La crisi legata alla pandemia del Coronavirus evidenzia come il sistema economico, per meglio dire il modo di produzione capitalistico sia in crisi da sovra-produzione in modo strutturale e soprattutto non da oggi. Una fase di sovra-produzione che fonda le sue origini nella storia recente con la prima crisi del dopoguerra, quella del petrolio negli anni ’70, che tenta di risollevarsi con la leva finanziaria, crollando nuovamente nel 2008 con i “SubPrime”.
Da allora in stallo, in modo particolare il tipo di capitalismo occidentale, tenta di rilanciarsi solo attraverso la leva finanziaria e con la gestione e messa a valore dei dati digitali – informazioni – come unico elemento possibile di differenziale di profitto rispetto ai competitori globali, divenuti ormai economie consolidate, non più emergenti, ma concorrenti. Ci si assesta su produzioni completamente legate all’export perché il mercato interno non è in grado di autosostenersi e per finire si punta su una riconversione “green”, che di verde ha ben poco ma è solo un’allocazione differente di prodotti ed energie, che sottendono comunque alla crescita (consumo e distruzione di risorse naturali) infinita. Il tutto per arrivare alla crisi dell’”essere invisibile”, il Coronavirus, che in poche settimane riporta nuovamente tutti e tutto alla realtà, toglie il tappeto e mostra la polvere nascosta sotto.
La crisi in corso sancisce la fine della globalizzazione per come l’abbiamo conosciuta e il definitivo esplicitarsi di un mondo multipolare. Tralasciando l’aspetto meramente finanziario per motivi di brevità e concentrandoci sul modello produttivo legato a quelle che abbiamo definito essere le catene del valore globali (aspetto che ci interessa maggiormente come sindacato perché è ciò che si riflette direttamente sul lavoro e comunque l’uno e l’altro non sono disconnessi), andiamo a sviluppare un’interpretazione che dovrà essere soggetta ad ulteriore analisi e verifica.
Il modello economico-produttivo occidentale contemporaneo, cioè di fatto quello statunitense ed europeo, è caratterizzato da un sistema definibile come centralizzato ma non concentrato, ossia si centralizza il “business”, la parte amministrativa di alto livello, i profitti, la conoscenza, le informazioni e i dati, ma le produzioni reali, le forniture, i processi intermedi, l’indotto, quindi il lavoro, sono parcellizzati, “sparpagliati” in molteplici luoghi (reali e virtuali di produzione e lavoro) lungo le catene del valore globali e non più concentrati in un solo luogo o regione. Queste porzioni produttive parcellizzate e distribuite, questi sotto-processi, non erano in grado di reggere da soli l’elevato livello di concorrenza pre-crisi Coronavirus, figuriamoci quello del post e quindi finiscono per riferire ad un unico centro – polo – di fatto operando in una mono-committenza.
Ma ciò che si è evidenziato in modo esplicito durante la crisi Covid-19 è che al contempo il polo non è più in grado di realizzare tali sotto-produzioni a basso valore aggiunto, ormai completamente delocalizzate, e ne è diventato completamente dipendente (può diversificare rivolgendosi a sotto-processi differenti e allocati in territori diversi, ma la sostanza non cambia). Un esempio semplice ed esaustivo di quanto appena descritto ce lo rendono le dichiarazioni rilasciate da Hildegard Müller, presidente dell’influente associazione dei costruttori d’auto tedeschi “Verbandes der Automobilindustrie (VDA)”, in merito allo stop delle produzioni legato alla pandemia, che chiede venga sostenuta l’Italia, leggi la sua manifattura del Nord, perché altrimenti i colossi mondiali tedeschi dell’auto sarebbero “in panne”. Polo e sotto-sistemi sono connessi tra loro grazie all’impiego delle nuove tecnologie legate all’Industry 4.0 (robotizzazione, internet delle cose, ecc.) e ai processi di digitalizzazione.
