Circolano informazioni contrastanti ma non sorprendenti sul piano economico e sociale. Da un lato cresce positivamente l’indice della produzione manifatturiera nell’Eurozona (ed anche in Italia). Dall’altro chiudono centinaia di attività commerciali e della ristorazione. Infine crescono esponenzialmente i disoccupati e chi perde il lavoro.
Come leggere, mettendole insieme, queste informazioni? Volendo fare una sintesi potremmo dire che il sistema economico dominante, basato sulla supremazia del mercato e quindi della concorrenza e della competitività, sta operando una selezione brutale e fisiologica.
Nella crisi le attività economiche più piccole e deboli soccombono, quelle più forti sopravvivono ed anzi crescono. Ma se la selezione appare connaturata al sistema, le dimensioni dei processi – per la loro sincronia con una pandemia/sindemia – somigliano sempre di più all’eugenetica che alle conseguenze di un ciclo economico sfortunato.
Andiamo per ordine. Secondo quanto rilevato dall’indice Ihs Markit nel settore manifatturiero, nel mese di gennaio, prosegue la ripresa in tutti i paesi dell’Eurozona, ad eccezione della Spagna che si porta sotto quota 50 punti, la soglia di delimitazione tra espansione e contrazione del ciclo. È positivo anche il dato italiano, con l’indice Pmi che sale ai massimi da marzo del 2020 (inizio dei periodi di lockdown).
La crescita dell’economia manifatturiera della zona euro, spiega Ihs Markit, “è rimasta resiliente all’inizio del 2021, con il settore in espansione per il settimo mese consecutivo e di nuovo a un ritmo marcato“.
L’indice Pmi registra 54,8, in lieve calo rispetto a 55,2 di dicembre e poco diverso rispetto alla precedente lettura flash (54,7), ma il dato di gennaio è il più alto dagli ultimi due anni e mezzo.
Secondo Ihs Markit, “il miglioramento delle condizioni operative visto presso i produttori di beni di consumo è stato marginale in mezzo a un calo dei nuovi ordini. Al contrario, marcati tassi di espansione hanno continuato ad essere registrati sia nel settore dei beni intermedi sia in quelli di investimento”.
In Italia l’indice Pmi manifatturiero sale a 55,1 punti a gennaio dai 52,8 di dicembre e oltre le stime che prevedevano un calo a 52,4 punti.
“La carenza di materiale e i maggiori costi del trasporto – afferma Lewis Cooper, capo economista di Ihs Markit – hanno spinto il tasso di inflazione dei prezzi di acquisto al livello massimo in quasi quattro anni, anche se, grazie in parte al forte aumento della domanda, le aziende sono state in grado di alleviare la pressione sui margini aumentando i prezzi medi di vendita. A gennaio, le aziende manifatturiere sono rimaste ottimiste sull’aumento della produzione dell’anno prossimo, e senza ombra di dubbio a inizio 2021 il settore manifatturiero è rimasto in buona forma, riprendendosi sempre più nonostante le restrizioni da ‘zona rossa’ in alcune parti della nazione”.
Insomma sono dati che stridono con le eterne lamentele dei piagnoni – e paraculi – di Confindustria.
Eppure secondo l’Istat, a dicembre gli occupati sono diminuiti di 101.000 unità: 99.000 sono donne e appena 2.000 sono uomini. Nei dodici mesi del 2020, il saldo negativo è stato di ben 444.000 unità ed è composto da 312.000 donne e 132.000 uomini che hanno perso il lavoro, mentre il tasso di disoccupazione è salito al 9,0% (+0,2 punti) a dicembre.
La diminuzione dell’occupazione (-0,4% rispetto a novembre) coinvolge, oltre alle donne, i lavoratori dipendenti e autonomi e caratterizza tutte le classi d’età, con l’unica eccezione degli ultracinquantenni che vanno in controtendenza.
Ed è ancora in vigore il blocco dei licenziamenti, figuriamoci quando anche questo scudo verrà eliminato.
Infine, secondo l’Ufficio Studi della Confcommercio, l’effetto combinato del Covid e del crollo dei consumi ha spinto alla chiusura oltre 390.000 imprese del commercio non alimentare e dei servizi di mercato nel 2020, fenomeno non compensato dalle 85.000 nuove aperture.
Pertanto la riduzione del tessuto economico nei settori considerati ammonterebbe a quasi 305.000 imprese (-11,3%), di queste, 240.000 esclusivamente a causa della pandemia e delle misure anti-pandemiche.
Se si prova a leggere l’insieme di queste informazioni, spesso fornite in modo scollegato tra loro, si intuisce che il sistema economico dominante – quello appunto fondato sulla c.d mano invisibile del mercato e su leggi conseguenti a questa – ha utilizzato la recessione prima e la crisi pandemica poi, per operare una brutale selezione nel mondo delle imprese.
Ha cioè colpito in profondità quella polverizzazione produttiva che viene ritenuta – sì – caratteristica del “modello italiano”, ma anche un intralcio ad una modernizzazione capitalistica che allinei l’Italia agli altri paesi forti europei; dove, ad esempio, il lavoro autonomo presenta numeri alti, ma molto più limitati che nel nostro paese, e le attività economiche sono molto più concentrate (dal manifatturiero alla distribuzione).
Insomma i gruppi capitalistici più grandi stanno cogliendo l’occasione per fare selezione e cercare di sincronizzarsi a livello più alto dell’integrazione possibile, oggi quello europeo. Chi non regge il passo... muore, sia economicamente sia fisicamente.
Esattamente come ha detto il presidente della Confindustria di Macerata e non solo, svelando involontariamente (?) quello che pensano effettivamente i prenditori oggi al comando del sistema economico nel nostro paese.
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