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16/08/2019

Recessione alle porte, si pesca nelle vecchie ricette perdenti

L’economia capitalistica occidentale è da decenni in piena crisi involutiva. Ogni volta che la situazione esplode diventano indispensabili massicci interventi degli Stati – cui in tempi “normali” la dottrina neoliberista vieta qualsiasi intromissione nelle faccende economiche – sia sotto forma di aiuti alle imprese (soprattutto di natura fiscale), sia sotto forma di “politiche monetarie ultra-accomodanti” (denaro a costo zero, o addirittura “regalato”), per impedire il crollo del sistema finanziario.

Siamo di nuovo ad un punto di caduta, visto che tutti quegli interventi passati non hanno affatto toccato la “matrice” strutturale delle ragioni della crisi, ma sono stati architettati solo per attutirne gli effetti.

I segnali, anche sui media mainstream, non vengono più ignorati, anche se – ovviamente – ci si guarda bene dal prendere in considerazione la domanda regina: e se tutto questo fosse inevitabile? Ossia: connaturato al sistema?

Tutti gli occhi sono come sempre rivolti agli Usa, vecchio cuore stanco del capitalismo wasp, dove ancora una volta l’analisi empirica assume toni da aruspici che scrutano le viscere degli animali.

L’elemento che ha turbato “i mercati” è stato infatti “l’inversione dei tassi di interesse” sui titoli di stato Usa. In pratica: i titoli a breve termine “rendono” (ossia pagano interessi) più di quelli decennali. Il che o è un assurdo (i “rischi” valutabili dai mercati sono ovviamente quasi immediati, visto che il lontano futuro economico è imprevedibile), oppure è indice di problemi gravissimi già in atto.

Così, gli aruspici sottolineano che la “curva dei rendimenti” si è verificata ben nove volte e ogni volta c’è stata subito dopo una recessione. Non c’è spiegazione scientifica (anche perché gli stessi che fanno le analisi in questo modo orientano poi le scelte degli investitori, alimentando una “profezia che si autoavvera”), ma tutti la prendono per buona.

Così parte la caccia ai “cigni neri”, ossia agli elementi di incertezza che possono provocare una caduta improvvisa della situazione.

Particolarmente monitorata è in primo luogo la “guerra dei dazi”, aperta da Trump contro la Cina ma anche contro buona parte delle merci europee, in particolare tedesche (dal dieselgate in poi, non mancano le buone ragioni...). Seguono la Brexit (il cui esito finale è al momento nelle mani di un personaggio abbastanza folkloristico come Boris Johnson), l’Argentina (ripiombata in una crisi senza via d’uscita, grazie al ritorno al potere degli Usa attraverso il pagliaccio Macrì), la situazione di Hong Kong (“spinta” da Usa e Gran Bretagna), la recessione in Germania e persino la ridicola crisi politica italiana (che preoccupa poco, visto che chiunque comandi, qui, obbedisce a Bruxelles, sceneggiate a parte).

Ma gli strumenti per affrontare tutto questo sono ben pochi. Anzi, quasi soltanto la politica monetaria messa in campo dalle principali banche centrali.

Così Trump pretenderebbe dalla sua banca centrale, la Federal Reserve, un taglio drastico dei tassi di interesse. La Bce – avendo i tassi a zero da anni – pensa a stimoli monetari davvero poco “ortodossi” (il 12 settembre Francoforte intende sfoderare un pacchetto di stimoli che va ben oltre le attese, e il membro tedesco, Jens Weidmann, stavolta dice che va bene, visto che è la sua Germania a star messa peggio). La Banca d’Inghilterra attende, perché il governo di Johnson non ha ancora espresso una qualche idea dotata di senso. Quella del Giappone ha finito la fantasia “espansiva” e più che continuare a “stampare denaro” non può fare.

Resta la Cina, che da un lato risponde per le rime ai dazi statunitensi, imponendone di altrettanto duri che vanno a colpire proprio il pilastro della base sociale di Trump (gli agricoltori del Midwest) ed evita ancora di trasformare le proteste di Hong Kong in una seconda Tien An Men (se avessero copiato la logica dei “decreti sicurezza” di Salvini avremmo visto il sangue scorrere a fiumi...). Dall’altro va espandendo il mercato interno a ritmi mai visti prima nella storia: dopo i maxi tagli alle tasse in busta paga dello scorso Natale, accompagnato da aumenti salariali e sgravi fiscali, oggi ha annunciato ulteriori misura di stimolo, senza ancora precisarle, in occasione del 70° anniversario della Rivoluzione, il 1 settembre.

Sono solo apparentemente mosse simili. Quelle di Usa e Unione Europea puntano infatti a rendere “più competitive” le proprie produzioni, abbassando il costo del denaro dopo aver ridotto a quasi zero quello del lavoro. Insomma: puntano ad esportare di più, bloccando con dazi o sanzioni le merci dei possibili concorrenti. La strategia cinese, invece, punta a compensare le minori esportazioni con più larghi consumi interni.

Con quasi un miliardo e mezzo di persone, è peraltro il “mercato nazionale” più grande del mondo. A occhio, hanno fiato da vendere...

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