Il cosiddetto Recovery Fund è il Convitato di pietra della crisi di governo, come scusa di litigio o oggetto di appetito politico. La sua importanza è solo relativa, date le sue ridotte dimensioni finanziarie, la sua tempistica inadeguata, l’impronta europea sui contenuti ben lontana da una organica politica industriale per il continente, i contenuti sociali sospesi fra ipocrisia, demagogia e velleità. Il Recovery Fund appare così inadeguato sia come sostegno alla domanda aggregata che alla capacità industriale italiana (ed europea). Avanzeremo qui alcune osservazioni sul documento del governo italiano (Piano di Ripresa e Resilienza dell’Italia, PNRR – 12 gennaio 2021) [1] ricordando che Il Piano dovrà essere presentato in via ufficiale entro il 30 aprile 2021.
1. Assenza di analisi a monte e a valle
I mali dell’economia italiana vengono da lontano.[2] Il miracolo economico degli anni cinquanta e sessanta non risolse le problematiche storiche del Paese: in senso spaziale essendo stato concentrato nel nord-ovest, con successive estensioni nel nord est e, temporaneamente, nella fascia nord adriatica; in senso occupazionale in quanto la limitata industrializzazione non ha assalito le sacche di disoccupazione meridionale, femminile, giovanile, e la sottoccupazione nel terziario parassitario; in senso tecnologico mancando negli anni settanta-ottanta il salto dalle produzioni meccaniche a quelle elettroniche; sul piano sociale facendo mancare un moderno riformismo verso le classi lavoratrici, a favore dell’inclusione clientelare. Dalla fine degli anni sessanta, il mancato riformismo e lo iato fra le aspettative di consumo e l’insufficienza della torta da spartire ha esacerbato il conflitto sociale fra capitale, lavoro e i topi nel formaggio, con una ricaduta su un uso inefficiente della spesa pubblica e la tolleranza dell’evasione fiscale.
Dalla fine degli anni settanta, la ricerca di una stabilizzazione di questo conflitto attraverso un regime di cambi fissi se ne ha, da un lato, determinato il relativo assopimento, ha dall’altro condotto all’esplosione del debito pubblico e alla rinuncia a un tasso di cambio competitivo. La perenne austerità fiscale dal 1992, oltre che al frettoloso smantellamento dell’industria pubblica, hanno completato l’opera sia dal lato della domanda aggregata, deprimendo investimenti e crescita della produttività, sia da quello dell’offerta con la rinuncia a una politica industriale pro-active (a fronte dell’incalzante concorrenza dai Paesi emergenti).[3]
Il Next Generation EU, o Recovery Fund (RF) come lo chiameremo qui viene ambiziosamente presentato come un’occasione di rigenerazione dell’intera economia italiana. A leggere il citato documento del governo (PNRR) la prima cosa che si nota è l’assenza di qualsivoglia analisi di cosa non ha funzionato negli scorsi decenni. Tranne alcuni – pochi – punti pregevoli, il documento è pieno di retorica, condita dal politically correct (inclusione sociale, problemi di genere e quant’altro) e privo di un disegno di ciò a cui il RF dovrebbe essere dedicato: un disegno di politica industriale (in senso ampio). Se risulta infatti da un lato chiaro che senza una ripresa della domanda interna ed europea, e un tasso di cambio dell’euro non penalizzante, non vi sarà ripresa degli investimenti, dall’altro è importante uno sforzo del Paese dal lato dell’offerta verso una modernizzazione industriale. (Ça va sans dire che quando parliamo di industria non ci riferiamo al solo manifatturiero, ma anche a servizi e settore primario, ma l’industria in senso stretto è comunque in cima alle filiere). Ma al riguardo il documento non solo non presenta alcuna analisi macroeconomica, ma neppure strutturale dell’economia italiana, sì da mostrane i punti di forza (da valorizzare) e di debolezza (da rimediare, se utile e possibile). Un tempo questa analisi sarebbe stata basata sulle tavole delle interdipendenze settoriali (o input-output), oppure su un’analisi della bilancia commerciale, oppure sarebbe servita per ricavarne spunti di programmazione. Forse si sarebbe pensato a progettare quali sarebbero stati i settori del futuro e dove il Paese avrebbe potuto valorizzare o recuperare prospettive di crescita. Nulla di tutto ciò è presente, c’è il vuoto.[4]
Temiamo che vi sia qui anche una gravissima responsabilità degli studi economici che, sparita la generazione dei grandi economisti del secondo dopoguerra, hanno perso gran parte di queste capacità analitiche e persino interesse per queste tematiche, nell’illusione che tutto il problema economico si risolva nel liberare le forze di mercato, quanto neppure il teorico dei lacci e lacciuoli si sarebbe probabilmente sognato di ritenere. Coerentemente, dagli anni ottanta la politica industriale ha rinunciato all’idea di politiche (verticali) pro-active di sviluppo di nuovi settori a favore di politiche (orizzontali) volte a creare un ambiente favorevole agli investimenti e che favorisca le imprese a seguire i loro istinti di mercato. Ma persino queste politiche, nell’impostazione europea fatta propria dal governo italiano, risultano aria fritta.
