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02/09/2020

Giappone - I dubbi del dopo Abe

Con le dimissioni improvvise nel fine settimana del primo ministro giapponese, Shinzo Abe, rischia di aprirsi per la terza potenza economica del pianeta un periodo di incertezza che sta già mettendo in allarme la classe dirigente indigena. Tra una pesantissima crisi economica e sanitaria e le scosse internazionali provocate dalla condotta americana e dalla rivalità USA-Cina, gli interrogativi che emergono dall’addio alla guida del governo del premier più longevo della storia nipponica sono l’identità del suo successore e le capacità che avrà quest’ultimo di mantenere o accelerare la linea politica ed economica degli ultimi otto anni.

Il Partito Liberal Democratico (LDP) al potere sceglierà il suo nuovo presidente e, automaticamente, il futuro capo dell’esecutivo il 14 settembre prossimo. Le regole di successione del partito non sono del tutto chiare sulle modalità di selezione, cioè se a votare per il nuovo leader saranno solo i membri del parlamento giapponese o tutti gli iscritti al partito. La prima ipotesi sembra la più probabile, visto anche che i sondaggi di questi giorni stanno evidenziando differenze sostanziali di opinione tra gli elettori e i vertici del LDP in merito ai candidati alla leadership.

Abe aveva annunciato le dimissioni con un comunicato nella giornata di venerdì, sostenendo che la patologia cronica di cui soffre, e per cui era stato sottoposto ad alcune visite nei giorni precedenti, richiede un nuovo ciclo di cure e non gli permette di dedicarsi completamente al suo incarico. Già nel 2007 Abe aveva dovuto lasciare la guida del governo ufficialmente per la stessa ragione e ad appena un anno del suo insediamento. Nel 2012 era tornato al potere grazie a un successo elettorale a valanga dopo tre anni di governi disastrosi del Partito Democratico giapponese (DPJ) di centro-sinistra.

Al di là delle condizioni di salute di Abe, una serie di elementi indicano come all’abbandono del primo ministro abbiano quanto meno contribuito altri fattori riconducibili al suo ruolo pubblico e alla situazione attuale del Giappone. Uno di questi è rappresentato dagli ormai svariati scandali legati a casi di corruzione, all’utilizzo improprio di fondi pubblici e al tentativo di nominare un procuratore disposto a limitare le conseguenze dei suoi guai legali.

Già questi fatti avevano influito non poco sulla popolarità di Abe, scesa ai minimi storici anche e soprattutto per via della gestione approssimativa dell’emergenza Coronavirus. In apparenza, il Giappone non ha pagato finora lo stesso prezzo di altri paesi in termini di vittime e contagi (rispettivamente poco più di 1.200 e circa 67 mila). Il governo, come ha spiegato un’analisi della testata on-line Asia Times, ha tenuto però un approccio “minimalista” per ciò che riguarda test e “lockdown”, lasciando alle autorità locali la gestione più specifica della crisi, mentre ha promosso prematuramente gli spostamenti turistici domestici col risultato di far risalire i contagi.

Al discredito accumulato per questa ragione va poi aggiunto quello dovuto al tracollo dell’economia che, in pochi mesi, ha spazzato via buona parte dei presunti effetti benefici delle cosiddette “Abenomics”. Nel trimestre aprile-giugno, il PIL giapponese è calato così del 27,8% su base annua, vale a dire il dato peggiore dalla Seconda Guerra Mondiale.

La tempesta perfetta in cui si è ritrovato il primo ministro uscente ha finito per rendere del tutto impraticabili i due principali obiettivi rimasti al suo governo. Da un lato, l’implementazione della famigerata “terza freccia” della sua strategia economica, cioè in sostanza la ristrutturazione del mercato del lavoro in senso ultra-liberista, e dall’altro la liquidazione dei freni costituzionali alle politiche militariste auspicate dalla classe dirigente nipponica.

In ambito economico, ad Abe viene generalmente riconosciuto di avere introdotto politiche economiche e fiscali espansioniste che avrebbero portato un qualche beneficio, soprattutto nei primi anni del suo secondo mandato alla guida del governo, in termini di afflusso di capitali stranieri e di crescita degli indici di borsa. La comunità del business giapponese e gli ambienti finanziari internazionali hanno però sempre atteso l’ultima fase del suo ambizioso programma economico, quello delle “riforme strutturali”.