Il modello appena descritto si scontra con quello Cinese, dove il rapporto di gestione razionale e di intervento in tutti i settori economici dello Stato, con e in relazione al privato, lo rende centralizzato, concentrato e pianificato su anni. Le catene globali cinesi, le cosiddette Vie della Seta, sono “zone” di influenza commerciale di import, export e presenza della propria comunità, perché l’area di influenza della Cina è anche la comunità cinese fuori dal territorio nazionale della Cina stessa. In questo senso le nuove Vie della Seta sono interpretate dal gigante asiatico, che sviluppa, così come polo, aree di influenza, da cui però non dipende in modo vitale come il modello occidentale. Questa differenza è, ma soprattutto sarà, fondamentale nel contesto competitivo post pandemia che appunto sancisce uno scacchiere internazionale multipolare, dove si va sempre più affermando la tendenza all’autosufficienza di ogni Paese.
Le elités dirigenziali politiche ed economiche occidentali, infatti, cominciano ad interrogarsi e mettere in discussione il proprio modello: sulla sua capacità di tenuta e sulla necessità di una sua riformulazione. In modo particolare in relazione alle vitali relazioni di interdipendenza con i sotto-processi delocalizzati (la non concentrazione) che hanno creato, ma che potrebbero essere in qualsiasi momento interrotte da un altro Paese competitore. La partita è in corso e suoi attori principali sono Cina e Stati Uniti, che la interpretano con guerre commerciali a colpi di dazi e forme di protezionismo (modalità queste, considerate un tabù contro la libertà, fino a pochi anni fa), ma tutti devono giocare se non vogliono soccombere, UE ed Italia comprese. Si acuisce lo scontro tra i due modelli, si ridisegnano le sfere di influenza, si cercano nuovi sbocchi sui mercati, ed in modo particolare nuovi modelli di business che creeranno nuovi tipi e forme del lavoro. Si ha, cioè, un’accelerazione della competizione internazionale, che accelera i processi in corso e ne crea di nuovi per sostenere ed accaparrarsi i risicati profitti di un sistema, non scordiamocelo, che complessivamente è in crisi da sovra-produzione.
Tali dinamiche cominciano già a mostrare i loro effetti anche nel panorama italiano. Alcuni esempi sono significativi per comprendere cosa significhi quanto sopra descritto. Si prenda il settore siderurgico: ArcelorMittal, dichiara di fatto 5000 licenziamenti, non rispetta nessun accordo, non tutela la piena occupazione, non riconverte gli impianti, non rilancia le produzioni. Chiaro l’intento della multinazionale indiana di dismettere l’ex-Ilva, uno dei poli siderurgici più importanti d’Europa, per accaparrarsi fette di mercato. Ma non solo, ThyssenKrupp ha annunciato la volontà di mettere l’AST di Terni sul mercato, Arvedi vuole spegnere la ferriera di Servola, Jindal rimane ferma nel rilancio della ex Lucchini di Piombino. Vediamo la vicenda che sta interessando la città di Trieste e il suo porto dove è in corso uno scontro tra la possibilità che si consolidi una gestione pubblica per il suo rilancio e industrializzazione, oppure che finisca nell’interesse di qualche privato che tenterà di fare solo il proprio profitto particolare. Il porto di Trieste in prospettiva è fondamentale rispetto alle catene del valore che tagliano trasversalmente il Nord Italia da Ovest verso Est e come punto di approdo delle Vie della Seta orientali; è già infatti nel mirino dell’interesse cinese per sviluppare una sua ristrutturazione logistica, tecnologica, facendone così un polo di avanguardia e di propria influenza dal Mediterraneo verso il centro Europa.