2. Ce lo chiede l’Europa
Potrebbe essere obiettato che il documento italiano si muove lungo le direttrici decise dagli accordi europei, e questo è vero (ma perché non ci si è opposti?). Come spiega un dossier del Parlamento italiano del 25 gennaio, per l’UE:
Il 21 dicembre 2020 la Commissione europea ha pubblicato dei modelli di orientamento settoriali, che potranno essere aggiornati, per assistere gli Stati membri nell’elaborazione dei Piani in conformità delle norme in materia di aiuti di Stato. Il piano dovrà in particolare: spiegare come rappresenti una risposta globale e adeguatamente equilibrata alla situazione economica e sociale dello Stato membro e dettagliare i progetti, le misure e le riforme previste nelle seguenti aree di intervento riconducibili a sei pilastri: 1) transizione verde; 2) trasformazione digitale; 3) crescita intelligente, sostenibile e inclusiva, compresi coesione economica, occupazione, produttività, competitività, ricerca, sviluppo e innovazione e un mercato unico ben funzionante con PMI forti; 4) coesione sociale e territoriale; 5) salute e resilienza economica, sociale e istituzionale, anche al fine di aumentare la capacità di reazione e la preparazione alle crisi; 6) politiche per la prossima generazione, infanzia e gioventù, incluse istruzione e competenze.[5]
Come si vede siamo in piena retorica, e comunque gli obiettivi di politica industriale ecologicamente sostenibile che dovrebbero essere centrali per l’Europa e i singoli Paesi sono confusi in mezzo a presunti obiettivi sociali. Questo suona molto ipocrita in quanto l‘UE non ha obiettivi sociali se non nella retorica, come si vede dall’assenza nei propri statuti degli obiettivi di piena occupazione e perequazione regionale nei diritti sociali, alla luce delle feroci politiche di austerità adottate nello scorso decennio in alcuni Paesi, e alla incessante richiesta di riforme del mercato del lavoro (volte a smantellare l’inclusione) che fa capolino anche in questo frangente.
Il progetto europeo è dunque ben lontano dal prefigurare una politica industriale europea e tanto meno dal suggerirne l’adozione a livello nazionale. Gli indirizzi suggeriti sono molto confusi tanto da poterli ritenere inutili dal lato della domanda aggregata e del sostegno sociale, too little e too late per essere efficaci; e inutili dal lato dell’offerta in quanto non si vede come questa possa accrescersi e modernizzarsi senza indirizzi ben precisi e finalizzati allo sviluppo industriale sostenibile e diffuso su tutti i territori dell’Unione. Ma, come mi ha fatto osservare Riccardo Achilli, a nessuno in Europa interessa che l’Italia torni a essere un competitor industriale pericoloso.
La velleità sostanziale del piano appare tanto più pericolosa in quanto alla sua implementazione si accompagnano minacce neppure tanto velate circa il rispetto atteso dei vincoli fiscali europei. Leggiamo al riguardo nel dossier parlamentare che l’UE impone ai piani nazionali la coerenza
con le sfide e le priorità specifiche per Paese individuate nel contesto del Semestre europeo, e segnatamente nelle raccomandazioni specifiche per Paese e nella raccomandazione del Consiglio sulla politica economica della zona Euro (per gli Stati membri la cui moneta è l’euro).
Precisando poi che:
Se, invece, la Commissione stabilisce che i target intermedi e finali non sono stati rispettati in modo soddisfacente, il pagamento di tutto o parte del contributo finanziario può essere sospeso. Lo Stato membro interessato può presentare le sue osservazioni entro un mese dalla comunicazione della valutazione della Commissione. Come già previsto nell’accordo raggiunto in sede di Consiglio europeo a luglio, l’accordo provvisorio disciplina misure per collegare il dispositivo a una sana governance macroeconomica (cd. Condizionalità macroeconomica). Tali meccanismi, che sono allineati alle norme comuni sui fondi strutturali, prevedono che la Commissione proponga al Consiglio una sospensione, totale o parziale, degli impegni o dei pagamenti qualora uno Stato non abbia adottato misure efficaci per correggere il disavanzo eccessivo, a meno che non sia stato determinato da una grave recessione economica per l’Unione nel suo insieme.
