Le elezioni umbre costituiscono certamente un fatto locale:
irrilevante il numero di elettori coinvolti (700mila, di cui votanti
circa 400mila: poco più degli abitanti di Cinecittà) per trarne
indicazioni generali. Si conferma Salvini, e da una settimana è tutto un
dire che “lo sapevamo”, “era scontato”, “non poteva andare
diversamente”. Ma in realtà ci sono due dati che trovano nell’Umbria un
trend generale, perché inseriti in una direzione che li precede e li
seguirà probabilmente in futuro: la sconsolata e comica ritirata del M5S
e la curiosa caparbietà della sinistra elettorale di essere caricatura
di se stessa.
Sul M5S è inutile insistere: la trasformazione del partito da
“populista” a liberale non ha fatto altro che sovrapporlo al partito
della stabilità per eccellenza, il Pd. Partito, nonostante tutto il male
che ne possiamo pensare, decisamente più attrezzato a svolgere il ruolo
per il quale è nato: tradurre in italiano i diktat europei formulati in
inglese. Di conseguenza, ahi noi, il Pd rimarrà a galla, e persino il
voto umbro ne conferma una certa resilienza: al di là delle incapacità
dei suoi dirigenti, rimarrà sempre nel paese un pezzo di società
comodamente rappresentato dalle istanze liberal-democratiche incarnate
dal Pd. Rimarrà sempre una quota di lavoro dipendente pubblico,
semi-colto, para-intellettuale, che sopravvive decentemente al
ripiegamento dell’economia nazionale e alla moderazione salariale:
questo zoccolo duro è preparato a votare Pd, Renzi, Draghi o il Gabibbo,
l’importante è azzeccare i congiuntivi in tv e seguire il breviario
euroliberista. Porsi – come sta facendo il M5S – come “alternativa di
stabilità” è farsesco: il M5S vince elettoralmente solo se sta
all’opposizione, sbraita (giustamente) contro tutto e tutti, se ne frega
della coerenza e svolge l’unica funzione di megafono delle insofferenze
popolari. La prova del governo non è praticabile: per incapacità, come
evidente; ma per essenza politica, soprattutto. Il M5S, come ogni
populismo, non è nato per governare ma per influenzare chi governa,
costringerlo a mediare tra gli interessi del grande capitale privato, da
una parte, e le sofferenze piccolo borghesi, dall’altra. È il partito
del vittimismo popolare, che sterilizza ogni forma di partecipazione
attiva, meno che mai conflittuale, in funzione dell’autocommiserazione
plebea mediata dai famigerati “portavoce” grillini. Un ruolo che ha
avuto sicuramente una sua importanza: meglio il vittimismo che
l’anestetica accettazione dello status quo. Eppure, anche qui, il gioco
non poteva durare. Ad ogni modo, quella fase, la fase cioè del M5S “di
lotta”, è definitivamente tramontata. Impossibile (certo in politica, e
in Italia, nulla è davvero impossibile) pensare di ricostruire
una sua verginità dopo l’ultimo anno e mezzo (e i tre anni di giunta
Raggi a Roma), in cui persino i più affezionati al partito grillino
vengono disciplinati attraverso promesse di carriera o con la
coercizione. Non ci crede più nessuno, si tratta solo di amministrare la
ritirata. Operazione per cui il M5S è il più sprovveduto dei partiti,
visto che non ha alcuna impalcatura ideologica e nessuna strutturazione
pratica per resistere alla burrasca. Non è detto che questo comporti
immediatamente una scomparsa del partito dalla scena politica. Se il
sistema elettorale si muove verso il proporzionale (ma è tutto da vedere
che si finirà davvero con l’approvarlo), persino un partito del 6-9%
può tornare utilissimo nelle alleanze post-voto. È lo stesso
ragionamento che si è fatto Renzi, che ha intuito – prima di altri – che
il bipolarismo distorto avuto in Italia tra il ’94 e il 2011 è stato
superato senza che i partiti se ne accorgessero. Ma veniamo alla
sinistra dello zeropercento, perenne fonte di appagamento: come si fa a
non volerle bene, in fondo?