In tutto questo il settore della Logistica si consolida come un “assett” fondamentale per il paese, da solo genera 85 miliardi di valore aggiunto ossia il 5% di tutto il valore nazionale, impiega 1,1 milioni di lavoratori e su di esso si basano 887 miliardi di interscambio commerciale. Un’arteria che non si deve mai fermare, infatti le ristrutturazioni tecnologiche affinché esso dipenda sempre meno dai lavoratori e sempre più dalle linee automatizzate sono ormai una realtà nei magazzini e sono accelerate dall’esperienza della pandemia, inoltre anche questo settore è investito da un processo di digitalizzazione attraverso la piattaforma logistica nazionale. Come pure la risicatissima sanatoria dei lavoratori “sommersi”, immigrati impiegati come braccianti nei campi appena varata dal Governo Conte necessaria per il sistema agricolo-industriale legato alla grande distribuzione, che scopre che a frontiere chiuse non è più in grado di avere la consueta manovalanza stagionale a bosso costo dall’est Europa e non solo. Con una mistificatoria operazione di giustizia sociale si tenta di recuperare tutte le braccia possibili regolarizzando coloro che sono già stati sfruttati per anni nei nostri campi per pochi spiccioli e chiedendo di mandare a lavorare nei campi i percettori di ammortizzatori sociali, con un bel risparmio per i grandi imprenditori agricoli che si ritroverebbero manovalanza praticamente a costo zero e in grado in questo modo di sottostare ai prezzi imposti dalla grande distribuzione. Eccetera...
Necessario, quindi,comprendere come tale competizione internazionale si rifletta sotto vari punti di vista: nei cambiamenti del sistema economico-produttivo e nelle tendenze verso nuove forme di lavoro. Non si ha la pretesa in questo scritto di essere esaustivi, ma di tracciare un primo abbozzo che definisca un orizzonte, per comprendere il contesto in cui ci troviamo e le sue tendenze, considerando che la situazione è in costante e repentino cambiamento.
Il primo aspetto con cui tutti si trovano a dovere fare i conti sono i numeri della crisi da profondo rosso in cui ci troviamo. Flessione del PIL mondiale per il 2020 del 4,6% e del commercio estero pari al 12%, creato dall’incertezza geo-economica. Per gli Stati Uniti è prevista una contrazione del PIL nel 2020 pari al 7%, con un tasso di disoccupazione a maggio del 16% pari a 30 milioni di disoccupati ed in crescita. Quelli che ancora il Centro Studi di Confindustria chiama i Paesi Emergenti, tra cui l’America Latina ma soprattutto l’area asiatica con in testa la Cina, si attesteranno ad avere una contrazione molto minore, con un Pil in decrescita dello 1%, ma il dato significativo è che sono per la prima volta in contrazione da quando si è cominciato, nel 1980, a misurare il dato aggregato. Per l’area Euro è previsto un meno 8% del PIL. Prezzo del petrolio ai minimi storici che si assesta sui 30 dollari al barile.
In relazione all’Italia troviamo un PIL 2020 caratterizzato dal segno negativo del 5,5% con andamenti negativi di valore aggiunto per tutti i principali comparti produttivi, agricoltura (-1,9%), industria (-8,1%) e servizi (-4,4%).
Di fronte a questi numeri l’Unione Europea e l’Italia, se guardiamo a noi, stanno rispondendo con una cura che in realtà è causa della malattia, cioè stanno rispondendo con gli stessi modelli e strumenti che il sistema neoliberale e padronale ci impone da quarant’anni a questa parte. Nessuna delle espressioni della classe dirigente che ci ritroviamo, ovviamente, sta pensando di mettere in discussione questi modelli e strumenti. Anzi si riscontra un’accelerazione dei processi che erano già in corso per rimodellare completamente sulla matrice neoliberale il lavoro, il welfare e la società nel suo complesso.
La caduta dei profitti, che si evince dai numeri sopra esposti, vogliono farla pagare ancora una volta ai lavoratori, alle fasce più deboli della società ma in questo caso anche ad un ceto medio-piccolo impoverito negli ultimi decenni dai processi di globalizzazione e che ora si trova a dovere fare i conti con i riflessi di una crisi profonda ed una spietata competizione internazionale che non può fare altro che subire.
