Con il seguente articolo inauguriamo una rubrica di discussione sul tema e intendiamo lanciare un’ampia riflessione strategica sul ruolo dei comunisti nella lotta contro le istituzioni europee. Lo faremo grazie a diversi contributi che si soffermeranno sui vari aspetti che compongono la questione, attraverso una molteplicità di punti di vista provenienti, anche, dai partiti comunisti degli altri paesi membri, con il fine di contribuire a far avanzare il dibattito tra i comunisti su questa importantissima tematica.
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La questione del giudizio da dare sull’Ue e sull’euro appare oggi ancora più centrale che nel passato alla luce della recente crisi del Covid-19. Come già verificatosi nel corso della crisi precedente, quella del 2007-2008, l’Ue e l’euro presentano delle caratteristiche intrinseche che impediscono di far fronte alla crisi e soprattutto di rispondere al peggioramento delle condizioni del lavoro salariato, a partire dai suoi settori più deboli quali quelli precari e sottoccupati.
Le varie posizioni sull’uscita dalla Ue e dall’euro
In questo contesto, caratterizzato da un crollo del Pil nella zona euro e in Italia, che ha paragoni solo con il periodo degli ultimi anni della Seconda guerra mondiale, si è, quindi, riaccesa la discussione sull’uscita dall’euro che, del resto, è stato un tema abbastanza dibattuto negli ultimi anni. Purtroppo, tale discussione tende a polarizzarsi su due posizioni estreme. La prima, e più diffusa all’interno della sinistra, anche radicale, è quella secondo cui l’uscita dall’euro sarebbe da rigettare. Sulle ragioni di questo rigetto c’è una certa differenziazione. Alcuni ritengono che uscire dall’euro sarebbe antistorico, comportando il ritorno allo Stato nazione, e quindi prospettano la necessità di una lotta internazionale per la modifica della Ue. Altri, pur riconoscendo che è impossibile modificare l’Ue, ritengono che il vero problema sia il capitalismo, e che l’uscita dall’Ue ci riporterebbe nelle braccia dello Stato nazione, che ha, comunque, un preciso carattere di classe, dando al contempo nuova vitalità agli imperialismi nazionali. La seconda posizione è, invece, caratterizzata da chi, non solo mette al centro di tutto la questione dell’uscita dall’euro, ma pensa che, di per sé, l’uscita dalla Ue risolverebbe tutti i problemi delle classi subalterne, favorendo il ritorno al dettato costituzionale. Spesso questa posizione vede l’Italia come una specie di colonia e la sua classe dirigente asservita agli interessi nazionali stranieri, nella fattispecie a quelli tedeschi, sfociando nell’interclassismo e puntando così, di conseguenza, a mettere insieme un blocco sociale eterogeneo composto anche da settori del capitale, presuntamente anti-euro.
Per quanto riguarda la prima posizione, pensare che si possa modificare la Ue è irrealistico, in quanto i trattati che regolano il funzionamento dell’Ue sono modificabili solo all’unanimità. Inoltre, si è visto molto chiaramente nell’ultimo decennio che la crisi dell’integrazione europea non ha certo favorito la crescita di lotte internazionali per la sua modificazione, bensì, semmai, ha approfondito, insieme ai divari tra le nazioni, anche le contraddizioni all’interno e tra le frazioni nazionali del proletariato europeo, con l’aumento, ad esempio, della xenofobia e del nazionalismo a livello popolare. Sempre all’interno della prima posizione, chi, invece, pensa che il problema è il capitalismo e non la Ue si condanna all’irrilevanza politica, perché rimane su una posizione astrattamente teorica che non tiene conto dei rapporti economici e politici reali, cioè della situazione concreta. Infatti, oggi il capitalismo europeo ha nella Ue e nell’euro un elemento costitutivo decisivo. Un errore speculare, anche se di segno opposto, viene commesso anche da chi ritiene che basti uscire dall’euro per risolvere tutti i problemi. In questo caso, si dimentica la questione dei rapporti di forza e soprattutto la natura non neutrale dello Stato, dando quasi per scontato che fuori dalla Ue e dall’euro si possano svolgere politiche antiliberiste.