Anche in Umbria – come ovunque in questi venti anni – trova
smentita il ragionamento secondo il quale, laddove non esista già in
partenza una forte presenza sociale, questa può essere aggirata
sfruttando opportunisticamente il momento elettorale per costruirsi quantomeno una
visibilità, e di lì un embrione di presenza politica. Da questo punto
di vista l’Umbria è invece una magnifica cartina tornasole per leggere i
ritardi politici (e mentali) di questa sinistra. L’Umbria è infatti una
delle pochissime ridotte territoriali del paese in cui poteva
persistere un certo voto “ideologico”, che al di là della conflittualità
sociale, al di là della composizione di classe, al di là del
ripiegamento politico di questi decenni, al di là dunque della realtà,
poteva premiare (certo in percentuali irrisorie) non la “presenza”, ma
un’idea. L’idea del comunismo, variamente inteso (à la Rifondazione, à
la Rizzo, à la PaP, à la Pci). L’idea – più affettiva che razionale – di
trovare nella falce e martello, o negli ideali che ad essa
ecletticamente vorrebbero richiamarsi, un porto sicuro. E invece lo zero
percento della sinistra comunista è lì a svelarci il meccanismo mentale
inceppato di chi, nonostante la realtà, persiste nell’errore.
Le elezioni non producono di per loro alcun mutamento – anche infinitesimale – dei rapporti politici: fotografano ciò
che già esiste e ciò che già non esiste. Non “concedono” alcuna platea,
nessuna visibilità ulteriore, nessuno strumento di relazione
privilegiato con pezzi di elettorato che già non si siano intercettati prima della chiamata al voto. La sinistra, per rappresentare elettoralmente qualcosa, deve prima conquistarselo nella società, poi cercare
di tradurlo in voti. Ovviamente una cosa non esclude l’altra: si può
benissimo cercare di intessere relazioni sociali, praticare (si parva
licet) del “conflitto”, e contestualmente presentarsi comunque alle
elezioni, sapendo da prima dell’impresa impossibile. Ma se questo è il
pensiero che muove i compagni, allora il discorso bisognerebbe prenderlo
ancora più a monte.
Persino nell’Umbria del trionfo salviniano non solo la Lega perde
l’1,2% dei voti rispetto alle europee, ma – soprattutto – la gran parte
dei voti in uscita dal M5S si dirige verso l’astensione più che verso
altri partiti (sebbene un flusso di una certa importanza dal M5S alla
Lega). La differenza qualitativamente decisiva di questi anni non è
tanto quella tra “populismo” e “liberalismo”, ma tra chi vota e chi non
vota. Poi, certo, nei rapporti di forza politici vale unicamente ciò che
viene impresso per via elettorale, soprattutto in una fase di
pacificazione sociale come questa in cui viviamo da decenni. Ma la
frattura determinante è tra chi “crede” nel sistema – sia esso liberale o
“populista” – e chi non ci crede più. È dentro questo magma sociale
incompreso e incomprensibile di astensionismo disilluso e rassegnato che
la sinistra comunista deve ricostruire relazioni sociali. Anzi:
relazioni, prima di tutto, “umane”, etiche, di riconoscimento reciproco.
Eppure il goffissimo tentativo è sempre quello di presentarsi “come gli
altri”. Certo, “diversi” ideologicamente da tutti gli altri, ma questa
traduzione ideologica non viene più recepita, non può essere più
compresa. Diceva bene Alessandro Portelli qualche giorno fa sul
«Manifesto» (Dalle fallite lotte degli operai alla folla solitaria):
guardate che un certo modo di “sopravvivere” alle “sfighe” della vita
(quantomeno della vita lavorativa) è sempre stato presente nel tessuto
operaio. Se prima l’organizzazione collettiva, la “lotta”, il “partito”,
permettevano di mascherare quel certo individualismo egoista
proletario, oggi che è venuto meno quel mondo è rimasta sul terreno
unicamente una forma di reazione che va compresa, con cui bisogna
confrontarsi, ma su cui non è possibile più agire per via ideologica.
Non sono gli “operai”, o i “proletari”, che sono cambiati: siamo
cambiati noi, è cambiata la lotta per il comunismo. O meglio, è finita.
Magari ritornerà, ma oggi non c’è più. Cercare di rappresentare per via
unicamente ideologica un pezzo di società che non può più riconoscerne i
lemmi è la più idealistica delle vie elettorali alla lotta di classe. E
infatti non funziona. Non funzionerà mai.
Tutto ciò non significa che le elezioni non possano essere sfruttate,
che a volte sia necessario candidarsi, farsi eleggere anche in
posizioni di minoranza, “piazzare” qualche nostro esponente dentro le
assemblee rappresentative. Lo si fa, però, quando tutto ciò è utile.
Quando si può perdere, ma si ha qualcosa da rappresentare. Oggi noi non
abbiamo nulla da rappresentare. Torniamo a farlo, intestiamoci porzioni
di società (società, non ridotte ideologizzate di gente “come
noi”), e allora – solo allora – diamo battaglia. Ma così è un farsi
ridere dietro, e non ce lo meritiamo.
P.s. Persino Renzi non si è presentato in Umbria. Non ci vuole Lenin,
basta la scaltrezza realpolitica democristiana a decidere, di volta in
volta, quando conviene e quando non conviene farlo. Ma tant’è.
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