La Ue sta uscendo malconcia da questa fase, ma in un qualche modo resiste. Caratterizzata dalla consueta resilienza, come sistema nel complesso tiene e non si ravvisa una spinta disgregatrice così profonda come si poteva ipotizzare avvenisse in piena pandemia. Si evidenzia però una nuova caratterizzazione legata alla dimensione di alleanza o avversità degli stati membri, non una definitiva predominanza degli stati nazionali, ma una maggiore competizione e frizione fra gli stessi, che influenzerà le scelte della UE nel suo complesso e dove l’asse franco-tedesco cercherà di fare predominare sempre più i propri interessi, in modo particolare rispetto ai paesi del Sud Europa.
Proprio a causa di questa nuova caratterizzazione, la Ue di fatto non è stata in grado di mettere in campo soluzioni importanti e rapide a livello di liquidità economica, aspetto che si potrebbe riflettere come insufficiente nella possibilità di potere competere in modo adeguato sullo scacchiere internazionale. L’unico strumento degno di nota, che al momento in cui scriviamo è stato solo abbozzato ma è ancora tutto da definire, è il “Recovery Fund”, ora “Next Generation UE”. 750 miliardi di Euro, ora scesi a 500 dopo il veto tedesco, da ripartire tra gli stati membri, messi a disposizione dalla Commissione, indebitandosi sul mercato e disponibili a partire dal 2021. Parti di queste finanze sarebbero prestiti e altre elargite a fondo perduto, dove però dobbiamo considerare che l’Italia apporta al bilancio comunitario già una fetta di risorse e quindi al netto sarà molto meno di quanto sventolato. Le cifre a fondo perduto, inoltre, arriveranno sotto forma di rate e saranno soggette e legate agli obiettivi di riforme che gli stati membri si devono impegnare a realizzare. Riforme strutturali legate al lavoro, al modello sociale, all’innovazione tecnologica, alla svolta “green” e al rispetto delle politiche fiscali monetariste e rigoriste vincolate ai parametri sul debito.
L’Italia fa finta di rilanciare sul Recovery Fund, come se fosse un’alternativa, ma sia la dirigenza industriale sia quella politica, intanto accetta e vuole a gran voce i 36 miliardi del MES che vengono spacciati come incondizionati grazie alla linea creata ad hoc per il Covid-19, il “Pandemic Crisis Support”. In realtà le condizionalità, leggi riforme strutturali, sono presenti, in quanto l’accesso è sì incondizionato e senza Memorandum, ma una volta all’interno del meccanismo scatta la valutazione di sostenibilità della situazione finanziaria del debitore e cioè il rispetto dei parametri di rapporto deficit-PIL, debito-PIL, ecc. Non solo, se analizziamo i numeri dei decreti messi in campo dal Governo per resistere all’impatto economico dovuto alla pandemia, troviamo che questi sono nettamente sbilanciati a favore delle imprese.
Con il decreto rilancio, a sostegno dei lavoratori e delle famiglie vanno circa 25 miliardi che non devono essere solo soppesati con i 16 messi in campo per le imprese dallo stesso decreto, ad essi infatti si devono aggiungere i 400 miliardi del decreto liquidità – attraverso il Fondo di Garanzia per le PMI e SACE per le medio-grandi – a garanzie dei prestiti che le imprese richiederanno al sistema creditizio. Non scordiamoci i 4 miliardi di taglio dell’IRAP sempre a favore delle imprese, che mangerà i 3,5 miliardi stanziati per la sanità, ormai sostenuta dalle risorse regionali che piangeranno cassa per il taglio dell’importante tassa. Intanto stiamo scontando l’insufficienza degli ammortizzatori sociali messi in campo, l’inadeguatezza dei tempi e modi con cui sono distribuiti (molti bonus, quali il reddito di emergenza, sono soggetti e numerose condizioni che ne rendono difficile l’accesso) e l’allungamento ad un totale di 19 settimane di Cassa e FIS emergenza Covid-19, che per i motivi detti, più che sostenere i lavoratori sono strumenti a disposizione delle aziende, che li utilizzano in piani definiti di tempi lavoro e tempi di stop, per compensare le fluttuazioni al ribasso delle produzioni dovute all’incertezza del contesto paese e internazionale.