Ue come strumento di governabilità del capitale monopolistico
Si tratta di un errore speculare perché entrambe le posizioni nascono da una concezione parziale e non materialistica dello Stato. Lo Stato è non solo lo strumento della classe economicamente dominante, ma anche il luogo della mediazione tra le classi sociali e la forma che lo Stato assume è la cristallizzazione di questi rapporti di forza.Ciò è ben visibile negli Stati che sono usciti dalla Seconda guerra mondiale, dove, pur all’interno di un contesto capitalistico, i rapporti di forza si erano modificati a favore della classe lavoratrice, che ha continuato a fare passi in avanti per alcuni decenni grazie a una serie continua di lotte sul cui esito positivo non fu estranea l’esistenza della competizione tra Paesi imperialisti e Urss. È stato a partire dagli anni ’80 e ’90 che i rapporti di forza tra le classi hanno cominciato e continuano a modificarsi a sfavore della classe lavoratrice. Tali modificazioni hanno avuto un riflesso anche nello Stato, e nel modo di funzionare delle sue istituzioni.
L’elemento su cui dobbiamo soffermarci è che tale modificazione è avvenuta, specialmente, ma non solamente in Italia, grazie all’integrazione europea. Significative sono le parole di Guido Carli, ex governatore della Banca d’Italia e una delle figure più importanti del capitalismo italiano tra gli anni ’60 e i primi ‘90: “L’Unione europea ha rappresentato una via alternativa alla soluzione di problemi che non riuscivamo ad affrontare per le vie ordinarie del governo e del Parlamento.” Fu a metà degli anni ’70, contemporaneamente alla riproposizione della crisi da sovrapproduzione di capitale, che il capitale europeo cominciò a pensare al concetto di governabilità, cioè a come ridare forza agli esecutivi, cioè ai governi, a detrimento del potere legislativo, cioè dei parlamenti, che in qualche modo rappresentavano le spinte che venivano dalla società. Il tema della governabilità fu al centro dell’incontro a Tokio nel 1975 della Commissione Trilaterale, una organizzazione che mette insieme l’élite del capitalismo mondiale. A introdurre quell’incontro fu un testo intitolato La crisi della democrazia, dove si possono leggere le parole seguenti:
“L’interdipendenza europea forza le nazioni europee ad affrontare l’impossibile problema dell’unità. Quello di un’Europa unita è stato per lungo tempo l’ideale che ha consentito di conservare la spinta a superare gli obsoleti modi di governo che prevalgono nei sistemi statali nazionali. Ma i fautori della unificazione europea hanno esitato troppo davanti all’ostacolo rappresentato dalla gestione nodale del potere dello Stato centrale, che le crisi attuali hanno ulteriormente rafforzato, affinché si possa sperare nel futuro immediato. Ciononostante l’investimento in una comune capacità europea rimane indispensabile non solo per il bene dell’Europa ma per la capacità di ogni singolo Paese di superare i suoi problemi.”1
La crisi della democrazia, per gli estensori del rapporto della Trilaterale, era dovuta all’”eccesso di democrazia”, cioè al potere delle masse e dei partiti di massa che si era sviluppato in modo per l’appunto eccessivo negli anni precedenti. Gli “obsoleti modi di governo” sono quelli improntati allo sviluppo del settore economico pubblico, del welfare e dei diritti dei lavoratori. Per superarli c’è bisogno, è questo il senso del discorso, che ci sia meno Stato e più privato e questo è permesso dall’integrazione europea, in particolare dalla alienazione ad organismi sovranazionali di alcune funzioni essenziali dello Stato come il bilancio, il debito pubblico e la moneta. Che una moneta unica potesse essere la soluzione ai problemi del capitale europeo era chiaro già nel 1958, come appare da un estratto della conferenza, tenutasi a Buxton, del Gruppo Bilderberg, un’altra organizzazione del capitale internazionale:
“Uno dei maggiori problemi coi quali la Comunità economica europea si confronta è quello del coordinamento delle politiche monetarie. […] La politica monetaria è strettamente legata ai bilanci nazionali e la disciplina di bilancio è notoriamente difficile da raggiungere. I ministri delle finanze sono di solito più ragionevoli e potrebbero occasionalmente accettare pressioni esterne ma è molto più difficile convincere i parlamenti nazionali. Chi parla dubita che a lungo termine il problema possa essere risolto con successo senza un appropriato meccanismo istituzionale. Questo punto è trattato da un altro partecipante che guarda a una valuta comune come a una soluzione definitiva.”2
Appare evidente come la valuta comune, quella che poi sarà l’euro, è uno strumento di controllo del bilancio pubblico e quindi delle richieste popolari in termini di welfare, pensioni, ecc. In questo contesto rientra anche la separazione della banca centrale dal governo, ossia la sua autonomia, che comincia proprio nello stesso periodo a essere caldeggiata dai mass media legati al grande capitale. Già prima della costituzione della Banca centrale europea, in Italia si produsse la separazione della Banca d’Italia dal Tesoro nel 1981. In questo modo la Banca d’Italia non poteva più acquistare direttamente i titoli di stato emessi dal Tesoro e con ciò calmierare i tassi d’interesse sul debito, cosa che contribuì grandemente al raddoppio del debito pubblico italiano in pochi anni, tra 1981 e 1994.
