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14/08/2020

Giù prezzi e consumi. I “bonus a pioggia” non risolvono il problema

Calano i consumi e calano i prezzi al consumo, sia mese su mese che anno su anno. In altri termini, ciò significa che i residenti in Italia sono in media più poveri e percepiscono un salario più basso. Aggiungete la condizione di partenza tutt’altro che rosea e il quadro è chiaro. O meglio, fosco come non mai nella storia della Repubblica.

Lo scrive l’Istat nella nota mensile rilasciata martedì 12 sui “Prezzi al consumo” di luglio, certificando in cifre un sentire che attraversa l’intero stivale, quello di una povertà crescente, di una non-occupazione tenuta a bada (si fa per dire, il tasso era già altissimo in Italia prima della pandemia) solo dal blocco dei licenziamenti e di un futuro pieno di incertezza.

Nello specifico, informa l’Istat che l’indice nazionale dei prezzi al lordo dei tabacchi registra una diminuzione dello 0,2% su base mensile e dello 0,4% su base annua, che diventa dello 0,1% e dello 0,4% per le famiglie di operai e impiegati.

Se un fattore importante è l’andamento dei prezzi dei Beni energetici (flessione comunque in rallentamento, da -12,1% a -10,3%), il dato negativo si deve anche sia ai prezzi dei Beni alimentari (che passano da +2,3% a +1,3%), sia al calo prezzi dei Servizi relativi ai trasporti (da -0,1% a -0,9%). L’inflazione acquisita per il 2020 si attesta così al -0,1% per l’indice generale.

Fa riflettere il dato che “cibo” e “servizi di trasporto” siano i prezzi più colpiti, nonostante siano due ambiti in cui nel corso del lockdown si sono registrati importanti aumenti del giro d’affari, come nel comparto della grande distribuzione per il primo e della logistica per il secondo.

Ma come si sa, quantità non significa di certo qualità (anzi, le due sarebbero in relazione dialettica), e l’aumento della prima, se non accompagnata da una visione politica d’insieme che gestisca i processi economici, non si traduce nell’aumento della seconda.

In altre parole, se per esempio l’aumento della richiesta di fattorini non si sposa con la lotta alla disoccupazione (come per esempio tramite assunzione pubbliche), la disponibilità di lavoratori in eccesso fa abbassare i salari (e quindi i prezzi), facendo diminuire i consumi (e in prospettiva l’occupazione), cosicché l’eventuale circolo virtuoso tra domanda e offerta s’inceppa a discapito di tutti – eccezion fatta per le multinazionali che acquisiscono a prezzi di saldo attività più o meno grandi a un passo dal fallimento.

«Un pessimo segnale per l’economia italiana, perché rispecchia la grave crisi dei consumi nel nostro paese. I prezzi, scendono per effetto del generale impoverimento delle famiglie causato dal Covid, che ha ripercussioni sui consumi, crollati in quasi tutti i settori».

Queste le parole usate dal Codacons, associazione per la difesa dei diritti dei consumatori (ma anche per l’ambiente) che parla anche di «emergenza prezzi in Italia», chiedendo all’esecutivo «di intervenire per rilanciare i consumi attraverso misure serie e strutturali e non certo con bonus a pioggia che non hanno gli effetti sperati».

L’indicazione data dal Codacons è tuttavia in piena controtendenza con quanto messo in campo dal governo negli ultimi mesi, ultimo in ordine di tempo il Decreto agosto.

Infatti, la logica di fondo che presiede l’azione dell’esecutivo, così come quelli degli ultimi trent’anni almeno, senza nessuna esclusione, è quella secondo cui le imprese sono il motore dell’economia e perciò la ricchezza di una nazione (Wealth of nation, titolava Adam Smith), spostando così ogni misura governativa a favore della loro prosperità o sopravvivenza.

Ma la realtà è che l’interesse dei padroni, specie quelli davvero grandi, sono in naturale contraddizione con quella di lavoratori e lavoratrici (o si accumula profitto, o si versano salari, tertium non datur, ma vallo a spiegare a Cgil Cisl e Uil), per cui se si sostiene l’economia tramite il mondo delle imprese, lo sgocciolamento di risorse verso quello del lavoro (oltre che all’odiosa idea della dipendenza strutturale dei molti alla volontà dei pochi) non è automatico. Tutt’altro!

Questo ci ha insegnato la storia recente, di cui la vicenda Fiat – ricevere contributi miliardari per anni per poi finire a produrre (e cioè impiegare lavoro) nel Balcani, decidere negli Stati Uniti, pagare (meno) le tasse in Olanda, senza peraltro smettere di ricevere miliardi dal Governo italiano – è l’esempio macroscopico della non incidenza di questa visione di mondo per il benessere, l’emancipazione e la felicità della popolazione.

Un esempio alternativo è quello odierno della Cina, che in controtendenza con le reazioni dei colossi occidentali come Stati Uniti o Regno Unito (Pil in calo del 20%, alla faccia della “libertà di fare impresa”), piuttosto che inondare il mercato di liquidità sperando che gli investitori scelgano di indirizzare il denaro verso la produzione al posto della finanza (ma questo non avviene perché la seconda offre maggiori profitti in minor tempo rispetto al primo), sostiene i consumi (e perciò salari) del mercato interno.

Sia chiaro, niente di rivoluzionario, solo il rinnovo del compromesso keynesiano tra Capitale e Lavoro in auge del Secondo dopoguerra e fallito a cavallo tra gli anni '60 e '70, che se probabilmente non permetterà nel lungo termine di garantire un livello di produzione eco (e dunque socio) sostenibile, tuttavia fa sembrare i governi di tutto il “mondo occidentale”, e quello imprenditoriale alle sue spalle, incapaci di trovare uno sbocco alla crisi emersa, ma già ben presente da molto tempo, con il Covid-19.

E così anche il Codacons, che non vede più neanche lo “sgocciolamento” come opzione fattibile, lancia l’allarme.

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