Con le dimissioni improvvise nel fine settimana del primo ministro
giapponese, Shinzo Abe, rischia di aprirsi per la terza potenza
economica del pianeta un periodo di incertezza che sta già mettendo in
allarme la classe dirigente indigena. Tra una pesantissima crisi
economica e sanitaria e le scosse internazionali provocate dalla
condotta americana e dalla rivalità USA-Cina, gli interrogativi che
emergono dall’addio alla guida del governo del premier più longevo della
storia nipponica sono l’identità del suo successore e le capacità che
avrà quest’ultimo di mantenere o accelerare la linea politica ed
economica degli ultimi otto anni.
Il Partito Liberal Democratico (LDP) al potere sceglierà il suo nuovo
presidente e, automaticamente, il futuro capo dell’esecutivo il 14
settembre prossimo. Le regole di successione del partito non sono del
tutto chiare sulle modalità di selezione, cioè se a votare per il nuovo
leader saranno solo i membri del parlamento giapponese o tutti gli
iscritti al partito. La prima ipotesi sembra la più probabile, visto
anche che i sondaggi di questi giorni stanno evidenziando differenze
sostanziali di opinione tra gli elettori e i vertici del LDP in merito
ai candidati alla leadership.
Abe aveva annunciato le dimissioni con un comunicato nella giornata
di venerdì, sostenendo che la patologia cronica di cui soffre, e per cui
era stato sottoposto ad alcune visite nei giorni precedenti, richiede
un nuovo ciclo di cure e non gli permette di dedicarsi completamente al
suo incarico. Già nel 2007 Abe aveva dovuto lasciare la guida del
governo ufficialmente per la stessa ragione e ad appena un anno del suo
insediamento. Nel 2012 era tornato al potere grazie a un successo
elettorale a valanga dopo tre anni di governi disastrosi del Partito
Democratico giapponese (DPJ) di centro-sinistra.
Al di là delle condizioni di salute di Abe, una serie di elementi
indicano come all’abbandono del primo ministro abbiano quanto meno
contribuito altri fattori riconducibili al suo ruolo pubblico e alla
situazione attuale del Giappone. Uno di questi è rappresentato dagli
ormai svariati scandali legati a casi di corruzione, all’utilizzo
improprio di fondi pubblici e al tentativo di nominare un procuratore
disposto a limitare le conseguenze dei suoi guai legali.
Già questi fatti avevano influito non poco sulla popolarità di Abe,
scesa ai minimi storici anche e soprattutto per via della gestione
approssimativa dell’emergenza Coronavirus. In apparenza, il Giappone non
ha pagato finora lo stesso prezzo di altri paesi in termini di vittime e
contagi (rispettivamente poco più di 1.200 e circa 67 mila). Il
governo, come ha spiegato un’analisi della testata on-line Asia Times,
ha tenuto però un approccio “minimalista” per ciò che riguarda test e
“lockdown”, lasciando alle autorità locali la gestione più specifica
della crisi, mentre ha promosso prematuramente gli spostamenti turistici
domestici col risultato di far risalire i contagi.
Al discredito accumulato per questa ragione va poi aggiunto quello
dovuto al tracollo dell’economia che, in pochi mesi, ha spazzato via
buona parte dei presunti effetti benefici delle cosiddette “Abenomics”.
Nel trimestre aprile-giugno, il PIL giapponese è calato così del 27,8%
su base annua, vale a dire il dato peggiore dalla Seconda Guerra
Mondiale.
La tempesta perfetta in cui si è ritrovato il primo ministro uscente
ha finito per rendere del tutto impraticabili i due principali obiettivi
rimasti al suo governo. Da un lato, l’implementazione della famigerata
“terza freccia” della sua strategia economica, cioè in sostanza la
ristrutturazione del mercato del lavoro in senso ultra-liberista, e
dall’altro la liquidazione dei freni costituzionali alle politiche
militariste auspicate dalla classe dirigente nipponica.
In ambito economico, ad Abe viene generalmente riconosciuto di avere
introdotto politiche economiche e fiscali espansioniste che avrebbero
portato un qualche beneficio, soprattutto nei primi anni del suo secondo
mandato alla guida del governo, in termini di afflusso di capitali
stranieri e di crescita degli indici di borsa. La comunità del business
giapponese e gli ambienti finanziari internazionali hanno però sempre
atteso l’ultima fase del suo ambizioso programma economico, quello delle
“riforme strutturali”.
