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08/01/2021

Zuckerberg sospende Trump, la censura diventa un affare “privato”

Nel bel mezzo dell’evento di politica interna più eccezionale dell’intera storia della Repubblica statunitense, “Mr. Facebook” Mark Zuckerberg ha deciso di bloccare gli account sulle sue piattaforme social del “suo” Presidente Donald Trump.

“Gli eventi scioccanti delle ultime 24 ore dimostrano che Trump intende utilizzare il resto della permanenza in carica per minare la transizione pacifica e legale del potere al suo successore eletto, Joe Biden.
Crediamo che il pubblico abbia diritto al più ampio accesso possibile ai discorsi politici, anche se controversi. Ma adesso i rischi sono troppo grandi”
.

Queste sono le parole con cui nel pomeriggio di ieri, ora italiana, Zuckerberg ha motivato la sospensione degli account di Trump.

Una prima sospensione era stata decisa per 24 ore, mentre Twitter aveva optato per una di 12, con la parallela rimozione, anche da YouTube, del video in cui “The Donald” chiedeva ai suoi sostenitori di tornare a casa, pur ribadendo l’illegalità (fragilent) della tornata elettorale. In seguito, la sospensione è stata prolungata almeno fino al 20 gennaio, giorno di ingresso e giuramento di Joe Biden alla Casa Bianca.

La decisione rispetto al funzionamento concreto odierno della politica del XXI secolo non è di poco conto. Secondo Edward Snowden infatti questo sarà ricordato “nel bene e nel male come una svolta nella battaglia per il controllo del discorso online”.

Il dato che qui interessa è che il Presidente della nazione a oggi più potente almeno del “mondo occidentale” è stato censurato in un passaggio estremamente delicato per il paese da un privato, seppur un imprenditore tra i più ricchi del pianeta.

La censura all’interno di un’organizzazione statuale è sempre stata appannaggio del potere più o meno pubblicamente costituito, che tramite gli strumenti dello Stato oscurava gli elementi che giudicava contrari alla propria funzione.

In questo caso invece il ruolo assunto dai social network nell’arena del dibattito pubblico, così come nella messa in connessione di individui sempre più atomizzati al livello di massa, concede un potere a quelle “organizzazioni private” che parallelamente si ergono anche a poteri economici ben più grandi di molti Stati esistenti in giro per il mondo.

A sostegno di ciò, basterebbe ricordare come Recep Erdoğan nella sera del 15 luglio del 2016 riuscì ad inviare un messaggio tramite la piattaforma Facetime, chiedendo alla sua gente di scendere in strada per respingere il tentativo di colpo di stato, aggirando il blocco delle maggiori piattaforme a cui pure i golpisti avevano pensato.

E se televisioni e giornali nella maggior parte dei casi rispondono a interessi non immediatamente pubblici, pur svolgendo una funzione tale, a nostra memoria nelle democrazie liberali mai era successo che un capo di Stato fosse stato censurato nello svolgimento delle proprie funzioni – seppur giudicate come potenzialmente antisistemiche.

La privatizzazione della censura pone inoltre un accento sul reale status democratico della rete, che tale in verità non è mai stata, essendo, dalle infrastrutture ai software, uno strumento che di pubblico ha ben poco.

E così, a uscire ulteriormente indebolito è il ruolo dello Stato, già fortemente occupato da interessi privatistici e particolari nei due secoli di democrazie liberali, eppure stavolta scavalcato da coloro a cui storicamente, in questo pezzo di mondo, ha curato gli interessi.

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