di Alexik
Ci avevamo sperato, dal chiuso delle nostre case, osservando sorpresi
l’aria della pianura padana tornare trasparente, la biodiversità
riapparire e la fauna selvatica avventurarsi, timida, attraverso il
cemento degli spazi urbani.
Toccavamo con mano, durante il lockdown, la dimostrazione di come
sarebbe bastato fermare questo sistema di produzione, questo modello di
mobilità, questo consumo insensato di roba inutile, perché la natura
cominciasse a riprendersi ciò che è suo.
Avevamo sperato che fosse diventata chiara a tutti la possibilità
concreta di un cambiamento radicale, ma sapevamo, in cuor nostro, che
avevamo vissuto solo una fragile tregua nell’aggressione del capitale
agli ecosistemi e ai territori, un rallentamento che precede la
rincorsa.
Ed anche che come tregua aveva fin troppe eccezioni.
Segnali provenienti da tutto il mondo ci
avvertivano che gran parte delle attività di maggiore impatto
sull’ambiente e sulle comunità non solo stavano proseguendo ‘as usual’,
ma approfittavano della pandemia per espandersi e riorganizzarsi.
Segnali che andavano tutti nella stessa direzione, delineando una
dimensione mondiale del fenomeno, con una serie di caratteristiche
ricorrenti, come – per esempio – l’inclusione sistematica nell’elenco
dei ‘servizi essenziali’ di attività ad altissimo impatto ambientale e
sociale.
Molti settori impattanti non hanno
conosciuto fasi di arresto, ed hanno continuato ad operare anche quando
si sono trasformati in fulcri di contagio, trasmettendolo alle comunità
dei territori dove operavano.
Il lockdown non li ha colpiti, ma piuttosto li ha sottratti al controllo
delle popolazioni e dei militanti, costretti in casa e privati della
libertà di movimento, e sempre più soggetti ad aggressioni favorite dal
coprifuoco: violenze poliziesche, arresti arbitrari e, soprattutto in
America Latina, esecuzioni extragiudiziali.
In generale la militarizzazione dei territori, dispiegata in tutto il
mondo con il pretesto della pandemia, è stata un poderoso deterrente per
le proteste sociali e ambientali, facendo da copertura per la violenza
selettiva contro gli attivisti, dispensando cariche e sgomberi su
presidi e manifestazioni.
Una violenza che non potrà che intensificarsi, perché ciò che si prepara
per il futuro è un ulteriore salto di qualità nello sfruttamento della
Natura, che ci verrà venduto come l’unica scelta possibile per
‘riattivare l’economia’ di fronte alla recessione mondiale che viene.
La devastazione ambientale è ... un “servizio essenziale”?
Una molteplicità di governi ha esentato
dal blocco della produzione per l’emergenza Covid le imprese estrattive,
minerarie e petrolifere, la costruzione di grandi opere e di
infrastrutture per il trasporto degli idrocarburi o per la produzione di
energia, sebbene non abbiano nulla a che fare con il soddisfacimento
dei bisogni immediati delle popolazioni colpite dalla pandemia.
In Italia è stata inserita fra i
‘servizi essenziali’ la costruzione del gasdotto TAP/Snam, grazie alla
libera interpretazione del dettato del DPCM del 22 marzo, che dava il
via libera al proseguo delle attività di trasporto e distribuzione del
gas.
Una misura che, a buon senso, si riferiva alle reti distributive già
esistenti e funzionanti, ma che con una evidente forzatura è stata
estesa anche ai cantieri in corso d’opera.
Sulla “essenzialità” di un nuovo gasdotto, va detto che nel solo mese di aprile 2020 i consumi di gas in Italia sono calati di oltre il 23%, circa 1,3 miliardi di metri cubi in meno rispetto allo stesso periodo
dello scorso anno, seguendo un forte trend negativo già visibile dal
novembre scorso.
