Il governo Conte ci ha ormai abituati alla proliferazione di Comitati tecnici, scientifici, di esperti, di “saggi” che si dimostrano variamente inefficienti, ma che sono accomunati, in genere, solo dal proporre soluzioni ispirate al più rigoroso liberismo.
Anche nel decreto “semplificazioni” sono indicate ben 36 grandi opere che saranno gestite da un commissario. Sarebbe stato quindi strano che di fronte al problema della riapertura degli istituti a settembre, con una Ministra in stato confusionale e i dirigenti scolastici sull’orlo di una crisi di nervi, non si nominasse un commissario straordinario per la scuola. Forse perché era a cena nella pizzeria vicino a Palazzo Chigi, forse perché aveva già il suo numero in memoria nel cellulare, Conte ha scelto Domenico Arcuri, che cumula quindi questa carica con quella di commissario all’emergenza Covid-19.
Tutti hanno sotto gli occhi la scarsa efficacia del lavoro svolto da Arcuri come commissario all’emergenza Covid, che non depone certo bene per il suo nuovo incarico, ma soprattutto ci sembra che tale nomina sia un’operazione demagogica per far credere a un’efficienza che non c’è e per nascondere, ancora una volta, che la sola linea d’azione che sarebbe utile, quella di un reale piano di assunzioni di personale e di investimenti strutturali nell’edilizia scolastica, non la si vuole seguire.
L’emergenza ha fatto esplodere problemi vecchi che i lavoratori della scuola denunciavano da anni: un organico insufficiente e anziano, un patrimonio edilizio malandato, classi troppo numerose. Problemi rispetto ai quali il Ministero si è sempre comportato nascondendo la polvere sotto il tappeto. Oggi è difficile continuare a celare i problemi irrisolti da anni, cui si aggiunge l’evidenza sempre più chiara delle differenze nel diritto allo studio, sino alle vere e proprie discriminazioni e negazioni di tale diritto avvenute nel periodo della cosiddetta didattica a distanza.
Sarebbe assolutamente necessaria una profonda riflessione pedagogica e politica che ribaltasse le linee di condotta seguite dai governi degli ultimi trent’anni e che assumesse la drammatica situazione di oggi per rimediare agli errori del passato. Invece, la Ministra Azzolina si entusiasma per i “banchi singoli di nuova generazione” arrivando persino a dire che potrebbero rappresentare un’“innovazione didattica”.
Un compito di Arcuri sarebbe proprio quello di dotare le scuole primarie e secondarie di primo grado di tali banchi, per una spesa di circa un miliardo. Come un mobile, e in particolare quella sorta di trespolo-gabbietta su ruote che viene definito “banco di nuova generazione” possa costituire un’innovazione didattica non è dato sapere. È evidente che una scuola che si basa sulla molteplicità delle attività e delle forme di relazione educativa ha bisogno di arredi facilmente adattabili alle varie esigenze, ma è sempre il progetto educativo che decide quale arredo serve, non certo il contrario. E comunque quei trespoli non sembrano una gran trovata.
Soprattutto, sembra che al Ministero sfugga una contraddizione di fondo, certamente di non facile risoluzione, ma che dovrebbe essere assunta come centrale e che è molto più importante delle mascherine, dei disinfettanti e dei banchi. Si parla di distanziamento sociale, ma la funzione della scuola è quella di avvicinare, unire, cooperare, quindi il contrario del distanziare. È evidente che siamo in un momento molto particolare, ma probabilmente proprio sulla risoluzione di tale contraddizione si dovrebbero concentrare gli sforzi del Ministero, chiamando al confronto pedagogisti, psicologici e magari, finalmente, anche qualche docente.
Intendo dire che, visto che si tratta di scuola, si dovrebbe assumere la priorità della questione pedagogica e su questa base trovare delle soluzioni organizzative. Forse anche costose, ma per una volta si darebbe veramente quella priorità alla scuola per la quale pochi giorni fa si sono riempite le piazze italiane.
Altrimenti si tornerà alle pericolose soluzioni fai-da-te che già si sentono circolare.
Proprio oggi ho potuto ascoltare l’intervista alla dirigente scolastica di una scuola milanese in cui sono presenti un istituto tecnico e un liceo. Questa dirigente già immaginava una ripresa in presenza per il primo ordine di studi e una modalità mista – non si sa organizzata come – di “presenza” e “a distanza” per il liceo.
Ciò conferma, evidentemente, che le differenze di classe, che si esprimono nella scelta della scuola, contano sulla possibilità di seguire la didattica a distanza, ma soprattutto che in alcune situazioni quest’ultima forma didattica rischia di diventare endemica peggio di un virus.
Ed è un rischio da scongiurare.
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