancia soprattutto alle banche tedesche e francesi. Uno strabismo curioso, visto che “i mercati” sono assai meno “comprensivi” con quelle stesse banche, con caduta continua dei valori azionari relativi.
Di fatto, insomma, Scholz chiede che le banche italiane (e di altri paesi in condizioni simili) creino “riserve” gigantesche a copertura di rischi legati ai crediti e ai titoli di stato. Ciò significa in primo luogo che queste banche dovrebbero ulteriormente ridurre il loro sostegno (sotto forma di prestiti) a imprese e famiglie. Ossia contribuire a una politica deflazionistica in piena stagnazione economica (il contrario di quel che serve, per dirla semplice).
Non basta. Nello stesso tempo il governo tedesco preme sulla Bce perché, non essendo fin qui riuscita a riportare il tasso di inflazione vicino al 2%, adotti un inflation targeting inferiore e quindi smetta di iniettare liquidità nel sistema finanziario (e bancario). Ossia un’altra misura deflazionistica, che indebolisce ulteriormente il ciclo economico.
C’è poi una terza coincidenza “curiosa” che smentisce qualsiasi “intenerimento” del ministro delle finanze tedesco nei confronti dei partner europei più deboli. Da mesi (e anni) c’è uno zombie che si aggira sui mercati europei e mondiali. Una banca di enormi dimensioni con problemi irrisolvibili legati proprio ai “titoli illiquidi” di cui aveva fatto incetta quando il capitale europeo preferiva giocare alla speculazione globale anziché finanziare innovazione tecnologica e crescita continentale.
Si chiama Deutsche Bank e ha in pancia titoli di carta straccia per un valore nominale (ma invendibili) per quasi 20 volte il Prodotto interno lordo della Germania. Venti volte quanto produce in un anno la più grande economia europea.
Questa banca, nei soli primi nove mesi del 2019, ha dovuto iscrivere a bilancio perdite per 3,78 miliardi di euro. Le sue azioni, nel maggio del 2007, si vendevano a 108,94 euro l’una; oggi a meno di 7 euro...
Viene, per così dire, il “sospetto” che questa (e altre) banca tedesca stia per fare il botto, e che dunque il governo di Berlino stia pensando soltanto ora a come “condividere il rischio” di dover assicurare tutti i correntisti della più grande banca europea.
Ma anche questo sembra troppo poco... Le condizioni poste dal governo tedesco – apertamente deflazionistiche – avrebbero come conseguenza quasi immediata una svalutazione sia delle banche che di altri asset italiani e di altri paesi europei. Che significa? Che chi dispone ancora di una certa liquidità può comprare quelle banche o quegli asset (immobili, industrie, attività) a prezzi inferiori a quelli attuali.
Un bell’affare, senza dubbio, specie se i potenziali acquirenti fossero – come sono – tedeschi. E potrebbero dunque far fronte all’esplosione del proprio sistema saccheggiando le ricchezze dei “partner europei”. Dando loro la colpa, ovviamente, di esser stati poco attenti a “fare i compiti a casa”...
Il che conferma come le “regole europee” altro non siano che una una forma di concorrenza asimmetrica fra paesi europei, ossia l’esatto contrario della “casa comune” con cui travestono ogni proposta criminale a scapito delle popolazioni.
Il minimo che si dovrebbe pretendere da un governo appena dignitoso è il veto assoluto a qualsiasi “proposta” di vampiri travestiti da colombe. Ma vi sembra che questi (e i precedenti) siano governi dignitosi?
Fonte
La UE si identifica ogni giorno di più come lo spazio geograficosu cui la classe capitalista tedesca esercita il proprio imperialismo.
27/08/2019
L’Unione bancaria europea e i problemi delle banche italiane
Pubblichiamo la traduzione dell’articolo di Vladimiro Giacché sulla crisi bancaria italiana uscito sul sito dell’Institute for New Economic Thinking, con delle modifiche non sostanziali da parte dell’Autore, che ha anche aggiunto alcune note sul tema delle Banche di Credito Cooperativo.
L’obiettivo con cui l’Unione bancaria europea è nata era quello di ridurre la balcanizzazione finanziaria dell’Eurozona. La balcanizzazione – la frattura del sistema bancario transfrontaliero che avviene quando creditori nervosi si ritirano verso i sicuri porti nazionali – è stata percepita a ragione come uno dei maggiori pericoli per la stabilità e la sussistenza stessa della moneta unica.
Infatti, all’indomani della crisi finanziaria, gran parte delle ricerche disponibili evidenziavano come il sistema – che sino al 2008/2009 si presentava così interconnesso da essere apparentemente inestricabile – si era andato ridisegnando secondo linee “nazionali”. I prestiti transfrontalieri nell’eurozona erano crollati all’incirca alla metà dei valori pre-crisi, e ingenti capitali erano stati rimpatriati da molte banche e investitori nei paesi core (Germania e Francia). I prestiti nei paesi cosiddetti periferici (Grecia, Irlanda, Spagna, Italia e Portogallo) nel frattempo tornavano ad essere sostanzialmente nazionali. Questo, politicamente, era imbarazzante, ma anche pericoloso, poiché rendeva tecnicamente possibile la fine della moneta unica.
Peggio ancora, questa situazione creava un problema ulteriore non meno grave: un circolo vizioso potenzialmente distruttivo tra rischio di credito e rischio sovrano – cioè il rischio che una nazione potesse essere spinta alla bancarotta.
Un obiettivo, tre pilastri
L’idea originale era che un’unione bancaria avrebbe ristabilito un mercato bancario e finanziario integrato attraverso tre pilastri: 1) un sistema unico di vigilanza bancaria 2) procedure di risoluzione che limitassero il rischio di contagio in caso di crisi, e 3) una garanzia europea sui depositi tale da spezzare il nesso tra rischio Paese e rischio bancario.
Questa la teoria. Nella pratica, l’unione bancaria ha generato enormi asimmetrie e condizioni competitive inique in tutta l’Eurozona. Queste asimmetrie hanno colpito in particolare il sistema bancario italiano, in un modo che contribuisce a spiegare gli avvenimenti degli ultimi anni.
Per quanto riguarda il primo pilastro, la vigilanza bancaria unica ha effetti di copertura molto differenti tra i vari sistemi bancari nazionali. Trascura un rischio sistemico molto serio in alcune importanti nazioni dell’Eurozona e perciò le favorisce, almeno nel breve periodo.
Quanto al secondo pilastro, le procedure di salvataggio o risoluzione delle banche in crisi – caratterizzate dal sostanziale divieto di salvataggio pubblico – hanno avuto anch’esse effetti fortemente asimmetrici che hanno danneggiato pesantemente alcuni sistemi nazionali (in primis l’Italia). In particolare, queste regole sono state stabilite solo dopo che molti paesi europei avevano elargito aiuti pubblici senza precedenti alle proprie banche nazionali. Questi enormi trasferimenti finanziari avevano sostanzialmente sospeso – sull’onda dell’emergenza – la normativa europea sugli aiuti di Stato, ovvero sugli interventi pubblici nazionali. Così alterando in misura sostanziale il panorama concorrenziale del sistema bancario in Europa.
Impedire a questo punto la possibilità di qualsiasi tempestivo salvataggio pubblico risulta oggi fortemente penalizzante per quei Paesi, come l’Italia, che nella fase precedente non avevano proceduto a sostenere in modo massiccio il proprio sistema bancario nazionale. Per questi Stati, l’opzione del salvataggio è adesso soggetta a criteri estremamente stringenti e subordinata al cosiddetto “bail-in” – ovvero uno schema che pone in primo luogo a carico di azionisti, obbligazionisti e correntisti le perdite bancarie – non escludendo affatto la strada della risoluzione/chiusura della banca interessata.
Quanto all’entità del sostegno di cui le banche di altri Paesi europei avevano goduto prima dell’entrata in vigore dell’Unione bancaria, un articolo pubblicato da M. Frühauf sulla Frankfurter Allgemeine del 16 agosto 2013 – pochi mesi prima dell’approvazione del meccanismo unico di vigilanza bancaria da parte del Consiglio Europeo – offre dati a dir poco impressionanti. Solo per fare un esempio dei molti salvataggi tedeschi all’indomani della crisi finanziaria, il governo fornì alla compagnia di assicurazione Hypo-Re una garanzia fino a 145 miliardi di euro. Il costo di questo solo salvataggio per i contribuenti tedeschi finora è stato di 20 miliardi di euro. Altre fonti forniscono numeri complessivi leggermente diversi sui salvataggi pubblici, ma quel che emerge chiaramente è la peculiarità della situazione bancaria italiana, che finora ha comportato aiuti pubblici molto inferiori a quelli degli altri paesi europei.
Gli effetti negativi dei primi due pilastri divenivano poi addirittura dirompenti a causa dell’assenza del terzo pilastro: la garanzia europea sui depositi. Questo meccanismo era assolutamente essenziale al fine dichiarato dell’Unione bancaria: arrestare il processo di “balcanizzazione finanziaria”. Infatti l’assenza di una garanzia europea manteneva l’onere della protezione (parziale) dei risparmiatori in capo al sistema Paese interessato. E, ancora una volta, contraddiceva quella solidarietà europea che dovrebbe essere il fondamento dell’architettura istituzionale dell’UE, e in particolare dell’Eurozona.
L’effetto di questo insieme di norme – i due pilastri che ci sono e quello che non c’è – è stato devastante in particolare per il sistema bancario italiano, per il quale le nuove regole hanno mutato in misura sostanziale – e per di più senza alcuna fase transitoria – il panorama normativo vigente da decenni, oltretutto in contraddizione con almeno due articoli della Costituzione italiana (l’art. 43 e l’art. 47).
A dispetto delle intenzioni, il nuovo contesto normativo ha penalizzato pesantemente i risparmiatori, in particolare i detentori delle cosiddette obbligazioni subordinate, diventate improvvisamente più rischiose col nuovo regime.
E, come era facilmente prevedibile, l’assenza sia di una rete di sicurezza pubblica per le situazioni di crisi che di un sistema di garanzia europeo, ha innescato una vera e propria corsa agli sportelli in relazione agli istituti percepiti come più deboli, o che erano alle prese con crisi aziendali che sarebbero state facilmente gestibili nel contesto normativo precedente. In tal modo, secondo il meccanismo ben noto delle previsioni che si auto-avverano, i problemi di liquidità di alcuni istituti hanno dato luogo a una fuga dei depositi che ne ha posto a rischio la solvibilità.
Un’altra pericolosa asimmetria proviene dal trattamento del rischio di mercato nel nuovo regime. Il peso di questo rischio – legato all’attività finanziaria, incluse le transazioni in derivati – risultava assolutamente sottodimensionato rispetto alla sua portata reale già negli Stress Test e Asset Quality Review condotti dalla Banca centrale europea. Il nuovo sistema pone un’attenzione molto maggiore sul rischio di credito – e conseguentemente penalizza i sistemi bancari come quello italiano che sono relativamente meno finanziarizzati, ma nei quali il rischio di credito è un fattore relativamente più importante.
Ma c’è di più: il rischio di mercato, al contrario del rischio di credito, non figura nemmeno nelle 5 priorità della Vigilanza bancaria europea esercitata dalla BCE, come evidenziato nei Rapporti annuali della BCE del 2015, 2016 e 2017 (si veda l’ultimo).
In questo modo risulta insufficientemente vigilata precisamente la tipologia di rischio alla quale è attribuito lo scoppio della crisi culminata nella Grande Recessione. Più concretamente, è insufficientemente vigilato il rischio di mercato espresso da alcune grandi banche tedesche e francesi, e in particolare quello di un colosso quale Deutsche Bank. Conoscere il valore effettivo dei Level 3 assets (derivati) di Deutsche Bank è un esercizio più prossimo alla divinazione che alla stima scientifica: in effetti al team ispettivo della Vigilanza BCE che ha recentemente condotto un’ispezione presso la banca di Francoforte “non è stato richiesto nemmeno di prezzare il valore dei derivati in portafoglio”. L’Autorità di vigilanza europea aveva alzato le mani con un curioso ragionamento: giudicando cioè irrealistico valutare l’adeguatezza del pricing dato ai derivati nel portafoglio di Deutsche Bank e di altre grandi banche, vista la discrezionalità concessa al riguardo a banche e revisori (si veda L. Davi, BCE, 68 banche sotto ispezione. Fuori i Level 3 dalle verifiche, “Il Sole 24 Ore”, 25 gennaio 2017).
