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09/07/2020

Autostrade, ora basta...


La vicenda di Autostrade è paradigmatica dei rapporti tra “classe politica” e padronato. Usiamo questo termine antiquato – “padronato” – pur sapendo benissimo che il capitalismo attuale è andato ben oltre la fase dell’impresa “personale” o familiare. Perché soprattutto in Italia, nonostante l’enorme numero di multinazionali che spadroneggiano (vanno, vengono, prendono finanziamenti e spariscono), la logica degli “imprenditori” nazionali è rimasta quella antica.

Il caso dei Benetton è esemplare, del resto. Assurti alla notorietà internazionale per i loro maglioncini (e per l’efficacia delle campagne pubblicitarie), si sono poi lanciati in un business assai più redditizio e totalmente privo di “rischio di impresa” come la gestione di Autostrade per l’Italia.

Un monopolio naturale (nessuna autostrada avrà mai un “concorrente”), che richiede soltanto un po’ di manutenzione e garantisce entrate sicure, crescenti ogni anno grazie all’aumento dei pedaggi che ogni governo, di qualsiasi colore, ha consentito senza fiatare. È qui che gli “imprenditori” si sono rivelati essere dei semplici “prenditori”…

È doveroso ricordare che questa iattura è una conseguenza della politica di “privatizzazioni” perseguita dagli anni ‘90, anche se nessuno è mai riuscito a spiegare perché si dovesse regalare a dei privati una gallina dalle uova d’oro dopo aver speso una montagna di soldi pubblici per costruirla.

Nel caso della autostrade la iattura è stata addirittura doppia, perché prima sono stato beneficati i costruttori (le “grandi opere”, anche quando necessarie, sono realizzate da un pugno di imprese private, con lo Stato che paga tutto, anche le spese “fantasiose”), che in molti casi hanno “risparmiato” su cemento e ferro, come dimostrano le decine di viadotti e gallerie sul punto di crollare dopo pochi anni.

Poi sono stati beneficati i “concessionari” (Benetton, Gavio, Toto, ecc.), cui è stata affidata la gestione ordinaria, che – certifica l’Anac e stanno verificando le inchieste giudiziarie – massimizza i profitti “risparmiando” sulla manutenzione (solo 33.000 euro l’anno, per il ponte della strage).

Il crollo di Ponte Morandi ha messo a nudo questa doppia infamia, costata 43 vite, danni incalcolabili all’economia nazionale e, probabilmente, una notevole riduzione delle attività future del porto di Genova.

La revoca della concessione per manifesta violazione del contratto – di sicuro il bene “concesso” non è stato conservato, visto che è venuto giù – è subito sembrata l’unica soluzione possibile. Lasciando alla magistratura il compito di decidere le singole responsabilità individuali dei vari amministratori della società dei Benetton, quantificare i risarcimenti (per i familiari delle vittime, le persone che hanno perso casa, ecc.), emanare sentenze.

In due anni questa decisione – politica, non giudiziaria – non è arrivata, pur essendo stata “detta” un numero infinito di volte. E già questo illumina il tasso di servilismo di tutta la classe politica nei confronti degli imprenditori privati.

Ora è arrivata anche la sentenza della Corte Costituzionale, cui si erano appellati i Benetton per essere stati esclusi dalla ricostruzione del ponte. In pratica volevano guadagnare anche sulle conseguenze del disastro che avevano confezionato...

La decisione del legislatore di non affidare ad Autostrade la ricostruzione del Ponte è stata infatti giudicata legittima, perché “determinata dall’eccezionale gravità della situazione che lo ha indotto [il governo, ndr] a non affidare i lavori alla società incaricata della manutenzione del Ponte stesso”.

Questa sentenza rende più forti le ragioni, già solidissime, della revoca della concessione. E non si capisce proprio più – semmai si poteva avere un dubbio – perché non si proceda alla riappropriazione di un “bene pubblico” da parte dello Stato.

Solo dei servi spianati per terra possono ancora titubare...

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