Il punto è che la classe dominante italiana ha utilizzato l’integrazione europea e il percorso per arrivare ad essa, come strumento per imporre quelle controriforme che altrimenti non sarebbero passate e per modificare i rapporti di forza all’interno dello Stato a proprio favore. “Ce lo chiede l’Europa” è stato per vent’anni lo slogan che serviva a tacitare le voci contrarie.L’integrazione europea ha permesso di raggiungere una piena governabilità, perché l’organismo più importante dell’Ue, come abbiamo avuto conferma durante le recenti trattative sul Recovery Fund, è il Consiglio europeo, che è composto dai capi di governo della Ue. Il Consiglio europeo, oltre a definire le priorità e gli orientamenti generali dell’Ue, propone il Presidente della Commissione europea e soprattutto nomina i membri della Bce e il suo presidente. Quindi, ciò a cui ci troviamo davanti non è una perdita della sovranità nazionale, ma una delega di alcune funzioni a organismi sovranazionali che sono peraltro strettamente controllati dagli esecutivi. La Ue è sostanzialmente un organismo intergovernativo basato sulla competitività economica tra Paesi e imprese, dove contano i rapporti di forza tra gli Stati. Lo stesso Trattato di Aquisgrana, che più di un anno fa rafforzò il legame tra Francia e Germania, è un trattato tra stati nazione che, all’interno dell’Europa, decidono, in base ai propri interessi, di darsi mutuo appoggio su una serie di temi e di consultarsi prima di ogni riunione europea decisiva, come è puntualmente accaduto anche a proposito del Recovery Fund, che è nato proprio su proposta franco-tedesca. Lo Stato nazione rimane, anzi alcune sue funzioni, come quella decisiva del monopolio dell’uso della forza, non solo permangono nelle sue mani ma si rafforzano. Allo stesso modo, all’interno del contesto Ue, la tendenza imperialista nazionale rimane intatta, anzi si rafforza, perché la depressione del mercato interno, accentuato dall’euro e dall’austerity, rafforza la tendenza espansionistica del capitale verso l’estero. Ciò è dimostrato dall’aumento dell’attivismo non solo economico ma anche militare della Francia in Africa, che ha portato, fra l’altro, all’attacco miliare contro la Libia, che aveva tra i suoi scopi anche quello di sostituire nello sfruttamento delle risorse energetiche e dei ricchi appalti di quel Paese le imprese dell’Italia, a partire dall’Eni. In sostanza l’esistenza della Ue e dell’euro non impediscono che i vari Paesi, che pure ne fanno parte, si trovino su fronti opposti in proxy war imperialistiche in Paesi periferici.