Questo intervento, almeno nei termini sperati, non è tuttavia mai arrivato e, oltretutto, le politiche di questi anni e l’emergenza in atto hanno fatto aumentare ancora di più il livello di un debito pubblico già esplosivo. L’incapacità cronica di mettere mano a misure “strutturali” impopolari può dunque avere influito sulla decisione di Abe di farsi da parte. In definitiva, se il premier non è riuscito a deregolamentare ulteriormente i rapporti di lavoro quando godeva di indici di popolarità invidiabili e di un dominio politico assoluto, è improbabile che raggiunga l’obiettivo in una situazione di profonda crisi.

Le aspettative sono ora per un nuovo leader che mantenga le impostazioni di base delle strategie economiche e fiscali di Abe, ma che sia finalmente in grado di chiudere il cerchio. Il candidato favorito alla successione del primo ministro è infatti uno dei suoi fedelissimi, il capo di gabinetto Yoshihide Suga. Quest’ultimo sembra poter contare sull’appoggio di una pluralità di fazioni all’interno del LDP ed è perciò l’opzione più rassicurante per il partito e gli ambienti di potere che a esso fanno riferimento.

Secondo i sondaggi più recenti, è invece l’ex ministro della Difesa, Shigeru Ishiba, a raccogliere i maggiori consensi tra gli elettori. Ishiba ha sfidato Abe in due occasioni per la leadership del partito – nel 2012 e nel 2018 – e, a causa anche di posizione più populiste in ambito economico, non gode del sostegno di coloro che vedono con favore una scelta di continuità per il LDP e il governo.

Quanto ci si aspetta dal successore di Abe è risultato comunque chiaro da un recente articolo della Nikkei Asian Review che ha sondato il terreno negli ambienti finanziari giapponesi. Uno degli analisti sentito dalla testata ha spiegato ad esempio come la nomina di Suga aprirebbe la possibilità di “un nuovo intervento di stimolo all’economia”, ma, ancor più, come ha affermato un altro degli intervistati, il cambio al vertice darebbe l’occasione “per riconsiderare la strategia di crescita del paese e mettere in atto nuove iniziative”.

Il riferimento è appunto alle attese “riforme strutturali” e sulla stampa specializzata, espressione delle élite economiche e finanziarie nipponiche, è tutto un auspicare e invitare a “ristabilire la fiducia degli investitori” e a “dare un impulso alla produttività”. La speranza che una scelta di continuità per il dopo-Abe si orienti in questo senso, oltre che a garantire una costante infusione di denaro da parte della banca centrale, ha ridato fiato lunedì alla borsa di Tokyo, risalita sensibilmente dopo il tonfo seguito all’annuncio delle dimissioni nel fine settimana.

A lasciare almeno in teoria aperta la sfida per la leadership del LDP è il fatto che Suga non ha un profilo nazionale adeguato ed è considerato poco più che un burocrate. Se la scelta dovesse cadere sul braccio destro di Abe, per il partito di governo potrebbero esserci problemi sul piano elettorale al prossimo appuntamento con le urne nel settembre del 2021. Lo stato dell’opposizione resta comunque pessimo in Giappone e, salvo sorprese, la relativa assenza di rischi per il LDP dovrebbe perciò alla fine far prevalere il desiderio di stabilità.

Un altro aspetto da valutare è quello dell’evolversi della situazione internazionale e quindi della politica estera di Tokyo. Abe si è mosso in questo ambito come un convinto nazionalista e difensore delle ambizioni “imperialiste” giapponesi. Allo stesso tempo, la sua amministrazione ha allineato saldamente gli interessi del paese a quelli degli Stati Uniti, in particolare sul fronte del contenimento della Cina.

Nel complesso, i toni dello scontro con Pechino non sono però quasi mai andati al di là dei livelli di guardia e sono in molti a ritenere che Abe, retorica a parte e grazie anche a rapporti personali cordiali con il presidente cinese Xi Jinping, abbia operato per evitare tensioni eccessive con il vicino, visti i rischi e gli interessi economici in gioco.

Queste dinamiche hanno a che fare, più in generale, con il progressivo emergere di orientamenti di politica estera relativamente indipendenti del Giappone e che tengono senza dubbio in allarme gli alleati di Washington, soprattutto in una fase di transizione politica. Basti pensare, a questo proposito, al trattato di libero scambio siglato nel 2018 con l’Unione Europea. A questi scrupoli vanno ricondotte probabilmente le parole del presidente americano Trump, i cui elogi spropositati di Abe nei giorni scorsi rivelano, oltre ai consueti eccessi retorici dell’inquilino della Casa Bianca, la necessità di tenere ancorato il Giappone alle necessità strategiche USA anche dopo il passaggio di consegne alla guida del governo di Tokyo.

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