La riunione del consiglio europeo del 10 e 11 dicembre scorso, tenuta dai capi di Stati e di Governo dei 27 paesi membri, certifica un passaggio di fase rilevante. L’UE marcia spedita verso l’edificazione di un polo imperialista in grado di affrontare la competizione economica – e lo scontro geo-politico – per come andrà delineandosi dopo la pandemia.
Infatti in sede di Unione Europea – nonostante le iniziali frizioni registrate con Polonia e Ungheria – è stato raggiunto un compromesso che allinea i singoli Stati facendoli convergere verso un significativo “balzo in avanti” dell’Unione o, come afferma il quotidiano francese Le Monde nel suo editoriale “la costruzione europea ha fatto un salto qualitativo considerevole”.
È stato approvato un Piano di Rilancio pari a 750 miliardi di Euro – di cui 390 di “concessioni” ed il resto in prestiti – nonché il bilancio comunitario dal 2021 al 2027, pari a 1074 miliardi. Le misure dovranno essere approvate dai singoli parlamenti nazionali.
Non a torto il Presidente francese Macron ha usato una metafora bellica, definendo i provvedimenti una “arma budgetaria”. In sostanza passa il principio di un “debito comune” che rafforza la governance centralizzata dei processi politico-economici.
È stato altresì definito un principio selettivo che omogenizza il quadro giuridico dei singoli Stati, stabilendo un meccanismo che lega l’attribuzione dei fondi europei al rispetto dello Stato di diritto per gli Stati membri, di fatto vincolandone ancora maggiormente il margine d’azione. Un meccanismo le cui conseguenze vanno bene al di là del contenzioso strumentale contingente con Polonia e Ungheria.
Le altre decisioni, prese sempre la scorsa settimana, che confermano il passaggio di fase a livello di politica economica, riguardano la BCE.
La Banca Centrale Europea ha infatti deciso un aumento (di 500 miliardi) della capacità di acquisto dei titoli di debito dei singoli Stati fino al marzo del 2022, e la continuità delle politiche di sostegno al credito fino all’estate del 2022.
La BCE ne incrementa l’accessibilità permettendo alle banche un -1% sui prestiti loro concessi, e che a loro volta dovranno andare a finanziarie imprese e consumatori, cui verranno imposti tassi d’interesse per la restituzione in una forbice che va dall’1,3% al 1,7%, a seconda che si tratti di consumatori o aziende.
Da marzo la BCE è intervenuta pesantemente nell’acquisto del debito degli Stati, diventandone acquirente per poco più dei due terzi – il 71% per la precisione – similmente a quanto fanno gli altri istituti centrali bancari nel mondo con il debito del proprio Paese. Un po’ meno di quanto avviene in Giappone (75%), ma molto di più degli USA (57%) o della Gran Bretagna (50%).
A conti fatti, la capacità d’intervento della BCE è di 2.400 miliardi, e procede al ritmo attuale di 15 miliardi a settimana, mentre erano 30 a marzo.
Queste scelte sono state una strada obbligata – l’alternativa sarebbe stata il rassegnarsi ad un ruolo marginale e periferico nella competizione globale – di fronte al fatto che l’emergenza pandemica è tutto meno che superata.
Le stime sul calo del PIL nella UE parlano di un -7,3% per quest’anno. La Cina e altri Paesi orientali – dopo avere di fatto sconfitto il virus – sono invece già in forte ripresa, mentre gli USA hanno una situazione disastrosa.
A tali decisioni, in sede UE e BCE, si affiancano le prime timide sanzioni (comunque importanti) alla Turchia per la sua politica nel Mediterraneo Orientale. Oltre a questo, si è deciso l’incremento del taglio alle emissioni di gas serra entro il 2030, che traccia la strada di una “transizione ecologica”, con obiettivo la fine delle emissioni da carbonio entro il 2050.
Le oligarchie europee intendono in realtà puntare all’autonomia energetica, o quantomeno alla minore dipendenza da terzi, e costituirsi come polo innovativo nella ricerca e nella produzione di energia “ecologica”, in netta competizione con la Cina.
Queste scelte si inseriscono in un processo di accelerazione che riguarda il raggiungimento di una autonomia strategica della UE in differenti campi: dal reperimento delle materie prime fondamentali per il “salto” all’elettrico alla produzione industriale tout court, dallo sviluppo dei big data, a quello dell’intelligenza artificiale.
