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08/02/2021

Chi legge il “nuovo ordine” con gli occhiali vecchi diventa cieco

Guardando al comportamento dei media e dei giornalisti “prime firme” in questi giorni, l’impressione è sconfortante. Sono passati nell’arco di poche ore dalla critica acuta – più spesso “a prescindere” – dell’ex governo e di tutte le forze politiche, all’adorazione assoluta del nuovo Re Sole.

L’analisi dei fatti è scomparsa – e del resto ancora non è stato fatto nulla, neppure la lista dei ministri – e quindi si specula. Intanto sul programma, complici le solite “veline” parziali che però, stavolta, difficilmente possono venire dall’entourage stretto del Presidente Incaricato.

Alcuni titoli di prima pagina sono da incorniciare: “Salvini innamorato di Draghi viene elogiato dalla gente. Riceve complimenti al supermercato” (Libero), “Draghi. Programma di coesione sociale” (Repubblica, come se sia mai esistito un governo che si presentava promettendo disgregazione sociale), “Il Pd non mette veti sulla Lega” (Corriere della Sera), “Draghi non si faccia fregare” (Il Tempo), “Pazzi per Draghi” (Il Foglio), “Nell’agenda Draghi le partite Iva in crisi; redditi in picchiata e caccia ai ristori” (IlSole24Ore), tanto da far risultare almeno serio il funereo “La fine del posto di lavoro” (ItaliaOggi).

Ma la speculazione giornalistica fa fatica a superare i trent'anni di abitudine a una “politica” fatta di chiacchiericcio, gossip, “indiscrezioni” strappate a portavoce dei portavoce o portaborse di bassa lega.

In quel mondo – finito martedì 2 febbraio con l’incarico a Mario Draghi – tutto era teoricamente possibile e nulla poteva praticamente cambiare, perché ogni “evento” era il risultato di un intreccio di aspirazioni e veti di basso livello, storie tra amanti abbastanza smagati. Le “grandi questioni” erano relegate alla retorica elettorale e dunque alla pura propaganda spicciola. Le “destre” diventavano un pericolo mortale solo nei giorni precedenti un’elezione (a qualsiasi livello), “le sinistre” altrettanto.

Un gioco sistematicamente a somma zero in cui appunto il massimo dell’interesse era nel sapere/indovinare “chi fa le scarpe a chi”, nel “retroscenismo” malattia senile del giornalismo parlamentare.

La difficoltà ad uscire da quella logica è visibile sia nelle contorsioni degli stessi giornalisti nei talk show, ma anche nelle analisi più serie. Si ragiona come se Mario Draghi fosse stato – o sì sia – scomodato per continuare a tener vivo il vecchio gioco da cortile.

Facciamo un esempio concreto: “il perimetro della coalizione”. Ovvero: chi garantisce i voti al governo?

Tutti – tutti – continuano a descrivere la situazione con i meccanismi della “seconda repubblica”, quando bisognava costruire una maggioranza parlamentare con i frammenti (anche individuali) di partiti o coalizioni diversamente schierate nelle le elezioni. E dove, dunque, era inevitabile lo scambio tra sostegno e poltrone: il tuo gruppo parlamentare mi garantisce i voti e io ti assegno tot ministri e sottosegretari.

Quando poi, per motivi di “programma” o per ambizioni particolari, l’accordo saltava, c’era la crisi di governo e si ricominciava da capo.

Ecco, una cosa ci sentiamo di dire con una certa sicurezza: quel gioco è finito. Pochi lo hanno evidenziato, ma non appena Zingretti ha provato a sollevare obbiezione sull’eventuale presenza della Lega nella “coalizione”, Draghi lo ha zittito con un istituzionale ma violentissimo “La sintesi la faccio io”.

E quindi “w la Lega che è diventata europeista ed è venuta sulle nostre posizioni” è diventato il mantra del Pd per digerire il rospo.

La differenza col passato, in altri termini, sta nel fatto che d’ora in poi non ci sarà più da costruire una coalizione che si metta d’accordo su programma e poltrone (tenendo ovviamente presente, ma entro certi flessibili limiti, il “vincolo esterno” dell’Unione Europea) in un’arena in cui ognuno può esercitare il suo potere di condizionamento e ricatto.