Quindi, l’unica sovranità a essere messa in discussione dall’Ue è quella democratica che, come recita la Costituzione, dovrebbe risiedere nel popolo (Art. 1). Invece, grazie ai trattati europei, la sovranità è nelle mani del grande capitale monopolistico e multinazionale a base europea, che la impone grazie agli esecutivi e agli organismi europei che da quelli emanano, molto più di quanto accadrebbe in condizioni “normali”, cioè nelle condizioni ereditate dalla fine del fascismo. Non è un caso che in un rapporto della banca d’affari statunitense JP Morgan del 2013 si trovasse la seguente affermazione: “I sistemi politici dei Paesi europei del Sud e in particolare le loro costituzioni, adottate in seguito alla caduta del fascismo, presentano caratteristiche inadatte a favorire l’integrazione. C’è forte influenza di idee socialiste”, citando, tra i contenuti problematici, la tutela dei diritti dei lavoratori.3
L’euro come mezzo di deflazione salariale e compressione del welfare
L’architettura dell’euro è centrale all’interno del contesto europeo per le ragioni suddette, cioè perché permette di imporre la disciplina di bilancio in modo molto più stringente, ma anche perché è un fattore di deflazione salariale, in quanto le imprese non possono ricorrere alle svalutazioni competitive per compensare svantaggi nei confronti di concorrenti esteri e devono ricorrere ancora di più alla deflazione salariare, cioè a ridurre il salario dei lavoratori. La Bce e la Commissione europea, inoltre, impongono scelte di politica economica e sociale ai parlamenti con le cosiddette raccomandazioni. Quale sia la natura di tali raccomandazioni è dimostrato da uno studio svolto per conto di un eurodeputato della Linke tedesca, Martin Schirdewan4. Le raccomandazioni della Commissione rivolte specificatamente ai singoli Paesi hanno riguardato, oltre che la richiesta di riduzione della spesa pubblica, anche i tagli a pensioni, sanità, salari, diritti dei lavoratori e sussidi per disoccupati e persone disabili. In particolare, tra 2014 e 2018, sono state rivolte agli Stati Ue 105 raccomandazioni per l’incremento dell’età pensionistica e la riduzione della spesa pensionistica, 63 raccomandazioni per i tagli alla spesa sanitaria o per la privatizzazione della sanità, 50 raccomandazioni per la soppressione di aumenti salariali, 38 raccomandazioni per la riduzione della sicurezza del lavoro e dei diritti di contrattazione dei lavoratori, e 45 raccomandazioni per la riduzione dei sussidi a disoccupati e persone disabili. I fondi previsti dal Recovery fund verranno pagati ai Paesi richiedenti in singole tranche, ma solo dopo la verifica da parte della Commissione che le sue raccomandazioni saranno state accettate e implementate.
Altro elemento centrale è rappresentato dai vincoli al deficit al 3% e al debito al 60% del Pil, contemplati nei trattati, e che rappresentano, insieme all’inserimento nella Costituzione del pareggio di bilancio, una vera gabbia nei confronti della la spesa sociale e fattore di impedimento all’impiego di efficaci politiche contro le crisi. C’è voluta una crisi di dimensioni enormi, quella derivante dal Covid-19, per sospendere quei vincoli. Ma nessuno ha proposto, come sarebbe stato opportuno, di eliminarli, anzi, a più riprese, membri della Commissione europea hanno affermato che bisogna prepararsi a reintrodurli e che la questione centrale rimane la disciplina di bilancio. Ciò, però, entra in contraddizione con i mezzi che il Consiglio europeo ha individuato per fare fronte alla crisi. Infatti, il Mes, il Sure e il Recovery Fund forniranno il loro aiuto soprattutto sotto forma di prestiti, che non solo aumenteranno il debito dei Paesi richiedenti, ma aumenteranno anche lo spread, cioè il divario tra i tassi d’interesse di Paesi come l’Italia nei confronti della Germania, perché il debito contratto con questi organismi europei è di natura senior, cioè ha il diritto di essere restituito per primo, provocando, in questo modo, l’innalzamento dei tassi d’interesse dei buoni del tesoro ordinari, proprio per compensare il maggiore rischio degli investitori. Infine, la Bce non può svolgere la funzione di prestatore di ultima istanza che consentirebbe di tenere sotto controllo i tassi d’interesse e finanziare direttamente lo Stato con l’emissione di liquidità. Quello che la Bce si è trovata costretta a fare nel corso della precedente crisi e nel corso di quella attuale, con i vari Quantitative easing, acquistando titoli di Stato e bond di imprese, rappresenta un pallido esempio di quello che sarebbe necessario fare in condizioni così difficili, senza contare che la Corte costituzione federale tedesca di Karlsruhe ha criticato l’azione della Bce come inappropriata.