Il vincitore è...
Il grande vincitore dell’Unione bancaria è stato il sistema bancario tedesco. Tutte le banche tedesche, ma in particolare le banche di piccole e medie dimensioni, che hanno infatti beneficiato in primo luogo di una costruzione del primo pilastro che ha fissato a 30 miliardi di asset il livello minimo per essere vigilati dalla Bce. Per ottenere questa soglia minima, il ministro delle Finanze tedesco Wolfgang Schäuble minacciò di mettere il veto all’Unione bancaria, e non è un mistero che l’obiettivo era tenere fuori le Sparkassen dalla Vigilanza europea.
Delle 417 Sparkassen soltanto una è oggi vigilata dalla Vigilanza BCE; stiamo parlando di banche cui spetta il 22,3% degli impieghi di quel paese, per un totale di oltre 1.000 miliardi di euro.
Del resto non è questo l’unico modo in cui queste banche pubbliche, tradizionalmente legate alla CDU, sono state protette. Vanno citati almeno altri due modi.
Il primo è rappresentato dal trattamento di favore riservato dalla normativa europea ai cosiddetti Institutional Protection Schemes (IPS). Gli IPS sono sistemi di mutua protezione e garanzia tra le banche associate, regolati contrattualmente a livello di associazione di categoria. Sono diffusi soprattutto in Germania (Sparkassen e Volksbanken), Austria (banche Raiffeisen) e Spagna (Casse di risparmio). Differiscono sia dai gruppi bancari, sia dai network di banche. Pertanto non sono direttamente oggetto della disciplina europea – ad esempio nella Direttiva europea sui requisiti di 4 capitale (CRD IV) gli IPS non sono neppure citati – né degli accordi di Basilea. La cosa è stata giudicata da Thomas Stern, esperto dell’Austrian Financial Markets Authorities, in questi termini: “la decisione del legislatore europeo di non estendere la regolamentazione riguardante capitale e liquidità agli IPS è rimarchevole e difficile da capire da un punto di vista prudenziale”. Stern scrisse queste righe nel 2014, ma da allora la situazione non è cambiata.
Il fatto di essere membri di un IPS in effetti dà alle banche associate una serie significativa di privilegi regolamentari. È appena il caso di dire che le banche italiane in qualche modo confrontabili con le banche che in altri Paesi europei sono associate in IPS, le Banche di Credito Cooperativo, rientrano invece pienamente nella normativa europea anche per quanto riguarda i requisiti di capitale e di liquidità; non solo: con la L. 49/2016 il legislatore italiano ha imposto l’inclusione delle Banche di Credito Cooperativo in Gruppi bancari che, oltre a snaturare la natura mutualistica e cooperativa degli enti associati, avranno in 2 casi su 3 la dimensione di banche “significative” a livello europeo e quindi saranno direttamente vigilate dalla BCE sulla base dei requisiti più stringenti in termini di capitale previsti per le banche di maggiori dimensioni.
Il secondo modo in cui il governo tedesco ha aiutato le proprie Sparkassen è molto interessante, ma purtroppo poco noto: è consistito precisamente nel rimandare sine die il sistema di mutua garanzia e assicurazione dei depositi tra le banche europee.
Il nesso può non apparire immediato. Nel 2013 viene decisa la partenza dell’Unione bancaria con due pilastri su tre. È stato un gravissimo errore dell’Italia non impedire questa asimmetria, che rendeva l’unione bancaria incoerente rispetto alle sue stesse finalità dichiarate.
Nel 2015 comunque procedono in qualche modo i negoziati per attivare anche la mutua garanzia. Ma Sparkassen e Volksbanken non ne vogliono sapere di partecipare al sistema di mutua garanzia europeo, essenzialmente per due motivi: in primo luogo perché ritengono di essere in grado di proteggersi da sole grazie al loro status speciale di IPS; in secondo luogo, perché temono di dover rendere le proprie regole specifiche omogenee a quelle delle altre banche, senza più beneficiare delle eccezioni regolatorie.
Le prime prese di posizione delle Sparkassen contro la mutua garanzia europea risalgono all’estate 2015. Successivamente Schäuble ha minacciato di bloccare la norma nel Consiglio, con la scusa ufficiale che la Germania si rifiutava di pagare per i problemi bancari degli altri paesi. Diversi tentativi di compromesso andarono a vuoto, perché tutti implicavano qualche tipo di vigilanza europea sulle banche tedesche – svelando così la vera natura del problema: il desiderio del governo tedesco di ostacolare qualsiasi forma di vigilanza europea sulle Sparkassen tedesche e le altre banche minori.
A inizio dicembre 2015 Schäuble sembrò arrendersi alle pressioni della Commissione Europea e dei principali altri Stati dell’Eurozona. Il quotidiano economico Deutsche Wirtschafts Nachrichten evidenziò come una decisione del genere potesse aprire la strada a un duro conflitto tra il settore bancario tedesco e il governo.
Poi, l’8 dicembre, il colpo di scena. Il piano di contrattacco di Schäuble da un lato è consistito nel delegittimare la BCE per il suo presunto conflitto di interesse tra il ruolo di guida della politica monetaria e quello di organismo di vigilanza bancaria – una condizione che i leader europei, Schäuble incluso, avevano da poco deliberato. Ha poi annunciato la sua opposizione alla proposta di mutua garanzia in assenza del recepimento da parte di tutti gli Stati della normativa europea sul bail-in, e, punto fondamentale, fino a che non fossero ridotti i rischi del sistema bancario. Successivamente ha precisato come fosse necessario che le banche europee riducessero la 5 quota in portafoglio dei titoli di Stato del proprio paese. Questa mossa tattica non solo ha rimandato sine die la discussione, ma ha anche spostato l’attenzione dal rischio bancario al rischio (sovrano) delle singole nazioni, un campo nel quale la Germania non ha nulla da temere. Fu infatti l’Italia, con il Presidente del Consiglio Renzi, ad essere costretta a porre il veto alla discussione sui bond sovrani nei bilanci bancari, bloccando così la discussione sul terzo pilastro.
Frattanto venivano attivati gli altri due pilastri, saltando completamente il periodo transitorio originariamente proposto per attenuare gli effetti del cambiamento delle regole. Il risultato è presto detto: le Sparkassen tedesche potranno continuare a beneficiare di requisiti di capitale più laschi e di una vigilanza esclusivamente nazionale. Un combinato disposto che rappresenta un mix esplosivo dal punto di vista dei rischi di crisi bancaria.
Oggi una crisi di questo comparto in Germania non avrebbe nulla da invidiare, nei suoi effetti, alla crisi delle casse di risparmio statunitensi (Saving & Loans Banks) degli anni Ottanta. Un ciclo economico tedesco positivo e il fatto che le aree a maggior rischio di crisi sono altre concorrono a far sì che nessuno oggi si avveda del problema. Nel frattempo, le Sparkassen e le altre banche tedesche difendono con le unghie e coi denti la propria autonomia e il diritto di non essere vigilate da nessuna autorità di vigilanza europea (si veda “Deutsche Banken sehen EU-Aufsicht kritisch”, Franckfurter Allgemeine Zeitung, 1 giugno 2017).
Le conseguenze
Comprendendo questo contesto, le radici dei problemi del sistema bancario italiano diventano più chiare. Il peso dei crediti deteriorati (NPL) è derivato dalla peggiore crisi economica in tempo di pace dal 1861. Il problema è emerso anche perché dopo il 2008 non è stato intrapreso nessun salvataggio bancario. Se prendiamo le quotazioni di borsa del settore bancario negli ultimi anni, è facile osservare un andamento fortemente negativo. Tuttavia, ad uno sguardo più attento, si nota che la caduta dei prezzi è in genere avvenuta in concomitanza, più che con notizie genericamente “negative”, con le novità inerenti alla regolamentazione del settore a livello europeo, o in relazione a interventi del regolatore europeo stesso su questa o quella situazione, su questa o quella banca. Si pensi alle lettere spedite dalla vigilanza europea a questa o quella banca, o anche a diverse banche insieme, per esempio per chiedere di cedere subito i crediti problematici – pertanto ad un prezzo molto basso.
Dalla fine del 2015 – quando la Commissione Europea bloccò l’intervento del fondo interbancario di tutela dei depositi per salvare quattro banche locali nei guai – sino al febbraio 2016, dopo l’entrata in vigore del bail-in senza un periodo di transizione e senza alcuna garanzia europea sui depositi, sono stati bruciati 46 miliardi di capitalizzazione di borsa dei titoli bancari italiani su un totale di 134,6. Un crollo del 35%.
È in ogni caso importante sottolineare che in tutti i casi di crisi bancaria verificatisi da fine 2015 in poi un elemento determinante è stata la fuga dei depositi, che semplicemente non avrebbe avuto luogo in vigenza della normativa nazionale precedente l’entrata in vigore dell’Unione bancaria. In tutti questi casi è stata determinante, e ha giocato un ruolo pesantemente negativo, l’assenza di un backstop pubblico sotto forma di salvataggio (bailout). In tal modo non è azzardato affermare che per il sistema bancario italiano la nuova regolamentazione europea ha rappresentato sin dalla sua introduzione un ulteriore fattore di rischio, anziché – come avrebbe dovuto essere – di stabilizzazione.
Che fare?
A inizio 2016 vi fu un dibattito in Italia sull’opportunità o meno di sospendere la regolamentazione sul bail-in. Erano i mesi in cui una buona parte degli Stati dell’Unione Europea sospendeva de facto il Trattato di Schengen – l’accordo di libera circolazione all’interno della UE in vigore dal 1995. Quella sospensione di fatto perdura tuttora, mentre il bail-in non fu mai sospeso. Ciò è stupefacente – specialmente a causa del fatto che le regole del bail-in contraddicono la Costituzione italiana, e date le asimmetrie insite nello strano e traballante tavolo a due gambe che gentilmente chiamiamo “unione bancaria”. Ma non è mai troppo tardi per rovesciare politiche sbagliate e errori di negoziazione. Purché li si comprenda.
Fonte
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L’obiettivo con cui l’Unione bancaria europea è nata era quello di ridurre la balcanizzazione finanziaria dell’Eurozona. La balcanizzazione – la frattura del sistema bancario transfrontaliero che avviene quando creditori nervosi si ritirano verso i sicuri porti nazionali – è stata percepita a ragione come uno dei maggiori pericoli per la stabilità e la sussistenza stessa della moneta unica.
Infatti, all’indomani della crisi finanziaria, gran parte delle ricerche disponibili evidenziavano come il sistema – che sino al 2008/2009 si presentava così interconnesso da essere apparentemente inestricabile – si era andato ridisegnando secondo linee “nazionali”. I prestiti transfrontalieri nell’eurozona erano crollati all’incirca alla metà dei valori pre-crisi, e ingenti capitali erano stati rimpatriati da molte banche e investitori nei paesi core (Germania e Francia). I prestiti nei paesi cosiddetti periferici (Grecia, Irlanda, Spagna, Italia e Portogallo) nel frattempo tornavano ad essere sostanzialmente nazionali. Questo, politicamente, era imbarazzante, ma anche pericoloso, poiché rendeva tecnicamente possibile la fine della moneta unica.
Peggio ancora, questa situazione creava un problema ulteriore non meno grave: un circolo vizioso potenzialmente distruttivo tra rischio di credito e rischio sovrano – cioè il rischio che una nazione potesse essere spinta alla bancarotta.