Ora il programma c’è, ha origine e respiro sovranazionale, e Draghi è uno di quelli che lo ha scritto. E non da ora (rileggetevi la lettera firmata insieme a Jean-Claude Trichet, che nel 2011 mise fine ai governi Berlusconi).

Arriva a sancire il fallimento di un’intera classe dirigente, ma soprattutto di quella “politica”. Non ha alternative, né credibili né incredibili. Non ha perciò avversari, in quella corte di miracolati.

Leggere o ascoltare pensosi “analisti” che si chiedono “se avrà i voti in Parlamento”, oppure se una coalizione “troppo larga e disomogenea” non finirà per imbavagliarlo, oppure ancora “se dovrà venire a patti” e come per la compilazione della lista dei ministri, è esercizio che sfiora il masochismo: o non capiscono davvero un tubo (ipotesi da non escludere), oppure mentono per tenere sotto traccia la portata epocale dell’operazione in corso.

Quando poi gli stessi “analisti” sono tutti – tutti – d’accordo nell’indicare lo stesso Draghi come prossimo presidente della Repubblica (tra un anno esatto, alla fine del mandato di Mattarella) è chiaro che è vera la seconda ipotesi.

Un’operazione complessa come la ristrutturazione del sistema-Italia in combinazione con l’analoga ristrutturazione dell’intero sistema-Europa non è cosa che si possa materialmente fare nel giro di pochi mesi (e nemmeno nei due anni che mancano alla fine di questa legislatura).

Occorre dunque piantare un robusto pilastro indiscutibile intorno a cui far ruotare il complesso di decisioni politiche, finanziarie, di bilancio, legislative, costituzionali, che andranno prese nel prossimo decennio. Un lasso di tempo in cui selezionare e far crescere anche una nuova classe politica meno improvvisata.

Un anno a Palazzo Chigi e sette al Quirinale, con una funzione non certo notarile o di “custode della Costituzione”, sono un tempo congruo per tentare l’operazione con una qualche prospettiva di successo.

Crisi sistemica, tensioni internazionali, emergenze epidemiche ed ambientali permettendo... Ma è a quel livello che l’operazione può trovare ostacoli seri (dato che per il momento non si vedono movimenti di classe all’altezza della sfida).

Dunque, tornando ai nostri fini scrutatori della “politica parlamentare”, che altro mai possono fare quelle congreghe di disperati buoni a nulla che si ostinano a chiamare “classe politica”? Che alternative hanno al votare qualsiasi cosa faccia un governo da cui saranno con tutta probabilità materialmente estromessi o comunque fuori dai ministeri “strategici”?

Nessuna.

La portata del repulisti sarà analoga a quella avvenuta 30 anni fa, col passaggio dalla prima alla seconda repubblica. Per chi non dovesse capire, c’è una magistratura che ha già aperti una valanga di dossier. E c’è poi sempre la via dello sputtanamento feroce, tipo europarlamentare ungherese appeso alla canna fumaria...

Ma non ci sono audaci caballeros in quella schiera. Né capipopolo pronti a salire sulle barricate. I settori sociali di cui sono espressione (capitale finanziario, grande impresa con proiezione multinazionale, piccola e media impresa a vocazione nazionale, professioni, commercio, ristorazione, ecc.) non hanno progetti alternativi. Le grandi imprese e la finanza sono il mondo che ha selezionato Draghi; i settori più piccoli e deboli possono solo sperare di trovare un anfratto, nella maxi-ristrutturazione, in cui riciclarsi e sopravvivere.

Lo si vede dal comportamento di Confindustria, improvvisamente silente. Fin qui un Bonomi poteva maramaldeggiare quotidianamente, perculando i “Giuseppi” Conte e i Bonafede. Ora rischierebbe molto al solo apri bocca per esprimere un desiderio.

Chi legge il “nuovo ordine” con gli occhiali vecchi diventa cieco.

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