Questo
intervento, almeno nei termini sperati, non è tuttavia mai arrivato e,
oltretutto, le politiche di questi anni e l’emergenza in atto hanno
fatto aumentare ancora di più il livello di un debito pubblico già
esplosivo. L’incapacità cronica di mettere mano a misure “strutturali”
impopolari può dunque avere influito sulla decisione di Abe di farsi da
parte. In definitiva, se il premier non è riuscito a deregolamentare
ulteriormente i rapporti di lavoro quando godeva di indici di popolarità
invidiabili e di un dominio politico assoluto, è improbabile che
raggiunga l’obiettivo in una situazione di profonda crisi.
Le aspettative sono ora per un nuovo leader che mantenga le
impostazioni di base delle strategie economiche e fiscali di Abe, ma che
sia finalmente in grado di chiudere il cerchio. Il candidato favorito
alla successione del primo ministro è infatti uno dei suoi fedelissimi,
il capo di gabinetto Yoshihide Suga. Quest’ultimo sembra poter contare
sull’appoggio di una pluralità di fazioni all’interno del LDP ed è
perciò l’opzione più rassicurante per il partito e gli ambienti di
potere che a esso fanno riferimento.
Secondo i sondaggi più recenti, è invece l’ex ministro della Difesa,
Shigeru Ishiba, a raccogliere i maggiori consensi tra gli elettori.
Ishiba ha sfidato Abe in due occasioni per la leadership del partito –
nel 2012 e nel 2018 – e, a causa anche di posizione più populiste in
ambito economico, non gode del sostegno di coloro che vedono con favore
una scelta di continuità per il LDP e il governo.
Quanto ci si aspetta dal successore di Abe è risultato comunque
chiaro da un recente articolo della Nikkei Asian Review che ha sondato
il terreno negli ambienti finanziari giapponesi. Uno degli analisti
sentito dalla testata ha spiegato ad esempio come la nomina di Suga
aprirebbe la possibilità di “un nuovo intervento di stimolo
all’economia”, ma, ancor più, come ha affermato un altro degli
intervistati, il cambio al vertice darebbe l’occasione “per
riconsiderare la strategia di crescita del paese e mettere in atto nuove
iniziative”.
Il riferimento è appunto alle attese “riforme strutturali” e sulla
stampa specializzata, espressione delle élite economiche e finanziarie
nipponiche, è tutto un auspicare e invitare a “ristabilire la fiducia
degli investitori” e a “dare un impulso alla produttività”. La speranza
che una scelta di continuità per il dopo-Abe si orienti in questo senso,
oltre che a garantire una costante infusione di denaro da parte della
banca centrale, ha ridato fiato lunedì alla borsa di Tokyo, risalita
sensibilmente dopo il tonfo seguito all’annuncio delle dimissioni nel
fine settimana.
A lasciare almeno in teoria aperta la sfida per la leadership del LDP
è il fatto che Suga non ha un profilo nazionale adeguato ed è
considerato poco più che un burocrate. Se la scelta dovesse cadere sul
braccio destro di Abe, per il partito di governo potrebbero esserci
problemi sul piano elettorale al prossimo appuntamento con le urne nel
settembre del 2021. Lo stato dell’opposizione resta comunque pessimo in
Giappone e, salvo sorprese, la relativa assenza di rischi per il LDP
dovrebbe perciò alla fine far prevalere il desiderio di stabilità.
Un altro aspetto da valutare è quello dell’evolversi della situazione
internazionale e quindi della politica estera di Tokyo. Abe si è mosso
in questo ambito come un convinto nazionalista e difensore delle
ambizioni “imperialiste” giapponesi. Allo stesso tempo, la sua
amministrazione ha allineato saldamente gli interessi del paese a quelli
degli Stati Uniti, in particolare sul fronte del contenimento della
Cina.
Nel
complesso, i toni dello scontro con Pechino non sono però quasi mai
andati al di là dei livelli di guardia e sono in molti a ritenere che
Abe, retorica a parte e grazie anche a rapporti personali cordiali con
il presidente cinese Xi Jinping, abbia operato per evitare tensioni
eccessive con il vicino, visti i rischi e gli interessi economici in
gioco.
Queste dinamiche hanno a che fare, più in generale, con il
progressivo emergere di orientamenti di politica estera relativamente
indipendenti del Giappone e che tengono senza dubbio in allarme gli
alleati di Washington, soprattutto in una fase di transizione politica.
Basti pensare, a questo proposito, al trattato di libero scambio siglato
nel 2018 con l’Unione Europea. A questi scrupoli vanno ricondotte
probabilmente le parole del presidente americano Trump, i cui elogi
spropositati di Abe nei giorni scorsi rivelano, oltre ai consueti
eccessi retorici dell’inquilino della Casa Bianca, la necessità di
tenere ancorato il Giappone alle necessità strategiche USA anche dopo il
passaggio di consegne alla guida del governo di Tokyo.
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