Un obiettivo, tre pilastri
L’idea originale era che un’unione bancaria avrebbe ristabilito un mercato bancario e finanziario integrato attraverso tre pilastri: 1) un sistema unico di vigilanza bancaria 2) procedure di risoluzione che limitassero il rischio di contagio in caso di crisi, e 3) una garanzia europea sui depositi tale da spezzare il nesso tra rischio Paese e rischio bancario.
Questa la teoria. Nella pratica, l’unione bancaria ha generato enormi asimmetrie e condizioni competitive inique in tutta l’Eurozona. Queste asimmetrie hanno colpito in particolare il sistema bancario italiano, in un modo che contribuisce a spiegare gli avvenimenti degli ultimi anni.
Per quanto riguarda il primo pilastro, la vigilanza bancaria unica ha effetti di copertura molto differenti tra i vari sistemi bancari nazionali. Trascura un rischio sistemico molto serio in alcune importanti nazioni dell’Eurozona e perciò le favorisce, almeno nel breve periodo.
Quanto al secondo pilastro, le procedure di salvataggio o risoluzione delle banche in crisi – caratterizzate dal sostanziale divieto di salvataggio pubblico – hanno avuto anch’esse effetti fortemente asimmetrici che hanno danneggiato pesantemente alcuni sistemi nazionali (in primis l’Italia). In particolare, queste regole sono state stabilite solo dopo che molti paesi europei avevano elargito aiuti pubblici senza precedenti alle proprie banche nazionali. Questi enormi trasferimenti finanziari avevano sostanzialmente sospeso – sull’onda dell’emergenza – la normativa europea sugli aiuti di Stato, ovvero sugli interventi pubblici nazionali. Così alterando in misura sostanziale il panorama concorrenziale del sistema bancario in Europa.
Impedire a questo punto la possibilità di qualsiasi tempestivo salvataggio pubblico risulta oggi fortemente penalizzante per quei Paesi, come l’Italia, che nella fase precedente non avevano proceduto a sostenere in modo massiccio il proprio sistema bancario nazionale. Per questi Stati, l’opzione del salvataggio è adesso soggetta a criteri estremamente stringenti e subordinata al cosiddetto “bail-in” – ovvero uno schema che pone in primo luogo a carico di azionisti, obbligazionisti e correntisti le perdite bancarie – non escludendo affatto la strada della risoluzione/chiusura della banca interessata.
Quanto all’entità del sostegno di cui le banche di altri Paesi europei avevano goduto prima dell’entrata in vigore dell’Unione bancaria, un articolo pubblicato da M. Frühauf sulla Frankfurter Allgemeine del 16 agosto 2013 – pochi mesi prima dell’approvazione del meccanismo unico di vigilanza bancaria da parte del Consiglio Europeo – offre dati a dir poco impressionanti. Solo per fare un esempio dei molti salvataggi tedeschi all’indomani della crisi finanziaria, il governo fornì alla compagnia di assicurazione Hypo-Re una garanzia fino a 145 miliardi di euro. Il costo di questo solo salvataggio per i contribuenti tedeschi finora è stato di 20 miliardi di euro. Altre fonti forniscono numeri complessivi leggermente diversi sui salvataggi pubblici, ma quel che emerge chiaramente è la peculiarità della situazione bancaria italiana, che finora ha comportato aiuti pubblici molto inferiori a quelli degli altri paesi europei.
Gli effetti negativi dei primi due pilastri divenivano poi addirittura dirompenti a causa dell’assenza del terzo pilastro: la garanzia europea sui depositi. Questo meccanismo era assolutamente essenziale al fine dichiarato dell’Unione bancaria: arrestare il processo di “balcanizzazione finanziaria”. Infatti l’assenza di una garanzia europea manteneva l’onere della protezione (parziale) dei risparmiatori in capo al sistema Paese interessato. E, ancora una volta, contraddiceva quella solidarietà europea che dovrebbe essere il fondamento dell’architettura istituzionale dell’UE, e in particolare dell’Eurozona.
L’effetto di questo insieme di norme – i due pilastri che ci sono e quello che non c’è – è stato devastante in particolare per il sistema bancario italiano, per il quale le nuove regole hanno mutato in misura sostanziale – e per di più senza alcuna fase transitoria – il panorama normativo vigente da decenni, oltretutto in contraddizione con almeno due articoli della Costituzione italiana (l’art. 43 e l’art. 47).
A dispetto delle intenzioni, il nuovo contesto normativo ha penalizzato pesantemente i risparmiatori, in particolare i detentori delle cosiddette obbligazioni subordinate, diventate improvvisamente più rischiose col nuovo regime.
E, come era facilmente prevedibile, l’assenza sia di una rete di sicurezza pubblica per le situazioni di crisi che di un sistema di garanzia europeo, ha innescato una vera e propria corsa agli sportelli in relazione agli istituti percepiti come più deboli, o che erano alle prese con crisi aziendali che sarebbero state facilmente gestibili nel contesto normativo precedente. In tal modo, secondo il meccanismo ben noto delle previsioni che si auto-avverano, i problemi di liquidità di alcuni istituti hanno dato luogo a una fuga dei depositi che ne ha posto a rischio la solvibilità.
Un’altra pericolosa asimmetria proviene dal trattamento del rischio di mercato nel nuovo regime. Il peso di questo rischio – legato all’attività finanziaria, incluse le transazioni in derivati – risultava assolutamente sottodimensionato rispetto alla sua portata reale già negli Stress Test e Asset Quality Review condotti dalla Banca centrale europea. Il nuovo sistema pone un’attenzione molto maggiore sul rischio di credito – e conseguentemente penalizza i sistemi bancari come quello italiano che sono relativamente meno finanziarizzati, ma nei quali il rischio di credito è un fattore relativamente più importante.
Ma c’è di più: il rischio di mercato, al contrario del rischio di credito, non figura nemmeno nelle 5 priorità della Vigilanza bancaria europea esercitata dalla BCE, come evidenziato nei Rapporti annuali della BCE del 2015, 2016 e 2017 (si veda l’ultimo).
In questo modo risulta insufficientemente vigilata precisamente la tipologia di rischio alla quale è attribuito lo scoppio della crisi culminata nella Grande Recessione. Più concretamente, è insufficientemente vigilato il rischio di mercato espresso da alcune grandi banche tedesche e francesi, e in particolare quello di un colosso quale Deutsche Bank. Conoscere il valore effettivo dei Level 3 assets (derivati) di Deutsche Bank è un esercizio più prossimo alla divinazione che alla stima scientifica: in effetti al team ispettivo della Vigilanza BCE che ha recentemente condotto un’ispezione presso la banca di Francoforte “non è stato richiesto nemmeno di prezzare il valore dei derivati in portafoglio”. L’Autorità di vigilanza europea aveva alzato le mani con un curioso ragionamento: giudicando cioè irrealistico valutare l’adeguatezza del pricing dato ai derivati nel portafoglio di Deutsche Bank e di altre grandi banche, vista la discrezionalità concessa al riguardo a banche e revisori (si veda L. Davi, BCE, 68 banche sotto ispezione. Fuori i Level 3 dalle verifiche, “Il Sole 24 Ore”, 25 gennaio 2017).
Il vincitore è...
Il grande vincitore dell’Unione bancaria è stato il sistema bancario tedesco. Tutte le banche tedesche, ma in particolare le banche di piccole e medie dimensioni, che hanno infatti beneficiato in primo luogo di una costruzione del primo pilastro che ha fissato a 30 miliardi di asset il livello minimo per essere vigilati dalla Bce. Per ottenere questa soglia minima, il ministro delle Finanze tedesco Wolfgang Schäuble minacciò di mettere il veto all’Unione bancaria, e non è un mistero che l’obiettivo era tenere fuori le Sparkassen dalla Vigilanza europea.
Delle 417 Sparkassen soltanto una è oggi vigilata dalla Vigilanza BCE; stiamo parlando di banche cui spetta il 22,3% degli impieghi di quel paese, per un totale di oltre 1.000 miliardi di euro.
Del resto non è questo l’unico modo in cui queste banche pubbliche, tradizionalmente legate alla CDU, sono state protette. Vanno citati almeno altri due modi.
Il primo è rappresentato dal trattamento di favore riservato dalla normativa europea ai cosiddetti Institutional Protection Schemes (IPS). Gli IPS sono sistemi di mutua protezione e garanzia tra le banche associate, regolati contrattualmente a livello di associazione di categoria. Sono diffusi soprattutto in Germania (Sparkassen e Volksbanken), Austria (banche Raiffeisen) e Spagna (Casse di risparmio). Differiscono sia dai gruppi bancari, sia dai network di banche. Pertanto non sono direttamente oggetto della disciplina europea – ad esempio nella Direttiva europea sui requisiti di 4 capitale (CRD IV) gli IPS non sono neppure citati – né degli accordi di Basilea. La cosa è stata giudicata da Thomas Stern, esperto dell’Austrian Financial Markets Authorities, in questi termini: “la decisione del legislatore europeo di non estendere la regolamentazione riguardante capitale e liquidità agli IPS è rimarchevole e difficile da capire da un punto di vista prudenziale”. Stern scrisse queste righe nel 2014, ma da allora la situazione non è cambiata.
Il fatto di essere membri di un IPS in effetti dà alle banche associate una serie significativa di privilegi regolamentari. È appena il caso di dire che le banche italiane in qualche modo confrontabili con le banche che in altri Paesi europei sono associate in IPS, le Banche di Credito Cooperativo, rientrano invece pienamente nella normativa europea anche per quanto riguarda i requisiti di capitale e di liquidità; non solo: con la L. 49/2016 il legislatore italiano ha imposto l’inclusione delle Banche di Credito Cooperativo in Gruppi bancari che, oltre a snaturare la natura mutualistica e cooperativa degli enti associati, avranno in 2 casi su 3 la dimensione di banche “significative” a livello europeo e quindi saranno direttamente vigilate dalla BCE sulla base dei requisiti più stringenti in termini di capitale previsti per le banche di maggiori dimensioni.
Il secondo modo in cui il governo tedesco ha aiutato le proprie Sparkassen è molto interessante, ma purtroppo poco noto: è consistito precisamente nel rimandare sine die il sistema di mutua garanzia e assicurazione dei depositi tra le banche europee.
Il nesso può non apparire immediato. Nel 2013 viene decisa la partenza dell’Unione bancaria con due pilastri su tre. È stato un gravissimo errore dell’Italia non impedire questa asimmetria, che rendeva l’unione bancaria incoerente rispetto alle sue stesse finalità dichiarate.
Nel 2015 comunque procedono in qualche modo i negoziati per attivare anche la mutua garanzia. Ma Sparkassen e Volksbanken non ne vogliono sapere di partecipare al sistema di mutua garanzia europeo, essenzialmente per due motivi: in primo luogo perché ritengono di essere in grado di proteggersi da sole grazie al loro status speciale di IPS; in secondo luogo, perché temono di dover rendere le proprie regole specifiche omogenee a quelle delle altre banche, senza più beneficiare delle eccezioni regolatorie.
Le prime prese di posizione delle Sparkassen contro la mutua garanzia europea risalgono all’estate 2015. Successivamente Schäuble ha minacciato di bloccare la norma nel Consiglio, con la scusa ufficiale che la Germania si rifiutava di pagare per i problemi bancari degli altri paesi. Diversi tentativi di compromesso andarono a vuoto, perché tutti implicavano qualche tipo di vigilanza europea sulle banche tedesche – svelando così la vera natura del problema: il desiderio del governo tedesco di ostacolare qualsiasi forma di vigilanza europea sulle Sparkassen tedesche e le altre banche minori.
A inizio dicembre 2015 Schäuble sembrò arrendersi alle pressioni della Commissione Europea e dei principali altri Stati dell’Eurozona. Il quotidiano economico Deutsche Wirtschafts Nachrichten evidenziò come una decisione del genere potesse aprire la strada a un duro conflitto tra il settore bancario tedesco e il governo.