Comunque, in piena pandemia, i lavori di avanzamento nelle province di
Lecce e di Brindisi sono continuati a pieno ritmo, spiantando altri
uliveti, aprendo voragini, attingendo dal sottosuolo enormi quantità di
acqua, inquinando le falde, e tuttora continuano in spregio ad ogni
normativa visto che il 20 maggio scorso al TAP è scaduta anche
l’Autorizzazione Unica.
Il cantiere è andato avanti nonostante fosse stata messa in quarantena una delle navi utilizzate da TAP per l’analisi dei fondali, è proseguito nonostante l’infortunio mortale di un giovane operaio, e nonostante la richiesta di sospensione
per motivi di sicurezza da parte di sette sindaci salentini, motivata
dall’avvicendarsi nei turni di centinaia di lavoratori, le cui
condizioni sono state così descritte da un operaio ai microfoni RAI:
“Quelli della sicurezza hanno le mascherine a norma, noi
lavoriamo con la carta igienica e il rischio di contagio è altissimo: in
uno spogliatoio siamo 10-15 operai e non abbiamo nemmeno i 20
centimetri di distanza uno con l’altro”.
Dello stesso tenore la denuncia di due deputate del gruppo misto:
“Guanti e mascherine non a norma
indossate anche per due tre giorni, operai che arrivano settimanalmente
dal Nord, spogliatoi con 20 persone senza protezioni, distanze di
sicurezza non rispettate, controlli farsa della Asl, che avvisa
preventivamente i dirigenti sul giorno dei controlli, così da renderli
perfettamente a norma”.
Uscendo dal Belpaese e attraversando
l’oceano, una simile declinazione del concetto di ‘servizio essenziale’
la ritroviamo in Messico, dove il governo progressista presieduto da
Andrés Manuel López Obrador ha ritenuto – nel paese latinoamericano con
il più alto numero di morti di Covid (più di 25mila) dopo il Brasile –
che la priorità nazionale fosse quella di autorizzare a colpi di decreto
l’inizio dei lavori per la costruzione del ‘Tren Maya’.
Si tratta di una linea ferroviaria ad alta velocità lunga circa 1.500 chilometri che dovrebbe avere lo scopo di far scorazzare i turisti
attraverso cinque Stati messicani, da Palenque a Cancun, con prezzi
prevedibilmente al di fuori della portata della maggior parte degli
abitanti dello Yucatan.
L’operazione è ad altissimo impatto
ambientale e sociale in termini di esproprio di terre, espulsione e
delocalizzazione delle comunità (prevalentemente indigene),
deforestazione, prosciugamento delle sorgenti, distruzione di habitat
ed ecosistemi, interruzione e sbarramento dei percorsi degli animali
selvatici e dei collegamenti fra i villaggi.
Il tracciato della linea ferroviaria vorrebbe impattare su 709 siti
archeologici, attraversando 15 aree naturali protette, fra cui la
Reserva de la Biosfera de Calakmul (Campeche), riconosciuta dall’UNESCO
come patrimonio mondiale dell’umanità, dove vive l’80% delle specie
vegetali dello Yucatan. Assieme alla Reserva de Sian Ka´an (Quintana
Roo), anch’essa minacciata dal Tren Maya, ospita centinaia di specie
animali.1
Tutto questo viene messo a rischio da
un’infrastruttura enorme, che sarà finanziata per il 90% da capitali
privati (in buona parte internazionali), costruita ad uso e consumo
degli interessi degli appaltatori e dei settori immobiliare, turistico
(resort, grandi catene alberghiere), agroindustriale ed energetico.
Un’infrastruttura che promette devastazioni maggiori, perché è solo un
tassello di un progetto di interconnessione più vasto della stessa
penisola, e che comprende aeroporti, autostrade, assieme a nuovi
gasdotti, raffinerie ed alla costituzione di Zone economiche speciali,
aree deregolamentate e defiscalizzate dove è massimo l’arbitrio contro i
lavoratori e la natura.
Sulla popolarità di una simile opera, probabilmente lo stesso López Obrador
nutriva qualche dubbio, tanto da volerne affidare la realizzazione di
ampi tratti direttamente all’esercito.