A questo si unisce la necessità di riconfigurare complessivamente le filiere produttive della UE, che durante la pandemia hanno mostrato la loro dipendenza dalla Cina anche in settori strategici (come quello delle attrezzature mediche), con una “re-internalizzazione” di alcune produzioni e un ri-orientamento della propria economia, finora votata all’export.
Poco meno della metà del PIL della UE è stato fin qui dovuto all’esportazione di beni e di servizi. L’UE ha un surplus commerciale importante, che si era prodotto però soprattutto nei Paesi del Nord: più del 10% del Pil dell’Olanda ed il 5,8% della Germania, contro il 2% dell’Italia, per esempio.
Questo significa che, all’interno delle gerarchie politiche della UE, potremmo assistere ad una parziale inversione di tendenza nella “de-industrializzazione”, un processo che – tranne la Repubblica Ceca e la Germania – ha riguardato in differente misura tutti gli Stati dell’Unione: il PIL dovuto alla produzione industriale nei Paesi UE è calato infatti dal 16,8% del 2000 al 14,1% del 2018.
Non stupisce che gli imperativi della concorrenza mondiale abbiano messo a tacere, specie in Germania, le voci critiche “di peso” rispetto al cuore del progetto “neo-carolingio” franco-tedesco.
Sembrano lontani, in Germania, i tempi in cui venne aperto un fuoco di fila contro la proposta del ministro dell’economia tedesco: “una strategia per una politica industriale europea”. Era appena il febbraio del 2018...
Persino il “falco” per eccellenza, Wolfgang Schläuble, ex ministro delle finanze tedesco, si è dovuto arrendere alla realtà: “rafforzare economicamente l’Europa affinché possa affermare le proprie forze di fronte alla concorrenza mondiale”, ha dichiarato tempo fa, mentre la Confindustria tedesca ha preso atto del ruolo della Cina come “concorrente sistemico”.
Tra novembre e dicembre sono stati approvati tre importanti progetti di interesse comune, probabilmente i più rilevanti dopo Airbus, e riguardano: le batterie per l’automotive elettrico, la creazione di un cloud europeo (Gaia-X) e, per ultimo, la creazione della filiera europea dei semi-conduttori.
In tutti in campi si è assistito ad una maggiore definizione del profilo e delle scelte della UE favorevoli alle oligarchie continentali, in competizione con USA e Cina: dall’autonomia finanziaria, che dovrà essere messa in campo dopo la Brexit, alla politica commerciale, fino alla funzione militare. Con il problema di dover raggiungere un difficile bilanciamento tra il conseguimento della propria autonomia strategica e la fedeltà atlantica.
Su questo punto, la NATO andrà ad una veloce verifica nei prossimi anni, ma è chiaro fin da adesso che il possibile risorgere di un asse atlantico si dà solo in funzione anti-cinese, nel quadro di una guerra fredda di nuovo tipo in cui l’UE giocherà un ruolo non marginale.
È chiaro che il rafforzamento organico della UE a tutti i livelli, per provare a diventare un polo imperialista compiuto in gara con Usa e Cina, avverrà a detrimento delle condizioni di vita di grandi porzioni delle classi subalterne, specie dei Paesi della periferia, escluse dal nuovo “patto sociale europeo”.
Le popolazioni che vivono nelle aree in cui la UE proietta i propri interessi, e dove è in corso una lotta al coltello per definire gli assetti politici a venire – dall’Africa al Medio Oriente, ma fino all’Asia Minore, attraverso il Caucaso – sono le “vittime designate” dell’espansionismo europeo.
Per questo occorre attrezzare sin da ora una discussione a tutto campo che rimetta al centro il “mutato” ruolo dell’Unione Europea in questo epocale passaggio di fase.
Bisognerà comprendere quali possono essere gli strumenti di contrasto al corso degli eventi che si prospetta, individuando con precisione le ricadute sul nostro blocco sociale.
Bisognerà prefigurare le possibili alternative concrete alla gabbia costruita da questo blocco di potere, misurandosi con le contraddizioni reali che comunque genera, in termini di conflitto.
Senza fare questo, si rischia l’irrilevanza politica e l’azzeramento di una prospettiva di cambiamento; nel nostro Paese come in tutto il Vecchio Continente.
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