Poi, l’8 dicembre, il colpo di scena. Il piano di contrattacco di Schäuble da un lato è consistito nel delegittimare la BCE per il suo presunto conflitto di interesse tra il ruolo di guida della politica monetaria e quello di organismo di vigilanza bancaria – una condizione che i leader europei, Schäuble incluso, avevano da poco deliberato. Ha poi annunciato la sua opposizione alla proposta di mutua garanzia in assenza del recepimento da parte di tutti gli Stati della normativa europea sul bail-in, e, punto fondamentale, fino a che non fossero ridotti i rischi del sistema bancario. Successivamente ha precisato come fosse necessario che le banche europee riducessero la 5 quota in portafoglio dei titoli di Stato del proprio paese. Questa mossa tattica non solo ha rimandato sine die la discussione, ma ha anche spostato l’attenzione dal rischio bancario al rischio (sovrano) delle singole nazioni, un campo nel quale la Germania non ha nulla da temere. Fu infatti l’Italia, con il Presidente del Consiglio Renzi, ad essere costretta a porre il veto alla discussione sui bond sovrani nei bilanci bancari, bloccando così la discussione sul terzo pilastro.
Frattanto venivano attivati gli altri due pilastri, saltando completamente il periodo transitorio originariamente proposto per attenuare gli effetti del cambiamento delle regole. Il risultato è presto detto: le Sparkassen tedesche potranno continuare a beneficiare di requisiti di capitale più laschi e di una vigilanza esclusivamente nazionale. Un combinato disposto che rappresenta un mix esplosivo dal punto di vista dei rischi di crisi bancaria.
Oggi una crisi di questo comparto in Germania non avrebbe nulla da invidiare, nei suoi effetti, alla crisi delle casse di risparmio statunitensi (Saving & Loans Banks) degli anni Ottanta. Un ciclo economico tedesco positivo e il fatto che le aree a maggior rischio di crisi sono altre concorrono a far sì che nessuno oggi si avveda del problema. Nel frattempo, le Sparkassen e le altre banche tedesche difendono con le unghie e coi denti la propria autonomia e il diritto di non essere vigilate da nessuna autorità di vigilanza europea (si veda “Deutsche Banken sehen EU-Aufsicht kritisch”, Franckfurter Allgemeine Zeitung, 1 giugno 2017).
Le conseguenze
Comprendendo questo contesto, le radici dei problemi del sistema bancario italiano diventano più chiare. Il peso dei crediti deteriorati (NPL) è derivato dalla peggiore crisi economica in tempo di pace dal 1861. Il problema è emerso anche perché dopo il 2008 non è stato intrapreso nessun salvataggio bancario. Se prendiamo le quotazioni di borsa del settore bancario negli ultimi anni, è facile osservare un andamento fortemente negativo. Tuttavia, ad uno sguardo più attento, si nota che la caduta dei prezzi è in genere avvenuta in concomitanza, più che con notizie genericamente “negative”, con le novità inerenti alla regolamentazione del settore a livello europeo, o in relazione a interventi del regolatore europeo stesso su questa o quella situazione, su questa o quella banca. Si pensi alle lettere spedite dalla vigilanza europea a questa o quella banca, o anche a diverse banche insieme, per esempio per chiedere di cedere subito i crediti problematici – pertanto ad un prezzo molto basso.
Dalla fine del 2015 – quando la Commissione Europea bloccò l’intervento del fondo interbancario di tutela dei depositi per salvare quattro banche locali nei guai – sino al febbraio 2016, dopo l’entrata in vigore del bail-in senza un periodo di transizione e senza alcuna garanzia europea sui depositi, sono stati bruciati 46 miliardi di capitalizzazione di borsa dei titoli bancari italiani su un totale di 134,6. Un crollo del 35%.
È in ogni caso importante sottolineare che in tutti i casi di crisi bancaria verificatisi da fine 2015 in poi un elemento determinante è stata la fuga dei depositi, che semplicemente non avrebbe avuto luogo in vigenza della normativa nazionale precedente l’entrata in vigore dell’Unione bancaria. In tutti questi casi è stata determinante, e ha giocato un ruolo pesantemente negativo, l’assenza di un backstop pubblico sotto forma di salvataggio (bailout). In tal modo non è azzardato affermare che per il sistema bancario italiano la nuova regolamentazione europea ha rappresentato sin dalla sua introduzione un ulteriore fattore di rischio, anziché – come avrebbe dovuto essere – di stabilizzazione.
Che fare?
A inizio 2016 vi fu un dibattito in Italia sull’opportunità o meno di sospendere la regolamentazione sul bail-in. Erano i mesi in cui una buona parte degli Stati dell’Unione Europea sospendeva de facto il Trattato di Schengen – l’accordo di libera circolazione all’interno della UE in vigore dal 1995. Quella sospensione di fatto perdura tuttora, mentre il bail-in non fu mai sospeso. Ciò è stupefacente – specialmente a causa del fatto che le regole del bail-in contraddicono la Costituzione italiana, e date le asimmetrie insite nello strano e traballante tavolo a due gambe che gentilmente chiamiamo “unione bancaria”. Ma non è mai troppo tardi per rovesciare politiche sbagliate e errori di negoziazione. Purché li si comprenda.
Fonte
27/02/2019
La Germania pretende che tutti paghino i debiti: i suoi!
Mentre tutti guardano alle elezioni europee come test per la tenuta dei governi nazionali, c’è qualcuno che prepara le uniche “riforme dei trattati” possibili: quelle volute dalla Germania e accettate dalla Francia.
Visto che il prossimo Parlamento continentale rischia di vedere una minoranza rilevante di deputati “euroscettici” (ce ne sono di veri e di falsi, di estrema destra e di sinistra autentica), l’establishment prepara trincee, forche caudine, trappole in grado – se l’onda cosiddetta “sovranista” (termine semplicemente infame) resterà al di sotto di una certa soglia – di aggirare ostacoli che fin qui non sono esistiti (se non sulla ripartizione dei migranti salvati in mare).
Il primo meccanismo istituzionale da rivedere è il principio dell’unanimità su una serie di materie nel Consiglio europeo. Come spiega Schaeuble, se si vuole arrivare a un bilancio comune bisogna unificare le politiche fiscali nazionali, fin qui caratterizzate dalla competizione nel favorire l’ingresso dei capitali nei singoli Paesi. Una concorrenza alla fin fine suicida (Olanda, Irlanda e altri paesi impongono tasse bassissime alle multinazionali) e che alla lunga impedisce all’Unione Europea di fare un passo in avanti verso una maggiore integrazione.
In questo modo si elimina pure il “diritto di veto” che alcuni governi potrebbero porre a decisioni sgradite perché dannose per le economie nazionali e dunque per la tenuta della coesione sociale. Un incremento del carattere “forzoso” delle prescrizioni di Bruxelles, che liquida anche la retorica sulla “condivisione” delle scelte.
Ma c’è un capitolo ancora più interessante che riguarda l’annoso ritardo nell’elaborazione di un vera “unione bancaria”. I pilastri fin qui piantati riguardano infatti aspetti rilevanti (la definizione di standard per la valutazione della solidità delle banche, la sorveglianza Bce, ecc), ma non l’assicurazione de conti correnti.
Il problema è relativamente semplice: se una banca fallisce, con le regole vigenti, i correntisti sanno che i loro soldi saranno restituiti dallo Stato nazionale (non dall’Unione), ma solo fino a 100.000 euro (cifra rispettabile, comunque...).
La Germania è sempre stata indisponibile alla condivisione di questa assicurazione in base al noto slogan “non verseremo un euro dei tedeschi o degli olandesi per quelle cicale mediterranee che spendono tutto in donne e champagne” (Jeroen Dijsselbloem, ex presidente dell’Eurogruppo).
Purtroppo per loro, i tedeschi hanno dovuto scoprire che le banche messe peggio nel continente sono proprio quelle made in Germany. Anzi, addirittura sono sull’orlo del fallimento i due principali giganti del settore, Deutsche Bank e Commerzbank.
Banche che hanno in pancia “prodotti derivati” invendibili per un valore nominale svariate volte superiore al Pil tedesco (la sola Deutsche Bank 48,26 trilioni) e che potrebbero facilmente saltare in aria alla prossima (sia in senso di “successiva” che di “imminente”) crisi finanziaria globale.
Fatti due conti, il governo tedesco ha capito che la sola assicurazione nazionale sui conti correnti lo costringerebbe a sborsare cifre tali da far dimenticare per sempre la “stabilità di bilancio” del Reich. E dunque, voilà, si cambia idea: adesso sì, effettivamente, è meglio avere un’assicurazione europea, che redistribuisca tra tutti i paesi il costo del risarcimento ai correntisti tedeschi.
Morale: non verseremo mai un euro a favore di italiani, greci, portoghesi spagnoli, ecc, ma – quando ci serve – pretendiamo che tutti gli altri ci diano i soldi per coprire i nostri buchi.
Del resto, è stato proprio un prestigioso istituto di ricerca tedesco a spiegare – soltanto ieri – che i trattati europei, e soprattutto quel trattato che ha istituito la moneta comune, sono geneticamente sbilanciati a favore dei paesi forti. Detto in soldoni: grazie all’euro ogni cittadino italiano, anche se soltanto neonato, dal 2002 ad oggi, ha perso reddito per 73.600 euro. Mentre ogni cittadino tedesco, anche se in fasce o in manicomio, ne ha guadagnati 23.100.
Facendo due conti della serva: una famiglia italiana di quattro persone in questo lasso di tempo ha perso circa 294.400 euro; quanto basta a comprarsi una casa più che confortevole...
E, in previsione del fallimento dei colossi di Francoforte, si preparano a chiederne ancora. E in contanti.
Questa è l’Unione Europea. A questo è servito l’euro. Fuor di ideologia, si è rivelato, come prevedibile, un sistema di rapina a favore dei più ricchi.
Qui di seguito l’articolo de Il Sole 24 Ore.
*****
Torna la tassa sulle transazioni finanziarie
di Carlo Bastasin
Con una dichiarazione a sorpresa, lunedì scorso il presidente del Parlamento tedesco, Wolfgang Schäuble, ha proposto l’abolizione del voto all’unanimità nelle decisioni del Consiglio europeo che ancora lo richiedono, tra queste spiccano le politiche in materia fiscale. La logica di Schäuble è che, se non si toglie il diritto di veto, in capo a ogni governo, nelle decisioni comuni sull’imposizione fiscale, sarà molto difficile istituire una tassa comune europea, senza la quale non ci sarebbero le risorse per predisporre un bilancio per l’euro-area.
A sua volta, in assenza di un bilancio sarebbe inutile istituire il ruolo di ministro delle Finanze dell’euro-area con il quale gli stati membri dovrebbero condividere la loro sovranità di bilancio e coordinare le proprie politiche economiche.
Si tratta, come si capisce, di un passaggio cardinale nel progresso della cooperazione europea in una fase in cui l’impulso all’integrazione è frenato dalle tentazioni sovraniste in molti paesi. La possibilità che forze euroscettiche, a cominciare dalla Lega, formino una minoranza di blocco al Parlamento europeo e che la stessa Commissione europea sia composta da esponenti contrari alla cooperazione rende pericoloso uno scenario in cui il Consiglio dei capi di stato e di governo debba operare all’unanimità.
Molti ambiti di interesse dell’Ue possono continuare anche nelle condizioni attuali, ma la moneta unica è tuttora in una condizione instabile che richiede, per sopravvivere, il completamento di istituzioni di coordinamento fiscale e dell’unione bancaria.
La condivisione delle scelte fiscali è però un tema molto controverso e paralizzato dall’unanimità. Nel 2018, si è già creata una faglia senza precedenti tra la Germania e i paesi della cosiddetta Lega anseatica, guidati dall’Olanda, molti dei quali usano la bassa tassazione delle imprese per sottrarre investimenti e redditi al resto d’Europa e in particolare a Germania, Francia e Italia.
La proposta di Schäuble va inquadrata in ciò che sta succedendo dietro le quinte dei negoziati europei e in particolare di quelli franco-tedeschi. Il progetto di un bilancio dell’euro-area ha preso vigore dopo l’incontro tra Angela Merkel e Emmanuel Macron al castello di Meseberg nel giugno scorso.