La logica che ci viene imposta è sempre la medesima: se si danno risorse alle aziende a “sgocciolamento” allora tale ricchezza arriverà in basso, se ripartono e resistono le aziende allora i posti di lavoro e i salari sono salvi, salvo il benessere dei cittadini, salvo il tessuto sociale, salvo il Paese.
È tutto falso, le aziende tuteleranno innanzitutto i propri profitti e lo stesso Governo nel documento di economia e finanza del 24 aprile, prevede per il 2020 un tasso di disoccupazione all’11,6%, ammettendo che la crisi colpirà maggiormente lavoratori stagionali e a contratto a termine. Inoltre, vedremo i veri effetti sui livelli occupazionali in autunno, quando si potrà tornare a licenziare per motivi oggettivi, possibilità oggi bloccata dal Decreto Rilancio fino a metà agosto.
Questo mantra legato all’ideologia aziendalista e alla concorrenza di mercato come unico modello redistributivo non viene messo in discussione e scalfito neanche stavolta, di fronte ad una crisi di portata storica, di fronte a modelli economici e statuali che ci hanno soccorso nella fase più acuta del contagio, dimostrandoci che vi possono essere vie e modelli differenti da quelli che ci continuano a proporre come unica soluzione. Nessuna reale iniezione diretta di liquidità nel sistema economico per sostenere i salari e la domanda sociale, nessuna inversione di tendenza, nell’assenza di progetto industriale e politico-economico di questo paese che perdura nella logica di privatizzazione e svendita dei settori strategici, mantiene la manifattura del paese, in particolare quella del nord, legata alle catene del valore tedesche e globali, relega il resto del paese a prestatore di soli servizi e turismo e nel complesso accelera ulteriormente i processi di riforma dei modelli delle forme del lavoro per flessibilizzare e abbassarne il costo. Di fatto proponendo quest’ultimo aspetto al mondo come fattore competitivo ed invito ad investire nel bel paese.
Si rimane così vincolati al modello centralizzato e non concentrato descritto prima, con l’ulteriore aggravante che lo stesso modello è in discussione, ma questo non sembra sfiorare coloro che stanno pensando al “rilancio” di questo Paese. Infatti, ritroviamo il “mega-manager”, di fantozziana memoria, Colao che insieme al suo team di “mega-esperti” è stato incaricato da Conte di sviluppare un piano di rilancio e non possiamo che affermare che “la montagna ha partorito un topolino”. Le proposte che stanno mettendo in campo sono appunto in linea con quanto dicevamo poc’anzi. Creazione di un fondo per lo sviluppo finanziato da Stato, Province e Comuni che conferiranno immobili e partecipazioni di società quotate, nonché la possibilità di finanziarlo ricorrendo alla riserva aurea di Banca d’Italia. Quindi, nuovamente svendita e riallocazione ai privati di “asset” strategici per il paese. Turismo, arte e cultura che “devono essere elevati a “brand iconico del paese”, cioè una derubricazione dell’arte e della cultura ad evento per favorire il turismo. Quindi ancora turismo come pilastro economico (senza nulla togliere al turismo e a chi di turismo vive e lavora, ma un sistema economico paese non si può reggere solo sul turismo). Inoltre, tra i principali benefici per i padroni, rimozione del contagio da Covid-19 come causale di responsabilità penale delle aziende, smartworking, proroga dei contratti a termini e rinvio delle tasse. Dall’altro lato ritroviamo Di Maio, ministro degli esteri, che firma il “Patto per l’Export” da 1,4 miliardi che servirà, per dirlo in soldoni, a sostenere la concorrenza delle aziende italiane nel mondo.
Il modello proposto, quindi è sempre lo stesso, con la consapevolezza però che non sarà in grado, a questo nuovo giro di boa, di reggere da solo. Infatti Draghi in un’intervista al Financial Times ha dichiarato che lo Stato dovrà sostenere in modo strutturale l’economia con il debito, pena la “debacle”. Il problema è che tale sostegno continua ad essere rivolto a favorire l’interesse privato e in concorrenza, come nella volontà di Draghi e non verso una rinnovata visione che si faccia interprete dell’interesse collettivo, attraverso l’intervento razionale dello Stato in economia, di gestione diretta di un piano industriale coerente per il sistema paese e nazionalizzando i settori strategici per ottenere riflessi in termini redistributivi e sociali.
