È uscito ieri, in libreria, l’ultimo libro di Barbara Balzerani: Lettera a mio padre.
Mandato in stampa da DeriveApprodi Editore – come già i suoi precedenti sei lavori – il settimo sigillo letterario di Barbara Balzerani è un libro intimo e politico, eretico e messianico, apocalittico e poetico.
Come la parola – filosofica ma intrisa del misterioso sangue, che sbuffa dall’antica gola tagliata della Terra – di quel Walter Benjamin, il cui pensiero, profondamente marxista ma profondamente eterodosso, sembra pervadere e plasmare tutto il libro.
Lettera a mio padre getta, dunque, uno sguardo lucido e impietoso sul presente e sulle iniquità del sistema capitalistico, con le sue leggi stritolanti. Il suo Mercato e i suoi grafici, tra i cui algoritmi l’antico sapere artigiano dell’uomo si è smarrito, cedendo mestamente il posto all’artificio del feticcio merceologico.
Quello sguardo, che taglia la scorza spessa di un’attualità omogeneizzata e disperante, si incrocia però anche con l’occhio severo della critica che investe, senza riverenza, il modello teorico e la praxis rivoluzionaria, che pure condussero, nel corso del’900, alle prime esperienze di socialismo reale.
Ma soprattutto al protagonismo, mai fino ad allora realizzatosi, delle masse dei diseredati sul proscenio della Storia.
Una severità che la Balzerani non risparmia neppure alla vicenda che la vide impegnata, in prima persona, nella lotta, anche armata, contro il potere costituito delle classi dominanti.
Eppure, senza mai cedere alla rassegnazione ma, anzi, combattiva più che mai, si pone all’ascolto delle nuove esperienze rivoluzionarie che, in giro per il mondo, intendono sovvertire il dominio neoliberista e di classe e il suo modo di produzione. Tesa, ancora a settant’anni, alla ricerca di un nuovo paradigma per una nuova guerriglia, in questi anni in cui il movimento comunista sembra essersi relegato in una posizione di timorosa retroguardia.
Un libro che perciò fa appello, prima ancora che a un futuro rivoluzionario, a quel presente il quale solo, rompendo con il concetto del tempo lineare e progressivo assunto dai vincitori, e addirittura con la categoria marxiana dello sviluppo delle forze produttive, troppo spesso concepito in termini meccanici ed evoluzionisti, può provocare lo squarcio nel corpo malato del Capitale e aprire ad una società nuova e senza classi.
Un riappropriarsi del proprio Spazio nel proprio Tempo, costruendo un futuro che non abbia una dimensione teleologica, ma che, invece, sia capace di ricomporre quelle macerie della Storia, sotto il cui peso ancora vibrano e urlano i corpi di tutti i vinti.
Questa Lettera a mio padre è, pertanto, un’infrazione quantica nella dimensione spazio/tempo, dalle cui feritoie gli sconfitti e i dannati di ogni epoca lanciano il grido di battaglia che risuona e risuonerà per le strade delle megalopoli contemporanee. Scuotendo i muri eretti dal Capitale.
In questo Lettera a mio padre, la concezione del Tempo coniugato al passato, mai stipata sugli scaffali dello storicismo asettico e immutabile, teorizzato e voluto dai padroni e dai vincitori, diviene dunque memoria agente nel presente e capace di riscattare il futuro.
Il confronto tra la generazione dei padri e quella dei figli, tra Barbara e il papà defunto anni prima – con cui il rapporto d’amore e di narrazione dell’infanzia, venne mutandosi in difficoltà di dialogo durante gli anni duri della lotta armata e del carcere – si trasforma qui in un tenero, amaro, disilluso, cocente, pugnace Finale di partita.
Giocato tra le trame sempre problematiche delle relazioni interpersonali e familiari; tra le linee, fragili e oblique, di una psiche in perenne lotta con le sbarre, metaforiche e reali, della galera e della soffocante struttura sociale imposta dal neoliberismo predatorio.
Un Finale di partita combattuto sulla scacchiera di Benjamin, dove l’ultimo pedone rosso riesce, allo stremo delle forze, a dare scacco al re nero, sul cui mantello campeggiano le insegne inquietanti del dominio secolare sugli oppressi.
Barbara ha voluto concederci, dunque, ancora una volta, con questo suo ultimo libro, il grandissimo privilegio – o meglio sarebbe dire il raro dono – che solo i grandi scrittori sanno elargire, di penetrare tra le pieghe più recondite di una vita e di un’intelligenza complesse, dense di un’emotività profonda, per natura e per storia costantemente in conflitto ed in uno stato di ricercato dis/equilibrio.
A ciascuno dei lettori, la capacità di svelare e rivelare a sé stesso il senso profondo che scorre sotto l‘incandescente magma delle parole di Barbara.
Impudicamente terrene e femminili, ferocemente realiste, tragicamente ineludibili come il parricidio di Edipo.
Parole che non lasciano speranza. E per questo, parole che ci chiamano alla battaglia. Un’ultima battaglia per la nostra dignità e sopravvivenza. Qui ed ora...
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