Un primo intoppo era giunto a novembre quando Berlino aveva lasciato solo il governo francese nella richiesta di un’imposta sul business digitale come base delle entrate comuni. La proposta d’altronde non aveva chance di essere approvata per l’opposizione dei paesi dell’Est e del Nord Europa. Tuttavia, in una riunione parallela al Consiglio di novembre, i ministri di Francia e Germania avevano ribadito di volere un bilancio dell’euro-area ai fini di competitività, convergenza e stabilizzazione dell’euro-area.
All’Ecofin di gennaio, invece, la funzione di stabilizzazione è stata relegata al solo confronto tecnico e non riconosciuta come obiettivo politico. Si tratta di una decisione cruciale perché molto probabilmente delegherà l’intervento di stabilizzazione al solo Esm, il fondo salva-stati, che agisce prevalentemente quando è richiesta assistenza finanziaria e quindi dopo che una crisi si è presentata e dopo che sono state fissate severe condizioni per il paese che ha necessità di aiuto.
Nulla si sa inoltre delle dimensioni del futuro bilancio che probabilmente saranno indicate dall’Ecofin nella prossima riunione di giugno quando saranno discussi anche i quadri finanziari dell’Unione europea per gli anni a venire. Si ignorano in pratica tutti i dettagli su cui stanno lavorando i comitati tecnici.
Un documento confidenziale dei governi francese e tedesco, citato in un atto del Bundestag della settimana scorsa, contiene però alcuni dettagli. Da quanto riportato dal documento, datato 7 febbraio 2019, a gennaio Parigi e Berlino hanno trovato un accordo tra di loro sui contenuti tecnici. L’intesa riprende l’impostazione concordata a Meseberg e propone una tassa europea sulle transazioni finanziarie sul modello di quella francese che prevede l’imposizione su tutte le transazioni interne in azioni di società nazionali che abbiano una capitalizzazione superiore a un miliardo di euro.
Per ridurre le resistenze dei paesi contrari, la proposta franco-tedesca prevede che chi contribuisce al bilancio dell’euro-area con maggiori entrate derivanti dalla nuova tassa, possa dedurre l’eccesso dal normale contributo al bilancio Ue. In pratica, anche se in misura minima, c’è un trasferimento di importanza dal bilancio europeo a quello dell’euro-area.
Se questa fosse la tendenza, sarebbe un segnale della maggiore personalità politica che l’euro-area potrebbe assumere in futuro, soprattutto dopo l’uscita della Gran Bretagna dall’Ue.
L’avanzamento dei progetti è millimetrico e certamente condizionato al risultato delle prossime elezioni parlamentari europee. Una minoranza di blocco di forze euroscettiche, ha ammesso Schäuble, sarebbe un colpo molto duro per tutta l’Europa. Tuttavia se il risultato del voto fosse meno indigesto, a Bruxelles, Parigi e Berlino si riprenderanno in mano le fila dell’integrazione.
Perfino sul tema dell’assicurazione comune dei depositi bancari, sembra che la Germania stia finalmente cambiando posizione e aprendo la porta a una soluzione comune, dopo aver verificato alcuni problemi di sostenibilità del proprio sistema interno di assicurazione dei depositi.
Il completamento dell’unione bancaria e dell’unione dei mercati dei capitali consentirebbe di migliorare la circolazione di risparmio tra i paesi dell’euro-area e quindi di “riciclare” negli altri paesi l’eccesso di risparmio tedesco che attualmente sottrae domanda all’economia dell’euro-area. La prospettiva è di una crescente circolazione del risparmio in un’economia dell’euro-area in cui avranno sempre meno significato i confini nazionali.
Anche in considerazione della “regionalizzazione” degli scambi commerciali globali, propugnata dall’attuale Amministrazione americana, la prospettiva europea è di incoraggiare una maggiore interdipendenza al proprio interno e una maggiore corresponsabilità nelle decisioni comuni.
Per la Germania, baricentro europeo della produzione industriale e dell’export di merci e di capitali, il rafforzamento delle responsabilità comuni rappresenta una prospettiva vitale. Quello che forse Schäuble ha compreso è che la strategia tedesca è inevitabilmente legata a una maggiore condivisione delle sovranità economiche è che senza l’abolizione dei diritti di veto e senza l’istituzione di un ministro delle Finanze, l’intera strategia potrebbe fermarsi a metà strada.
Fonte
03/09/2018
L’Unione bancaria europea e i problemi delle banche italiane
Quando si prova – qui in Italia e negli ambienti della c.d. “sinistra” – a disegnare un quadro complessivo dello scenario in cui tutti noi siamo obbligati a muoverci, non si va al di là di fumosi riferimenti a qualche problema sociale e, ancor più di frequente, ai mille possibili “dalemoni” che dovrebbero consentire di mettere insieme una lista elettorale “di sinistra” con qualche chance di “eleggere” qualche bollito rappresentante del vecchio ceto politico.
Anche in settori di movimento “antagonista” non si va generalmente al di là di qualche istantanea dei non molti momenti di conflitto sociale.
Insomma, manca ormai la predisposizione, e dunque anche la consuetudine, con l’analisi concreta della situazione concreta, che pure sarebbe un obbligo per chi in vario modo si dice comunista. Eppure, possedere un quadro realistico del presente, ci potrebbe permettere di mettere in piedi strategie meno campate in aria, campagne politiche meno improvvisate “ad capocchiam”, un intervento sociale – per i non molti che lo fanno – più consapevole.
Tra i molti aspetti del reale, la crisi crescente delle banche italiane – ed europee, in larga misura – è uno di quelli con conseguenze concrete più incisive e potenzialmente devastanti, visto che ha un ruolo chiave nell’operatività di ciò che resta del “sistema delle imprese”, nella “piazzabilità” dei titoli del debito pubblico, nella erogazione di prestiti anche alle famiglie, ecc. In breve, nella tenuta o meno degli equilibri economici, e dunque anche sociali, cui tutti siamo abituati al punto da considerarli ormai come un dato naturale eterno, un “non problema” che non richiede dunque alcuna conoscenza particolare.
Ma i problemi delle banche hanno anche molti altri aspetti decisivi per l'esatta comprensione dello scenario d’azione. Il “sistema delle regole” entro cui anche le banche devono agire è infatti un quadro definito da leggi nazionali e trattati internazionali. Dunque l’analisi di questi problemi mette in luce anche il ruolo – normativo, dunque politico – dell’Unione Europea. La quale, vista da vicino, somiglia sempre meno all’eden retorico del “manifesto di Ventotene” e sempre di più all’arena-gabbia di Mad Max (sotto il controllo di Tina Turner).
Pubblichiamo perciò molto volentieri questa analisi di Vladimiro Giacché sulla crisi bancaria italiana. Articolo uscito sul sito dell’Institute for New Economic Thinking, con delle modifiche non sostanziali da parte dell’Autore, che ha anche aggiunto alcune note sul tema delle Banche di Credito Cooperativo, tradotto da Saint Simon per il sito Voci dall’estero.
La tesi, documentata con rigore, è che la crisi bancaria italiana sia il frutto delle normative europee, che hanno generato enormi asimmetrie e condizioni inique sopratutto per il nostro paese. Normative aggirate dalla Germania, che da un lato ha proceduto prima della loro entrata in vigore a salvare con interventi pubblici le proprie banche, e poi ha ottenuto di esentare dalla supervisione bancaria europea le proprie Sparkasse, legate a filo doppio alla politica locale e oggi a rischio sistemico, data l’entità degli impieghi. L’arrendevolezza o l’incompetenza della classe politica italiana, che ha accettato regole suicide anche dal punto di vista capitalistico e “nazionalistico”, emerge qui con solare evidenza. E spiega, in pare rilevante, anche l'apparentemente inarrestabile affermarsi di un nazionalismo economico di ritorno sotto le vesti del “populismo” straccione.
Da https://www.academia.edu
di Vladimiro Giacché, 19 luglio 2017
L’obiettivo con cui l’Unione bancaria europea è nata era quello di ridurre la balcanizzazione finanziaria dell’Eurozona. La balcanizzazione – la frattura del sistema bancario transfrontaliero che avviene quando creditori nervosi si ritirano verso i sicuri porti nazionali – è stata percepita a ragione come uno dei maggiori pericoli per la stabilità e la sussistenza stessa della moneta unica.
Infatti, all’indomani della crisi finanziaria, gran parte delle ricerche disponibili evidenziavano come il sistema – che sino al 2008/2009 si presentava così interconnesso da essere apparentemente inestricabile – si era andato ridisegnando secondo linee “nazionali”. I prestiti transfrontalieri nell’eurozona erano crollati all’incirca alla metà dei valori pre-crisi, e ingenti capitali erano stati rimpatriati da molte banche e investitori nei paesi core (Germania e Francia). I prestiti nei paesi cosiddetti periferici (Grecia, Irlanda, Spagna, Italia e Portogallo) nel frattempo tornavano ad essere sostanzialmente nazionali. Questo, politicamente, era imbarazzante, ma anche pericoloso, poiché rendeva tecnicamente possibile la fine della moneta unica.
Peggio ancora, questa situazione creava un problema ulteriore non meno grave: un circolo vizioso potenzialmente distruttivo tra rischio di credito e rischio sovrano – cioè il rischio che una nazione potesse essere spinta alla bancarotta.
Un obiettivo, tre pilastri
L’idea originale era che un’unione bancaria avrebbe ristabilito un mercato bancario e finanziario integrato attraverso tre pilastri:
1) un sistema unico di vigilanza bancaria;
2) procedure di risoluzione che limitassero il rischio di contagio in caso di crisi;
3) una garanzia europea sui depositi tale da spezzare il nesso tra rischio Paese e rischio bancario.
Questa la teoria. Nella pratica, l’unione bancaria ha generato enormi asimmetrie e condizioni competitive inique in tutta l’Eurozona. Queste asimmetrie hanno colpito in particolare il sistema bancario italiano, in un modo che contribuisce a spiegare gli avvenimenti degli ultimi anni.
Per quanto riguarda il primo pilastro, la vigilanza bancaria unica ha effetti di copertura molto differenti tra i vari sistemi bancari nazionali. Trascura un rischio sistemico molto serio in alcune importanti nazioni dell’Eurozona e perciò le favorisce, almeno nel breve periodo.
Quanto al secondo pilastro, le procedure di salvataggio o risoluzione delle banche in crisi – caratterizzate dal sostanziale divieto di salvataggio pubblico – hanno avuto anch’esse effetti fortemente asimmetrici che hanno danneggiato pesantemente alcuni sistemi nazionali (in primis l’Italia). In particolare, queste regole sono state stabilite solo dopo che molti paesi europei avevano elargito aiuti pubblici senza precedenti alle proprie banche nazionali. Questi enormi trasferimenti finanziari avevano sostanzialmente sospeso – sull’onda dell’emergenza – la normativa europea sugli aiuti di Stato, ovvero sugli interventi pubblici nazionali. Così alterando in misura sostanziale il panorama concorrenziale del sistema bancario in Europa.
Impedire a questo punto la possibilità di qualsiasi tempestivo salvataggio pubblico risulta oggi fortemente penalizzante per quei Paesi, come l’Italia, che nella fase precedente non avevano proceduto a sostenere in modo massiccio il proprio sistema bancario nazionale. Per questi Stati, l’opzione del salvataggio è adesso soggetta a criteri estremamente stringenti e subordinata al cosiddetto “bail-in” – ovvero uno schema che pone in primo luogo a carico di azionisti, obbligazionisti e correntisti le perdite bancarie – non escludendo affatto la strada della risoluzione/chiusura della banca interessata.