Come possiamo vedere le accelerazioni sono tante e in tante direzioni. Il Piano Colao, gli Stati Generali dell’Economia e il Patto per l’export ne sono l’aggregato evidente e come lavoratori ne stiamo già incominciando a sperimentare gli effetti sulla nostra pelle. Il momento è ghiotto e processi che erano già in corso, che stavano rimodellando le forme del lavoro, sono ora accelerati con lo slogan che solo attraverso queste soluzioni saremmo in grado di ripartire. Infatti, un pilastro fondamentale di tale ripartenza è assegnato allo smartworking. La pandemia ha dato la possibilità di realizzare un esperimento di massa in relazione a questa nuova forma lavoro, per la quale, in condizioni normali, ci sarebbero voluti anni. Il sistema padronale ne ha potuto misurare gli effetti convenienti. Il “lavoro da casa” come viene pubblicizzato, non solo produce effetti negativi, quali isolamento, distanziamento, riduzione al minimo delle relazioni solidaristiche fra colleghi, allungamento della giornata lavorativa, ma consente di avviare nella pratica un fondamentale cambiamento di paradigma, ossia la trasformazione della figura del lavoratore dall’essere tale a diventare collaboratore o, per come sono stati definiti da Confindustria, “lavoratori imprenditivi”.
Lo scopo è proprio rimodellare la forma del lavoro dipendente, vincolandola al progetto assegnato da svolgere e retribuendola a risultato. Trasformando così il lavoratore in un collaboratore che per raggiungere tale risultato deve assumere un atteggiamento che è tipico dell’imprenditore. In questo modo la flessibilizzazione in negativo dei profitti viene scaricata sui lavoratori che non hanno raggiunto gli obiettivi, ma soprattutto in tendenza comporterà l’esternalizzazione di differenti mansioni lavorative, soprattutto quelle legate al lavoro mentale. Esterni autonomi, ma che sono di fatto dipendenti di una determinata realtà aziendale, lavorativa, ecc.
Questo modello lavorativo, quello del lavoro autonomo, ma che nei fatti è alle dipendenze, in termini più tecnici viene definito eterodirezione (direzione esterna) o autonomo-eterodiretto ed è un processo già consolidato nelle forme di inquadramento contrattuale legate ai fattorini nei nuovi modelli di impresa delle piattaforme digitali, trovando anche già una sua base giuridica in quello che è stato chiamato il Decreto Riders (ex D.lgs 3 settembre 2019 divenuto legge lo scorso 2 novembre 2019). Un modello lavorativo che con lo smartworking potrà esondare dal settore dei fattorini per arrivare nelle aziende fino a comprendere i lavoratori della Pubblica Amministrazione. Anche nella P.A. con la crisi Covid-19 si sta spingendo molto in questa direzione, nel processo più ampio che definiscono di sburocratizzazione, che non significa altro che digitalizzare ed automatizzare i processi scaricandoli sull’utente finale, tagliando così posizioni lavorative e costi di gestione.
Ovviamente per la realizzazione di queste nuove forme di lavoro sono fondamentali le nuove tecnologie e la pandemia ha dato una certezza ai padroni: le macchine non si ammalano e non si fermano. Nuove tecnologie legate in primis alla digitalizzazione dei processi, ma anche all’Industry 4.0 in modo particolare negli aspetti dell’automazione in relazione ai robot collaborativi e all’internet delle cose, il tutto all’interno della rivoluzione copernicana della Rete legata alle tecnologie 5G.
Proprio con quest’ultimo aspetto torniamo al via, cioè alle dinamiche di competizione internazionale e alla sua accelerazione in corso nel mondo multipolare post pandemia, che partendo dal generale, abbiamo visto come investano pesantemente le nostre vite di lavoratrici e lavoratori in diritti e salari, in generale in relazione alla dignità delle nostre vite.
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