Infatti il progetto ha incontrato una fiera opposizione popolare, con in
prima fila l’EZLN e i movimenti indigeni, anticapitalisti e
antipatriarcali, che per ora hanno segnato un punto a favore: qualche
giorno fa un tribunale ha accolto la richiesta del popolo Maya Chol,
determinando la sospensione definitiva di «qualunque opera che non sia
di puro mantenimento delle vie già esistenti», per l’intero periodo di
emergenza sanitaria.
Il Tren Maya è rimasto temporaneamente in sospeso, ma il Messico presenta altri fronti aperti.
Il Governo infatti è tornato alla carica con il Corridoio Transistmico,
un mega progetto di trasporto merci intermodale che dovrebbe collegare
il Golfo del Messico all’Oceano Pacifico attraverso l’istmo di
Tehuantepec.
Si tratta di un sistema interamente finalizzato all’integrazione e allo
scambio sul mercato mondiale, che attraverserà gli stati di Oaxaca e
Veracruz.
Il corridoio, che prevede una linea ferroviaria AV, strade, porti, la
costruzione di un gasdotto, l’ampliamento della raffineria di
Minatitlan, lo sviluppo di 10 nuove aree industriali e l’istituzione di
una ‘Zona franca’, oggi viene sbandierato dal ministero dello sviluppo
economico messicano come la via per uscire dalla crisi causata dal Covid-19.
Ma i militanti delle comunità sanno bene che il corridoio non è la via d’uscita, ma la crisi:
“Le persone vedranno e saranno
colpite da tutti i problemi e dai rischi che una strada ad alta velocità
genera, con l’interruzione del traffico di persone e animali. Le strade
bloccheranno i sentieri naturali.
Tutta l’infrastruttura che deve essere costruita attorno a una ferrovia
prenderà il controllo della terra delle persone, rovinerà la loro vita
naturale e li impoverirà di più. Approfondirà la disuguaglianza
economica nell’area. Pochi, pochissimi, ne trarranno beneficio, e la
stragrande maggioranza, ancora una volta, vedrà deprezzare il valore
della propria attività e della propria terra, che servirà solo da
piattaforma di passaggio”.
Così come le comunità Zapotecos e Ikoots, riunite nella Asamblea de Pueblos de Istmo en Defensa de la Tierra, sanno che il megaprogetto, la cui costruzione verrà presidiata dalla Guardia Nazionale per garantire la serenità degli imprenditori, “porterà una nuova ondata di violenza, repressione, saccheggio, spoliazione, militarizzazione e guerra per i beni naturali”.
E le comunità Ikoots conoscono la
violenza: l’hanno appena subita a San Mateo del Mar (Oaxaca), che dista
solo 30 km da Salina Cruz, uno dei terminali del corridoio.
Un’epidemia di violenza
Il 21 giugno scorso, militanti
dell’Unione delle Agenzie e delle Comunità Indigene Ikoots, mentre si
avviavano a una riunione, si sono fermati presso ciò che sembrava un
posto di blocco sanitario per il Covid-19, e invece era un’imboscata.
Attaccati con armi da fuoco per ore da un gruppo armato legato ad un
politico locale, in 15 sono stati assassinati, anche dopo esser stati
torturati, lapidati, bruciati vivi. Molti sono rimasti feriti.
La comunità ikoots ha una lunga storia di lotte e di opposizione ai
grandi parchi eolici, lotte che hanno intralciato anni fa molti
interessi speculativi nella regione.
Ma negli ultimi tempi, le aggressioni contro gli ikoots sono aumentate
nel contesto dell’inizio di lavori per il corridoio, in particolare
l’ampliamento dei frangiflutti e delle scogliere del porto di Salina
Cruz, ai quali si oppone la maggioranza delle comunità poiché questo
implicherebbe l’irreversibile alterazione dell’ecosistema lagunare, sul
quale basano la loro vita e la loro cultura ancestrale. (Continua)
Note:
1) Ana Esther Cecena, Josué Vega, Avances de Investigacion, Tren Maya, Observatorio Latinoamericano de Geopolitica, dicembre 2019, pp. 52.
Fonte
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