Quanto all’entità del sostegno di cui le banche di altri Paesi europei avevano goduto prima dell’entrata in vigore dell’Unione bancaria, un articolo pubblicato da M. Frühauf sulla Frankfurter Allgemeine del 16 agosto 2013 – pochi mesi prima dell’approvazione del meccanismo unico di vigilanza bancaria da parte del Consiglio Europeo – offre dati a dir poco impressionanti. Solo per fare un esempio dei molti salvataggi tedeschi all’indomani della crisi finanziaria, il governo fornì alla compagnia di assicurazione Hypo-Re una garanzia fino a 145 miliardi di euro. Il costo di questo solo salvataggio per i contribuenti tedeschi finora è stato di 20 miliardi di euro. Altre fonti forniscono numeri complessivi leggermente diversi sui salvataggi pubblici, ma quel che emerge chiaramente è la peculiarità della situazione bancaria italiana, che finora ha comportato aiuti pubblici molto inferiori a quelli degli altri paesi europei.
Gli effetti negativi dei primi due pilastri divenivano poi addirittura dirompenti a causa dell’assenza del terzo pilastro: la garanzia europea sui depositi. Questo meccanismo era assolutamente essenziale al fine dichiarato dell’Unione bancaria: arrestare il processo di “balcanizzazione finanziaria”. Infatti l’assenza di una garanzia europea manteneva l’onere della protezione (parziale) dei risparmiatori in capo al sistema Paese interessato. E, ancora una volta, contraddiceva quella solidarietà europea che dovrebbe essere il fondamento dell’architettura istituzionale dell’UE, e in particolare dell’Eurozona.
L’effetto di questo insieme di norme – i due pilastri che ci sono e quello che non c’è – è stato devastante in particolare per il sistema bancario italiano, per il quale le nuove regole hanno mutato in misura sostanziale – e per di più senza alcuna fase transitoria – il panorama normativo vigente da decenni, oltretutto in contraddizione con almeno due articoli della Costituzione italiana (l’art. 43 e l’art. 47).
A dispetto delle intenzioni, il nuovo contesto normativo ha penalizzato pesantemente i risparmiatori, in particolare i detentori delle cosiddette obbligazioni subordinate, diventate improvvisamente più rischiose col nuovo regime.
E, come era facilmente prevedibile, l’assenza sia di una rete di sicurezza pubblica per le situazioni di crisi che di un sistema di garanzia europeo, ha innescato una vera e propria corsa agli sportelli in relazione agli istituti percepiti come più deboli, o che erano alle prese con crisi aziendali che sarebbero state facilmente gestibili nel contesto normativo precedente. In tal modo, secondo il meccanismo ben noto delle previsioni che si auto-avverano, i problemi di liquidità di alcuni istituti hanno dato luogo a una fuga dei depositi che ne ha posto a rischio la solvibilità.
Un’altra pericolosa asimmetria proviene dal trattamento del rischio di mercato nel nuovo regime. Il peso di questo rischio – legato all’attività finanziaria, incluse le transazioni in derivati – risultava assolutamente sottodimensionato rispetto alla sua portata reale già negli Stress Test e Asset Quality Review condotti dalla Banca centrale europea. Il nuovo sistema pone un’attenzione molto maggiore sul rischio di credito – e conseguentemente penalizza i sistemi bancari come quello italiano che sono relativamente meno finanziarizzati, ma nei quali il rischio di credito è un fattore relativamente più importante.
Ma c’è di più: il rischio di mercato, al contrario del rischio di credito, non figura nemmeno nelle 5 priorità della Vigilanza bancaria europea esercitata dalla BCE, come evidenziato nei Rapporti annuali della BCE del 2015, 2016 e 2017 (si veda l’ultimo).
In questo modo risulta insufficientemente vigilata precisamente la tipologia di rischio alla quale è attribuito lo scoppio della crisi culminata nella Grande Recessione. Più concretamente, è insufficientemente vigilato il rischio di mercato espresso da alcune grandi banche tedesche e francesi, e in particolare quello di un colosso quale Deutsche Bank. Conoscere il valore effettivo dei Level 3 assets (derivati) di Deutsche Bank è un esercizio più prossimo alla divinazione che alla stima scientifica: in effetti al team ispettivo della Vigilanza BCE che ha recentemente condotto un’ispezione presso la banca di Francoforte “non è stato richiesto nemmeno di prezzare il valore dei derivati in portafoglio”. L’Autorità di vigilanza europea aveva alzato le mani con un curioso ragionamento: giudicando cioè irrealistico valutare l’adeguatezza del pricing dato ai derivati nel portafoglio di Deutsche Bank e di altre grandi banche, vista la discrezionalità concessa al riguardo a banche e revisori (si veda L. Davi, BCE, 68 banche sotto ispezione. Fuori i Level 3 dalle verifiche, “Il Sole 24 Ore”, 25 gennaio 2017).
E il vincitore è...
Il grande vincitore dell’Unione bancaria è stato il sistema bancario tedesco. Tutte le banche tedesche, ma in particolare le banche di piccole e medie dimensioni, che hanno infatti beneficiato in primo luogo di una costruzione del primo pilastro che ha fissato a 30 miliardi di asset il livello minimo per essere vigilati dalla Bce. Per ottenere questa soglia minima, il ministro delle Finanze tedesco Wolfgang Schäuble minacciò di mettere il veto all’Unione bancaria, e non è un mistero che l’obiettivo era tenere fuori le Sparkassen dalla Vigilanza europea.
Delle 417 Sparkassen soltanto una è oggi vigilata dalla Vigilanza BCE; stiamo parlando di banche cui spetta il 22,3% degli impieghi di quel paese, per un totale di oltre 1.000 miliardi di euro.
Del resto non è questo l’unico modo in cui queste banche pubbliche, tradizionalmente legate alla CDU, sono state protette. Vanno citati almeno altri due modi.
Il primo è rappresentato dal trattamento di favore riservato dalla normativa europea ai cosiddetti Institutional Protection Schemes (IPS). Gli IPS sono sistemi di mutua protezione e garanzia tra le banche associate, regolati contrattualmente a livello di associazione di categoria. Sono diffusi soprattutto in Germania (Sparkassen e Volksbanken), Austria (banche Raiffeisen) e Spagna (Casse di risparmio). Differiscono sia dai gruppi bancari, sia dai network di banche. Pertanto non sono direttamente oggetto della disciplina europea – ad esempio nella Direttiva europea sui requisiti di capitale (CRD IV) gli IPS non sono neppure citati – né degli accordi di Basilea. La cosa è stata giudicata da Thomas Stern, esperto dell’Austrian Financial Markets Authorities, in questi termini: “la decisione del legislatore europeo di non estendere la regolamentazione riguardante capitale e liquidità agli IPS è rimarchevole e difficile da capire da un punto di vista prudenziale”. Stern scrisse queste righe nel 2014, ma da allora la situazione non è cambiata.
Il fatto di essere membri di un IPS in effetti dà alle banche associate una serie significativa di privilegi regolamentari. È appena il caso di dire che le banche italiane in qualche modo confrontabili con le banche che in altri Paesi europei sono associate in IPS, le Banche di Credito Cooperativo, rientrano invece pienamente nella normativa europea anche per quanto riguarda i requisiti di capitale e di liquidità; non solo: con la L. 49/2016 il legislatore italiano ha imposto l’inclusione delle Banche di Credito Cooperativo in Gruppi bancari che, oltre a snaturare la natura mutualistica e cooperativa degli enti associati, avranno in 2 casi su 3 la dimensione di banche “significative” a livello europeo e quindi saranno direttamente vigilate dalla BCE sulla base dei requisiti più stringenti in termini di capitale previsti per le banche di maggiori dimensioni.
Il secondo modo in cui il governo tedesco ha aiutato le proprie Sparkassen è molto interessante, ma purtroppo poco noto: è consistito precisamente nel rimandare sine die il sistema di mutua garanzia e assicurazione dei depositi tra le banche europee.
Il nesso può non apparire immediato. Nel 2013 viene decisa la partenza dell’Unione bancaria con due pilastri su tre. È stato un gravissimo errore dell’Italia non impedire questa asimmetria, che rendeva l’unione bancaria incoerente rispetto alle sue stesse finalità dichiarate.
Nel 2015 comunque procedono in qualche modo i negoziati per attivare anche la mutua garanzia. Ma Sparkassen e Volksbanken non ne vogliono sapere di partecipare al sistema di mutua garanzia europeo, essenzialmente per due motivi: in primo luogo perché ritengono di essere in grado di proteggersi da sole grazie al loro status speciale di IPS; in secondo luogo, perché temono di dover rendere le proprie regole specifiche omogenee a quelle delle altre banche, senza più beneficiare delle eccezioni regolatorie.
Le prime prese di posizione delle Sparkassen contro la mutua garanzia europea risalgono all’estate 2015. Successivamente Schäuble ha minacciato di bloccare la norma nel Consiglio, con la scusa ufficiale che la Germania si rifiutava di pagare per i problemi bancari degli altri paesi. Diversi tentativi di compromesso andarono a vuoto, perché tutti implicavano qualche tipo di vigilanza europea sulle banche tedesche – svelando così la vera natura del problema: il desiderio del governo tedesco di ostacolare qualsiasi forma di vigilanza europea sulle Sparkassen tedesche e le altre banche minori.
A inizio dicembre 2015 Schäuble sembrò arrendersi alle pressioni della Commissione Europea e dei principali altri Stati dell’Eurozona. Il quotidiano economico Deutsche Wirtschafts Nachrichten evidenziò come una decisione del genere potesse aprire la strada a un duro conflitto tra il settore bancario tedesco e il governo.
Poi, l’8 dicembre, il colpo di scena. Il piano di contrattacco di Schäuble da un lato è consistito nel delegittimare la BCE per il suo presunto conflitto di interesse tra il ruolo di guida della politica monetaria e quello di organismo di vigilanza bancaria – una condizione che i leader europei, Schäuble incluso, avevano da poco deliberato. Ha poi annunciato la sua opposizione alla proposta di mutua garanzia in assenza del recepimento da parte di tutti gli Stati della normativa europea sul bail-in, e, punto fondamentale, fino a che non fossero ridotti i rischi del sistema bancario. Successivamente ha precisato come fosse necessario che le banche europee riducessero la quota in portafoglio dei titoli di Stato del proprio paese. Questa mossa tattica non solo ha rimandato sine die la discussione, ma ha anche spostato l’attenzione dal rischio bancario al rischio (sovrano) delle singole nazioni, un campo nel quale la Germania non ha nulla da temere. Fu infatti l’Italia, con il Presidente del Consiglio Renzi, ad essere costretta a porre il veto alla discussione sui bond sovrani nei bilanci bancari, bloccando così la discussione sul terzo pilastro.
Frattanto venivano attivati gli altri due pilastri, saltando completamente il periodo transitorio originariamente proposto per attenuare gli effetti del cambiamento delle regole. Il risultato è presto detto: le Sparkassen tedesche potranno continuare a beneficiare di requisiti di capitale più laschi e di una vigilanza esclusivamente nazionale. Un combinato disposto che rappresenta un mix esplosivo dal punto di vista dei rischi di crisi bancaria.
Oggi una crisi di questo comparto in Germania non avrebbe nulla da invidiare, nei suoi effetti, alla crisi delle casse di risparmio statunitensi (Saving & Loans Banks) degli anni '80. Un ciclo economico tedesco positivo e il fatto che le aree a maggior rischio di crisi sono altre concorrono a far sì che nessuno oggi si avveda del problema. Nel frattempo, le Sparkassen e le altre banche tedesche difendono con le unghie e coi denti la propria autonomia e il diritto di non essere vigilate da nessuna autorità di vigilanza europea (si veda “Deutsche Banken sehen EU-Aufsicht kritisch”, Franckfurter Allgemeine Zeitung, 1 giugno 2017).
