Purtroppo dobbiamo dircelo con chiarezza: i provvedimenti sanitari assunti dal governo non stanno affatto contenendo la pandemia, che registra ormai un numero stabile di contagi quotidiani attorno ai 20.000 e un numero di decessi impressionante, tra i 500 e i 900 al giorno. E la strage continuerà in nome della “produzione”.
È ormai chiaro che la “seconda ondata” è peggio della prima e che fino a quando non si fermeranno le produzioni manifatturiere, i cantieri, e tutte le attività non indispensabili la pandemia non calerà. Il governo italiano sta sacrificando la vita dei cittadini per gli interessi degli industriali e della grande distribuzione.
Questo è il quadro in cui, il 7 gennaio, le scuole dovrebbero riaprire in quasi-presenza (non è ancora chiaro davvero in quale percentuale oraria, di allievi ecc.). La scuola non è una bolla separata dalla società e la grave situazione sanitaria generale è un contesto con cui si devono fare i conti.
Siamo evidentemente oppositori della famigerata didattica a distanza, sappiamo che non è vera scuola, ma è legittimo chiedersi cosa stia facendo il governo e il Ministero dell’Istruzione in particolare per preparare un rientro in sicurezza, nella situazione estremamente pericolosa che abbiamo descritto.
In realtà, dal Ministero, dopo le tante fandonie estive, prima tra tutte quella dei banchi a rotelle, che ora giacciono polverosi nei magazzini delle scuole dove sono arrivati, non si hanno notizie precise di iniziative per la ripresa. Tutti i tracciamenti sono saltati, ci sono situazioni in cui per avere il risultato di un tampone di un allievo ci sono voluto dieci giorni, il caos è diventato regola.
Di fatto, la ministra Azzolina ha scaricato sugli enti locali e sulle “autonomie” le responsabilità di una ripresa sicura. In pratica, un pericoloso fai-da-te che si è già dimostrato fallimentare.
Sinora, solo due regioni hanno dato notizie su cosa intendano fare per la ripresa della scuola. L’Emilia ha predisposto un complesso piano di tamponi rapidi per gli studenti e il personale, che potranno essere effettuati, sembra, in farmacia e ripetuti mensilmente. Un piano di difficile realizzazione, poiché le farmacie non sono luoghi adatti per questo compito, ma seguiremo come evolverà la situazione. Il Piemonte, da parte sua, ha annunciato un potenziamento del trasporto pubblico di cui però non si sa nulla. È noto che la questione trasporti è particolarmente scottante.
Resta comunque aperta la questione principale a cui il Ministero non vuole dare risposta, cioè il numero degli alunni per classe. Il problema è noto: la ministra Azzolina non vuole assumere nuovo personale a tempo indeterminato, nemmeno quei precari che da anni già lavorano, costretti a un concorso periglioso nei mesi passati, poi sospeso a causa del riesplodere della pandemia.
Per poter formare classi meno numerose, è evidentemente necessario avere il personale per poterle gestire. Rispetto a tale esigenza, che si evidenzia in questo momento emergenziale ma che potrebbe costituire anche a lunga scadenza un miglioramento dell’offerta formativa, non giunge, dal ministero, alcuna risposta.
Si badi, avere più docenti aiuterebbe anche a offrire una didattica a distanza meno disumana. Non è possibile sbattere una classe di 25 ragazze di 12 anni, con magari due disabili e qualcuna con difficoltà linguistiche, dietro allo schermo di un computer e sperare che tutto vada bene. Non andrà per niente bene e di quelle alunne se ne perderà la metà o ancor più.
Chiaramente, un migliore rapporto numerico tra docenti e alunni, la costituzione di piccoli gruppi, potrebbe creare condizioni meno devastanti, anche se certamente difficili, per la didattica a distanza.
Per quanto riguarda i precari già in servizio, ci auguriamo che il governo rispetti l’ingiunzione dell’Unione Europea, arrivata qualche giorno fa, di assumerli immediatamente. Infatti, la direttiva 70 della Comunità Europea impone l’assunzione dei dipendenti pubblici che hanno stipulato 36 mesi di contratti continuativi negli ultimi 5 anni.
Una norma che valse l’assunzione, nel 2015, di 148.000 precari da parte del governo Renzi. Il quale spacciò tali assunzioni come un vantaggio della sua “buona scuola” quando invece era solo un modo di evitare una procedura d’infrazione delle normative europee.
Tuttavia, l’assunzione dei precari già in servizio non risolverebbe il problema, poiché costoro fanno già parte degli organici di fatto delle scuole.
Serve quindi un piano urgente e straordinario di assunzioni. Questo anche a fronte dell’evidenza che, nonostante le chiacchiere sulla miracolosità dei vaccini che risolverebbero tutto, la situazione di emergenza pandemica. a causa dell’insufficienza dei provvedimenti governativi, si protrarrà probabilmente per altri due o tre anni.
La ripresa delle scuole a gennaio è quindi sottoposta a diversi fattori di rischio ed è lecito temere che, in questa situazione, si possa continuare sino a fine anno con continue riaperture e richiusure estremamente dannose, senza che le scuole abbiano il personale necessario a fronteggiare la situazione.
Di fronte a questo immobilismo pedagogico e organizzativo del Ministero risulta invece stupefacente l’attivismo sul piano sindacale, anche se sviluppato attraverso l’ARAN, l’agenzia governativa per le questioni sindacali nel pubblico impiego. Infatti, il 2 dicembre è stato siglato in sede ARAN un nuovo accordo-capestro sul diritto di sciopero nella scuola sottoscritto da CGIL, CISL, UIL, Gilda, SNALS e ANIEF (il “sindacato” di cui era attivista Lucia Azzolina).
Tale accordo si pone chiaramente l’obiettivo di rendere sempre più difficile esercitare il diritto costituzionale dello sciopero e di ridurne comunque gli effetti. Secondo tale accordo, non si potrà scioperare nei primi giorni di scuola, si dovrà avvertire il dirigente della propria astensione dal lavoro quattro giorni prima, e, clausola davvero singolare, i sindacati firmatari del contratto, in accordo con l’ARAN, decideranno la legittimità degli scioperi.
Insomma, un modo per quei vetusti e complici sindacati, sempre più in odio presso i lavoratori della scuola, di impedire che i sindacati di base possano sviluppare la loro azione.
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