Il capitale italiano è per l’uscita dall’euro?
La Ue e l’euro non sono soltanto un progetto economico, ma rappresentano un progetto politico, cioè inerente ai rapporti compressivi tra le classi sociali. L’integrazione europea ha, infatti, contribuito pesantemente a modificare i rapporti di forza all’interno dello Stato a favore del grande capitale multinazionale e contro i lavoratori. Questa è la ragione per cui non è ravvisabile all’interno del capitale italiano, in particolare nel suo settore d’élite, una posizione anti-euro e tantomeno anti-Ue. Se emergono posizioni critiche, queste sono interne ai giochi di potere tra le varie frazioni del capitale europeo e tra gli Stati che le rappresentano, allo scopo non certo di uscire dalla Ue, bensì di ottenere porzioni della torta maggiori, cioè quote maggiori degli aiuti di Stato, attraverso garanzie statali sui prestiti bancari e le ricapitalizzazioni via Cassa depositi e prestiti, ed europei, anche attraverso la Bei, il cui flusso maggiore andrà verso il grande capitale, come dimostrano i prestiti di cui già usufruiscono, ad esempio, Fca e Autostrade per l’Italia. Non si può, dunque, parlare di settori del capitale monopolistico che sono per l’uscita dall’euro o dalla Ue. La vicenda della Brexit è totalmente diversa. In quel caso il settore dominante del capitale britannico, quello finanziario rappresentato dalla borsa di Londra, la seconda piazza finanziaria del mondo, sarebbe stato indebolito dalla costituzione dell’Unione bancaria e soprattutto dalla realizzazione del mercato finanziario unico europeo, che rimane l’obiettivo più importante nella prossima fase dell’integrazione europea.
Ben diverso è l’atteggiamento della classe dominante italiana, costituita in parte rilevante da imprese che esportano manufatti sul mercato europeo e mondiale e vede la Ue come un organismo necessario ai propri affari ed in grado di fare quello che lo Stato nazionale da solo non potrebbe fare. A manifestare maggiore “nervosismo” nei confronti della Ue sono essenzialmente settori piccolo borghesi, soprattutto composti dal ceto medio intellettuale, dal momento che la piccola borghesia imprenditoriale non ha né la forza né la capacità di andare fino in fondo con la rottura con la Ue, anche perché è strettamente legata alla grande impresa multinazionale sia a base italiana sia estera. La stessa Lega, partito storicamente rappresentante della piccolissima, piccola e media impresa, ha di recente molto sfumato le sue posizioni antieuropee, con il prevalere dell’ala europeista rappresentata da Giorgetti e il defilarsi dell’ala anti-Ue, rappresentata da personalità come Bagnai. Resta, però, il fatto che si sta assistendo a un cambiamento dell’atteggiamento di massa nei confronti della Ue, proprio in concomitanza con la crisi attuale e il modo di affrontarla da parte della Ue stessa. Mentre l’opinione pubblica italiana è sempre stata tra quelle più europeiste, recentemente alcuni sondaggi hanno rilevato un giudizio negativo sulla Ue da parte del 62% degli intervistati5. A livello europeo ben il 53% dei rispondenti a una indagine di Eurobarometro si è detto insoddisfatto della solidarietà mostrata dall’Ue nel corso della pandemia6. Del resto i settori di classe che hanno maggiore interesse all’uscita dalla Ue e dall’euro sono proprio quelli subalterni, in particolare i lavoratori salariati.