Le conseguenze
Comprendendo questo contesto, le radici dei problemi del sistema bancario italiano diventano più chiare. Il peso dei crediti deteriorati (NPL) è derivato dalla peggiore crisi economica in tempo di pace dal 1861. Il problema è emerso anche perché dopo il 2008 non è stato intrapreso nessun salvataggio bancario. Se prendiamo le quotazioni di borsa del settore bancario negli ultimi anni, è facile osservare un andamento fortemente negativo. Tuttavia, ad uno sguardo più attento, si nota che la caduta dei prezzi è in genere avvenuta in concomitanza, più che con notizie genericamente “negative”, con le novità inerenti alla regolamentazione del settore a livello europeo, o in relazione a interventi del regolatore europeo stesso su questa o quella situazione, su questa o quella banca. Si pensi alle lettere spedite dalla vigilanza europea a questa o quella banca, o anche a diverse banche insieme, per esempio per chiedere di cedere subito i crediti problematici – pertanto ad un prezzo molto basso.
Dalla fine del 2015 – quando la Commissione Europea bloccò l’intervento del fondo interbancario di tutela dei depositi per salvare quattro banche locali nei guai – sino al febbraio 2016, dopo l’entrata in vigore del bail-in senza un periodo di transizione e senza alcuna garanzia europea sui depositi, sono stati bruciati 46 miliardi di capitalizzazione di borsa dei titoli bancari italiani su un totale di 134,6. Un crollo del 35%.
È in ogni caso importante sottolineare che in tutti i casi di crisi bancaria verificatisi da fine 2015 in poi un elemento determinante è stata la fuga dei depositi, che semplicemente non avrebbe avuto luogo in vigenza della normativa nazionale precedente l’entrata in vigore dell’Unione bancaria. In tutti questi casi è stata determinante, e ha giocato un ruolo pesantemente negativo, l’assenza di un backstop pubblico sotto forma di salvataggio (bailout). In tal modo non è azzardato affermare che per il sistema bancario italiano la nuova regolamentazione europea ha rappresentato sin dalla sua introduzione un ulteriore fattore di rischio, anziché – come avrebbe dovuto essere – di stabilizzazione.
Che fare?
A inizio 2016 vi fu un dibattito in Italia sull’opportunità o meno di sospendere la regolamentazione sul bail-in. Erano i mesi in cui una buona parte degli Stati dell’Unione Europea sospendeva de facto il Trattato di Schengen – l’accordo di libera circolazione all’interno della UE in vigore dal 1995. Quella sospensione di fatto perdura tuttora, mentre il bail-in non fu mai sospeso. Ciò è stupefacente – specialmente a causa del fatto che le regole del bail-in contraddicono la Costituzione italiana, e date le asimmetrie insite nello strano e traballante tavolo a due gambe che gentilmente chiamiamo “unione bancaria”. Ma non è mai troppo tardi per rovesciare politiche sbagliate e errori di negoziazione. Purché li si comprenda.
Fonte
Anche in settori di movimento “antagonista” non si va generalmente al di là di qualche istantanea dei non molti momenti di conflitto sociale.
Insomma, manca ormai la predisposizione, e dunque anche la consuetudine, con l’analisi concreta della situazione concreta, che pure sarebbe un obbligo per chi in vario modo si dice comunista. Eppure, possedere un quadro realistico del presente, ci potrebbe permettere di mettere in piedi strategie meno campate in aria, campagne politiche meno improvvisate “ad capocchiam”, un intervento sociale – per i non molti che lo fanno – più consapevole.
Tra i molti aspetti del reale, la crisi crescente delle banche italiane – ed europee, in larga misura – è uno di quelli con conseguenze concrete più incisive e potenzialmente devastanti, visto che ha un ruolo chiave nell’operatività di ciò che resta del “sistema delle imprese”, nella “piazzabilità” dei titoli del debito pubblico, nella erogazione di prestiti anche alle famiglie, ecc. In breve, nella tenuta o meno degli equilibri economici, e dunque anche sociali, cui tutti siamo abituati al punto da considerarli ormai come un dato naturale eterno, un “non problema” che non richiede dunque alcuna conoscenza particolare.
Ma i problemi delle banche hanno anche molti altri aspetti decisivi per l'esatta comprensione dello scenario d’azione. Il “sistema delle regole” entro cui anche le banche devono agire è infatti un quadro definito da leggi nazionali e trattati internazionali. Dunque l’analisi di questi problemi mette in luce anche il ruolo – normativo, dunque politico – dell’Unione Europea. La quale, vista da vicino, somiglia sempre meno all’eden retorico del “manifesto di Ventotene” e sempre di più all’arena-gabbia di Mad Max (sotto il controllo di Tina Turner).
Pubblichiamo perciò molto volentieri questa analisi di Vladimiro Giacché sulla crisi bancaria italiana. Articolo uscito sul sito dell’Institute for New Economic Thinking, con delle modifiche non sostanziali da parte dell’Autore, che ha anche aggiunto alcune note sul tema delle Banche di Credito Cooperativo, tradotto da Saint Simon per il sito Voci dall’estero.
La tesi, documentata con rigore, è che la crisi bancaria italiana sia il frutto delle normative europee, che hanno generato enormi asimmetrie e condizioni inique sopratutto per il nostro paese. Normative aggirate dalla Germania, che da un lato ha proceduto prima della loro entrata in vigore a salvare con interventi pubblici le proprie banche, e poi ha ottenuto di esentare dalla supervisione bancaria europea le proprie Sparkasse, legate a filo doppio alla politica locale e oggi a rischio sistemico, data l’entità degli impieghi. L’arrendevolezza o l’incompetenza della classe politica italiana, che ha accettato regole suicide anche dal punto di vista capitalistico e “nazionalistico”, emerge qui con solare evidenza. E spiega, in pare rilevante, anche l'apparentemente inarrestabile affermarsi di un nazionalismo economico di ritorno sotto le vesti del “populismo” straccione.
*****
Da https://www.academia.edu
di Vladimiro Giacché, 19 luglio 2017
L’obiettivo con cui l’Unione bancaria europea è nata era quello di ridurre la balcanizzazione finanziaria dell’Eurozona. La balcanizzazione – la frattura del sistema bancario transfrontaliero che avviene quando creditori nervosi si ritirano verso i sicuri porti nazionali – è stata percepita a ragione come uno dei maggiori pericoli per la stabilità e la sussistenza stessa della moneta unica.
Infatti, all’indomani della crisi finanziaria, gran parte delle ricerche disponibili evidenziavano come il sistema – che sino al 2008/2009 si presentava così interconnesso da essere apparentemente inestricabile – si era andato ridisegnando secondo linee “nazionali”. I prestiti transfrontalieri nell’eurozona erano crollati all’incirca alla metà dei valori pre-crisi, e ingenti capitali erano stati rimpatriati da molte banche e investitori nei paesi core (Germania e Francia). I prestiti nei paesi cosiddetti periferici (Grecia, Irlanda, Spagna, Italia e Portogallo) nel frattempo tornavano ad essere sostanzialmente nazionali. Questo, politicamente, era imbarazzante, ma anche pericoloso, poiché rendeva tecnicamente possibile la fine della moneta unica.
Peggio ancora, questa situazione creava un problema ulteriore non meno grave: un circolo vizioso potenzialmente distruttivo tra rischio di credito e rischio sovrano – cioè il rischio che una nazione potesse essere spinta alla bancarotta.
Un obiettivo, tre pilastri
L’idea originale era che un’unione bancaria avrebbe ristabilito un mercato bancario e finanziario integrato attraverso tre pilastri:
1) un sistema unico di vigilanza bancaria;
2) procedure di risoluzione che limitassero il rischio di contagio in caso di crisi;
3) una garanzia europea sui depositi tale da spezzare il nesso tra rischio Paese e rischio bancario.
Questa la teoria. Nella pratica, l’unione bancaria ha generato enormi asimmetrie e condizioni competitive inique in tutta l’Eurozona. Queste asimmetrie hanno colpito in particolare il sistema bancario italiano, in un modo che contribuisce a spiegare gli avvenimenti degli ultimi anni.
Per quanto riguarda il primo pilastro, la vigilanza bancaria unica ha effetti di copertura molto differenti tra i vari sistemi bancari nazionali. Trascura un rischio sistemico molto serio in alcune importanti nazioni dell’Eurozona e perciò le favorisce, almeno nel breve periodo.
Quanto al secondo pilastro, le procedure di salvataggio o risoluzione delle banche in crisi – caratterizzate dal sostanziale divieto di salvataggio pubblico – hanno avuto anch’esse effetti fortemente asimmetrici che hanno danneggiato pesantemente alcuni sistemi nazionali (in primis l’Italia). In particolare, queste regole sono state stabilite solo dopo che molti paesi europei avevano elargito aiuti pubblici senza precedenti alle proprie banche nazionali. Questi enormi trasferimenti finanziari avevano sostanzialmente sospeso – sull’onda dell’emergenza – la normativa europea sugli aiuti di Stato, ovvero sugli interventi pubblici nazionali. Così alterando in misura sostanziale il panorama concorrenziale del sistema bancario in Europa.
Impedire a questo punto la possibilità di qualsiasi tempestivo salvataggio pubblico risulta oggi fortemente penalizzante per quei Paesi, come l’Italia, che nella fase precedente non avevano proceduto a sostenere in modo massiccio il proprio sistema bancario nazionale. Per questi Stati, l’opzione del salvataggio è adesso soggetta a criteri estremamente stringenti e subordinata al cosiddetto “bail-in” – ovvero uno schema che pone in primo luogo a carico di azionisti, obbligazionisti e correntisti le perdite bancarie – non escludendo affatto la strada della risoluzione/chiusura della banca interessata.
Quanto all’entità del sostegno di cui le banche di altri Paesi europei avevano goduto prima dell’entrata in vigore dell’Unione bancaria, un articolo pubblicato da M. Frühauf sulla Frankfurter Allgemeine del 16 agosto 2013 – pochi mesi prima dell’approvazione del meccanismo unico di vigilanza bancaria da parte del Consiglio Europeo – offre dati a dir poco impressionanti. Solo per fare un esempio dei molti salvataggi tedeschi all’indomani della crisi finanziaria, il governo fornì alla compagnia di assicurazione Hypo-Re una garanzia fino a 145 miliardi di euro. Il costo di questo solo salvataggio per i contribuenti tedeschi finora è stato di 20 miliardi di euro. Altre fonti forniscono numeri complessivi leggermente diversi sui salvataggi pubblici, ma quel che emerge chiaramente è la peculiarità della situazione bancaria italiana, che finora ha comportato aiuti pubblici molto inferiori a quelli degli altri paesi europei.
Gli effetti negativi dei primi due pilastri divenivano poi addirittura dirompenti a causa dell’assenza del terzo pilastro: la garanzia europea sui depositi. Questo meccanismo era assolutamente essenziale al fine dichiarato dell’Unione bancaria: arrestare il processo di “balcanizzazione finanziaria”. Infatti l’assenza di una garanzia europea manteneva l’onere della protezione (parziale) dei risparmiatori in capo al sistema Paese interessato. E, ancora una volta, contraddiceva quella solidarietà europea che dovrebbe essere il fondamento dell’architettura istituzionale dell’UE, e in particolare dell’Eurozona.
L’effetto di questo insieme di norme – i due pilastri che ci sono e quello che non c’è – è stato devastante in particolare per il sistema bancario italiano, per il quale le nuove regole hanno mutato in misura sostanziale – e per di più senza alcuna fase transitoria – il panorama normativo vigente da decenni, oltretutto in contraddizione con almeno due articoli della Costituzione italiana (l’art. 43 e l’art. 47).
A dispetto delle intenzioni, il nuovo contesto normativo ha penalizzato pesantemente i risparmiatori, in particolare i detentori delle cosiddette obbligazioni subordinate, diventate improvvisamente più rischiose col nuovo regime.
E, come era facilmente prevedibile, l’assenza sia di una rete di sicurezza pubblica per le situazioni di crisi che di un sistema di garanzia europeo, ha innescato una vera e propria corsa agli sportelli in relazione agli istituti percepiti come più deboli, o che erano alle prese con crisi aziendali che sarebbero state facilmente gestibili nel contesto normativo precedente. In tal modo, secondo il meccanismo ben noto delle previsioni che si auto-avverano, i problemi di liquidità di alcuni istituti hanno dato luogo a una fuga dei depositi che ne ha posto a rischio la solvibilità.
Un’altra pericolosa asimmetria proviene dal trattamento del rischio di mercato nel nuovo regime. Il peso di questo rischio – legato all’attività finanziaria, incluse le transazioni in derivati – risultava assolutamente sottodimensionato rispetto alla sua portata reale già negli Stress Test e Asset Quality Review condotti dalla Banca centrale europea. Il nuovo sistema pone un’attenzione molto maggiore sul rischio di credito – e conseguentemente penalizza i sistemi bancari come quello italiano che sono relativamente meno finanziarizzati, ma nei quali il rischio di credito è un fattore relativamente più importante.
Ma c’è di più: il rischio di mercato, al contrario del rischio di credito, non figura nemmeno nelle 5 priorità della Vigilanza bancaria europea esercitata dalla BCE, come evidenziato nei Rapporti annuali della BCE del 2015, 2016 e 2017 (si veda l’ultimo).
In questo modo risulta insufficientemente vigilata precisamente la tipologia di rischio alla quale è attribuito lo scoppio della crisi culminata nella Grande Recessione. Più concretamente, è insufficientemente vigilato il rischio di mercato espresso da alcune grandi banche tedesche e francesi, e in particolare quello di un colosso quale Deutsche Bank. Conoscere il valore effettivo dei Level 3 assets (derivati) di Deutsche Bank è un esercizio più prossimo alla divinazione che alla stima scientifica: in effetti al team ispettivo della Vigilanza BCE che ha recentemente condotto un’ispezione presso la banca di Francoforte “non è stato richiesto nemmeno di prezzare il valore dei derivati in portafoglio”. L’Autorità di vigilanza europea aveva alzato le mani con un curioso ragionamento: giudicando cioè irrealistico valutare l’adeguatezza del pricing dato ai derivati nel portafoglio di Deutsche Bank e di altre grandi banche, vista la discrezionalità concessa al riguardo a banche e revisori (si veda L. Davi, BCE, 68 banche sotto ispezione. Fuori i Level 3 dalle verifiche, “Il Sole 24 Ore”, 25 gennaio 2017).
E il vincitore è...
Il grande vincitore dell’Unione bancaria è stato il sistema bancario tedesco. Tutte le banche tedesche, ma in particolare le banche di piccole e medie dimensioni, che hanno infatti beneficiato in primo luogo di una costruzione del primo pilastro che ha fissato a 30 miliardi di asset il livello minimo per essere vigilati dalla Bce. Per ottenere questa soglia minima, il ministro delle Finanze tedesco Wolfgang Schäuble minacciò di mettere il veto all’Unione bancaria, e non è un mistero che l’obiettivo era tenere fuori le Sparkassen dalla Vigilanza europea.
Delle 417 Sparkassen soltanto una è oggi vigilata dalla Vigilanza BCE; stiamo parlando di banche cui spetta il 22,3% degli impieghi di quel paese, per un totale di oltre 1.000 miliardi di euro.
Del resto non è questo l’unico modo in cui queste banche pubbliche, tradizionalmente legate alla CDU, sono state protette. Vanno citati almeno altri due modi.
Il primo è rappresentato dal trattamento di favore riservato dalla normativa europea ai cosiddetti Institutional Protection Schemes (IPS). Gli IPS sono sistemi di mutua protezione e garanzia tra le banche associate, regolati contrattualmente a livello di associazione di categoria. Sono diffusi soprattutto in Germania (Sparkassen e Volksbanken), Austria (banche Raiffeisen) e Spagna (Casse di risparmio). Differiscono sia dai gruppi bancari, sia dai network di banche. Pertanto non sono direttamente oggetto della disciplina europea – ad esempio nella Direttiva europea sui requisiti di capitale (CRD IV) gli IPS non sono neppure citati – né degli accordi di Basilea. La cosa è stata giudicata da Thomas Stern, esperto dell’Austrian Financial Markets Authorities, in questi termini: “la decisione del legislatore europeo di non estendere la regolamentazione riguardante capitale e liquidità agli IPS è rimarchevole e difficile da capire da un punto di vista prudenziale”. Stern scrisse queste righe nel 2014, ma da allora la situazione non è cambiata.
Il fatto di essere membri di un IPS in effetti dà alle banche associate una serie significativa di privilegi regolamentari. È appena il caso di dire che le banche italiane in qualche modo confrontabili con le banche che in altri Paesi europei sono associate in IPS, le Banche di Credito Cooperativo, rientrano invece pienamente nella normativa europea anche per quanto riguarda i requisiti di capitale e di liquidità; non solo: con la L. 49/2016 il legislatore italiano ha imposto l’inclusione delle Banche di Credito Cooperativo in Gruppi bancari che, oltre a snaturare la natura mutualistica e cooperativa degli enti associati, avranno in 2 casi su 3 la dimensione di banche “significative” a livello europeo e quindi saranno direttamente vigilate dalla BCE sulla base dei requisiti più stringenti in termini di capitale previsti per le banche di maggiori dimensioni.
Il secondo modo in cui il governo tedesco ha aiutato le proprie Sparkassen è molto interessante, ma purtroppo poco noto: è consistito precisamente nel rimandare sine die il sistema di mutua garanzia e assicurazione dei depositi tra le banche europee.
Il nesso può non apparire immediato. Nel 2013 viene decisa la partenza dell’Unione bancaria con due pilastri su tre. È stato un gravissimo errore dell’Italia non impedire questa asimmetria, che rendeva l’unione bancaria incoerente rispetto alle sue stesse finalità dichiarate.
Nel 2015 comunque procedono in qualche modo i negoziati per attivare anche la mutua garanzia. Ma Sparkassen e Volksbanken non ne vogliono sapere di partecipare al sistema di mutua garanzia europeo, essenzialmente per due motivi: in primo luogo perché ritengono di essere in grado di proteggersi da sole grazie al loro status speciale di IPS; in secondo luogo, perché temono di dover rendere le proprie regole specifiche omogenee a quelle delle altre banche, senza più beneficiare delle eccezioni regolatorie.
Le prime prese di posizione delle Sparkassen contro la mutua garanzia europea risalgono all’estate 2015. Successivamente Schäuble ha minacciato di bloccare la norma nel Consiglio, con la scusa ufficiale che la Germania si rifiutava di pagare per i problemi bancari degli altri paesi. Diversi tentativi di compromesso andarono a vuoto, perché tutti implicavano qualche tipo di vigilanza europea sulle banche tedesche – svelando così la vera natura del problema: il desiderio del governo tedesco di ostacolare qualsiasi forma di vigilanza europea sulle Sparkassen tedesche e le altre banche minori.
A inizio dicembre 2015 Schäuble sembrò arrendersi alle pressioni della Commissione Europea e dei principali altri Stati dell’Eurozona. Il quotidiano economico Deutsche Wirtschafts Nachrichten evidenziò come una decisione del genere potesse aprire la strada a un duro conflitto tra il settore bancario tedesco e il governo.
Poi, l’8 dicembre, il colpo di scena. Il piano di contrattacco di Schäuble da un lato è consistito nel delegittimare la BCE per il suo presunto conflitto di interesse tra il ruolo di guida della politica monetaria e quello di organismo di vigilanza bancaria – una condizione che i leader europei, Schäuble incluso, avevano da poco deliberato. Ha poi annunciato la sua opposizione alla proposta di mutua garanzia in assenza del recepimento da parte di tutti gli Stati della normativa europea sul bail-in, e, punto fondamentale, fino a che non fossero ridotti i rischi del sistema bancario. Successivamente ha precisato come fosse necessario che le banche europee riducessero la quota in portafoglio dei titoli di Stato del proprio paese. Questa mossa tattica non solo ha rimandato sine die la discussione, ma ha anche spostato l’attenzione dal rischio bancario al rischio (sovrano) delle singole nazioni, un campo nel quale la Germania non ha nulla da temere. Fu infatti l’Italia, con il Presidente del Consiglio Renzi, ad essere costretta a porre il veto alla discussione sui bond sovrani nei bilanci bancari, bloccando così la discussione sul terzo pilastro.
Frattanto venivano attivati gli altri due pilastri, saltando completamente il periodo transitorio originariamente proposto per attenuare gli effetti del cambiamento delle regole. Il risultato è presto detto: le Sparkassen tedesche potranno continuare a beneficiare di requisiti di capitale più laschi e di una vigilanza esclusivamente nazionale. Un combinato disposto che rappresenta un mix esplosivo dal punto di vista dei rischi di crisi bancaria.
Oggi una crisi di questo comparto in Germania non avrebbe nulla da invidiare, nei suoi effetti, alla crisi delle casse di risparmio statunitensi (Saving & Loans Banks) degli anni '80. Un ciclo economico tedesco positivo e il fatto che le aree a maggior rischio di crisi sono altre concorrono a far sì che nessuno oggi si avveda del problema. Nel frattempo, le Sparkassen e le altre banche tedesche difendono con le unghie e coi denti la propria autonomia e il diritto di non essere vigilate da nessuna autorità di vigilanza europea (si veda “Deutsche Banken sehen EU-Aufsicht kritisch”, Franckfurter Allgemeine Zeitung, 1 giugno 2017).
Le conseguenze
Comprendendo questo contesto, le radici dei problemi del sistema bancario italiano diventano più chiare. Il peso dei crediti deteriorati (NPL) è derivato dalla peggiore crisi economica in tempo di pace dal 1861. Il problema è emerso anche perché dopo il 2008 non è stato intrapreso nessun salvataggio bancario. Se prendiamo le quotazioni di borsa del settore bancario negli ultimi anni, è facile osservare un andamento fortemente negativo. Tuttavia, ad uno sguardo più attento, si nota che la caduta dei prezzi è in genere avvenuta in concomitanza, più che con notizie genericamente “negative”, con le novità inerenti alla regolamentazione del settore a livello europeo, o in relazione a interventi del regolatore europeo stesso su questa o quella situazione, su questa o quella banca. Si pensi alle lettere spedite dalla vigilanza europea a questa o quella banca, o anche a diverse banche insieme, per esempio per chiedere di cedere subito i crediti problematici – pertanto ad un prezzo molto basso.
Dalla fine del 2015 – quando la Commissione Europea bloccò l’intervento del fondo interbancario di tutela dei depositi per salvare quattro banche locali nei guai – sino al febbraio 2016, dopo l’entrata in vigore del bail-in senza un periodo di transizione e senza alcuna garanzia europea sui depositi, sono stati bruciati 46 miliardi di capitalizzazione di borsa dei titoli bancari italiani su un totale di 134,6. Un crollo del 35%.
È in ogni caso importante sottolineare che in tutti i casi di crisi bancaria verificatisi da fine 2015 in poi un elemento determinante è stata la fuga dei depositi, che semplicemente non avrebbe avuto luogo in vigenza della normativa nazionale precedente l’entrata in vigore dell’Unione bancaria. In tutti questi casi è stata determinante, e ha giocato un ruolo pesantemente negativo, l’assenza di un backstop pubblico sotto forma di salvataggio (bailout). In tal modo non è azzardato affermare che per il sistema bancario italiano la nuova regolamentazione europea ha rappresentato sin dalla sua introduzione un ulteriore fattore di rischio, anziché – come avrebbe dovuto essere – di stabilizzazione.
Che fare?
A inizio 2016 vi fu un dibattito in Italia sull’opportunità o meno di sospendere la regolamentazione sul bail-in. Erano i mesi in cui una buona parte degli Stati dell’Unione Europea sospendeva de facto il Trattato di Schengen – l’accordo di libera circolazione all’interno della UE in vigore dal 1995. Quella sospensione di fatto perdura tuttora, mentre il bail-in non fu mai sospeso. Ciò è stupefacente – specialmente a causa del fatto che le regole del bail-in contraddicono la Costituzione italiana, e date le asimmetrie insite nello strano e traballante tavolo a due gambe che gentilmente chiamiamo “unione bancaria”. Ma non è mai troppo tardi per rovesciare politiche sbagliate e errori di negoziazione. Purché li si comprenda.
Fonte
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