Conclusioni, l’uscita dall’euro come parte della strategia per il socialismo
Qual è, quindi, la posizione da adottare sulla questione dell’uscita dall’euro e dalla Ue? In primo luogo, va ribadito che non si può non assumere una posizione sulla questione, sia per la centralità oggettiva della Ue nelle vicende italiane, sia perché si sta diffondendo un sempre più forte scetticismo nei confronti della Ue. In secondo luogo, contrariamente a quanti pensano che l’uscita dalla Ue sia l’alfa e l’omega della politica, non bisogna isolare il tema dell’uscita dall’euro dalla questione più generale del capitalismo. Se è vero che oggi il capitale in Italia e in Europa è intimamente legato all’integrazione europea, è altrettanto vero che il problema centrale per la classe lavoratrice, in un Paese avanzato come l’Italia, è rappresentato dall’esistenza del capitalismo e dell’imperialismo.
Ciò significa che l’uscita dall’euro è una condizione necessaria, per portare avanti gli interessi tattici e strategici della classe lavoratrice, ma non sufficiente.Per questa ragione la domanda non è tanto se è auspicabile o no uscire dall’euro, in quanto questo è, dal punto di vista di classe, indubbio, ma come portare avanti questa parola d’ordine. Il modo corretto non può certo essere quello di piegarsi a una specie di neonazionalismo in cui si difende l’Italia, vittima, nei confronti della “cattiva” Germania, e quindi ricercare alleanze con settori borghesi presunti anti-euro. Al contrario, bisogna inserire la questione dell’uscita dall’euro all’interno del processo più generale di critica e di lotta al capitalismo italiano ed europeo nella fase imperialista.
Se non vogliamo limitarci a declamare la necessità del socialismo, dobbiamo assumere un programma di fase e dentro, anzi al centro di questo programma, in Italia non può non esserci l’uscita dalla Ue. In parole più semplici, se vogliamo essere realisti non possiamo lottare per la sanità pubblica, le pensioni, il lavoro ecc. senza affrontare il nodo dei trattati e della Ue, ma, al tempo stesso, se vogliamo essere coerenti con la nostra visione della società attuale, questa posizione va inserita in una lotta più generale contro il capitale, individuando per l’appunto un programma di fase o minimo, come preferiamo definirlo. Questo programma deve investire la natura dello Stato e delle sue istituzioni, proprio perché lo Stato non è neutrale dal punto di vista di classe, come dimostra lo stesso uso dell’integrazione europea da parte del grande capitale. Ad esempio, non basta uscire dall’euro se poi la Banca d’Italia continua ad essere autonoma dal Tesoro e a non svolgere il ruolo di prestatore di ultima istanza, o se le nazionalizzazioni vengono intese come semplice socializzazione delle perdite del capitale, facendo sì che le imprese partecipate dallo Stato assumano la forma di spa quotate in borsa e quindi soggette a tutte le regole del capitalismo, anziché essere trasformate in enti pubblici con scopi di sviluppo sociale.
In sostanza, c’è bisogno di un perimetro di lotte più complessivo, che faccia fare il salto dalla pura lotta di difesa delle condizioni immediate di vita e di lavoro ad un piano più generale, politico, che necessariamente includa il tema della Ue. In quest’ottica, l’uscita dalla Ue sarebbe un passaggio fondamentale sì, ma solo un passaggio, della lotta generale per il socialismo nel nostro Paese e in Europa.di Domenico Moro
Note:
1 M. Crozier, S.P. Huntington, J. Watanuki, La crisi della democrazia, Franco Angeli editore, Milano 1977, p. 159.
2 Rapporto riservato del Bilderberg Group, Buxton Conference, 13-25 settembre 1958. Documento pubblicato da WikiLeaks. Cit. in D. Moro, Il gruppo Bilderberg. L’élite del potere mondiale, Aliberti editore, Reggio Emilia, 2014.
3 https://www.ilfattoquotidiano.it/2013/06/19/ricetta-jp-morgan-per-uneuropa-integrata-liberarsi-delle-costituzioni-antifasciste/630787/
4 https://emmaclancy.files.wordpress.com/2020/02/discipline-and-punish-eu-stability-and-growth-pact.pdf
5 Sondaggio Emg Acqua riportato nella trasmissione televisiva Agorà, 25 giugno 2020.
6 https://www.europarl.europa.eu/at-your-service/it/be-heard/eurobarometer/public-opinion-in-the-eu-in-time-of-coronavirus-crisis-2
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