Non entreremo qui nel merito del finanziamento del PNRR, che ha fonti aggiuntive rispetto al NGEU, né dell’impatto macroeconomico che sconta il fatto per cui una parte cospicua delle spese siano sostitutive e non aggiuntive di investimenti pubblici già previsti (il che ne limita drammaticamente l’impatto sulla domanda aggregata e da ultimo sugli investimenti privati).[6] Il box riporta informazioni tratte dal PNRR che possono essere utili al lettore per farsi un’idea.
Nel complesso si tratta di risorse molto limitate, spalmate su più anni e con effetti altrettanto limitati. Si ricorda naturalmente al lettore che la quota maggiore dei fondi europei di cui parliamo consiste di prestiti, per quanto a lungo termine.[8] Ci si domanda così se il Paese non si stia cacciando in una trappola non meno pericolosa di quella che molti paventano nei riguardi del MES, indebitandosi con l’Europa senza un uso efficace dei fondi. Ciò detto, crediamo che un Paese autorevole possa ben andare oltre la retorica pseudo-sociale europea e valorizzare queste risorse in un piano concreto volto a obiettivi industriali ecologicamente sostenibili, senza trascurare le ricadute sociali che un’industria moderna e competitiva può e deve avere.[9]
Anche in conseguenza dell’indirizzo europeo, non v’è dunque nel documento nessuna analisi puntuale dell’industria italiana mentre dilaga una retorica genericità. Naturalmente il disinteresse per l’industria avrà anche le sue ragioni clientelari più interessate ai sussidi a pioggia verso le proprie constituency. Questo interessa tuttavia i politologi, a noi il compito di esaminare con un maggiore dettaglio le proposte, o presunte tali.
3. Il piano, quale piano?
Seguendo pedissequamente le linee europee, il progetto governativo individua tre assi strategici – digitalizzazione e innovazione, transizione ecologica e inclusione sociale – e tre priorità trasversali: donne, giovani, sud. Il documento si piega dunque alla vaghezza pseudo-sociale della Commissione europea senza andare ai problemi di fondo che riguardano la sopravvivenza economica del Paese (e della stessa Europa peraltro) in un mondo che ci sopravanza tecnologicamente, essendo stati sciaguratamente trascinati in un’unione monetaria che ci priva degli strumenti macro – dovendo noi confidare nella bontà della BCE per non schiantare – e anche microeconomici con i divieti a politiche industriali pro-active. A scanso di equivoci, l’inclusione sociale andrebbe urgentemente affrontata in sede europea discutendo senza retorica i problemi distributivi e la reintroduzione dei diritti nel mercato del lavoro, smantellati proprio col sostegno europeo. Obiettivi sociali come l’istruzione e la formazione, l’aumento dei tassi di attività femminili e giovanili anche attraverso una modernizzazione del mercato del lavoro e del collocamento sono fondamentali (anzi vere emergenze), ma andrebbero collocati nel PNRR in un’ottica funzionale allo sviluppo del Paese. Qui si fa l’Italia o si muore, verrebbe da dire. Andrebbe peraltro premessa un’analisi spassionata del perché istruzione scolastica, formazione professionale e collocamento funzionino male, e risulti da anni impossibile riformarli per responsabilità a cui nessuno nel Paese probabilmente sfugge.
Il progetto governativo individua sei obiettivi generali e 48 Linee di intervento. Gli obiettivi sono:
- Digitalizzazione, innovazione, competitività e cultura;
- Rivoluzione verde e transizione ecologica;
- Infrastrutture per una mobilità sostenibile;
- Istruzione e ricerca;
- Inclusione e coesione;
- Salute.
È subito evidente l’estraneità di molti di questi obiettivi alla politica industriale la quale ultima è dispersa qui è lì in un mix di obiettivi socio-ecologici ed economico-industriali.
4. I sei obiettivi, fra borghi storici, terzo settore e piste ciclabili
Il dettaglio dei sei obiettivi non è facile da sintetizzare data l’assenza di una chiave sistematico-industriale sostituita da una disordinata lista di obiettivi: dalle piste ciclabili, ai borghi storici, allo sport, alle immancabili periferie, alla prospettiva di genere e verde. I miei commenti non hanno più valore di quelli di Italia Viva.[10] D’altronde una ricognizione andava fatta, ma quello che conta di più è il giudizio di fondo offerto nelle conclusioni.
- Digitalizzazione, innovazione, competitività e cultura
Nulla da eccepire sull’obiettivo di accrescere l’efficienza della PA. Poco si dice su come si fa a cambiare mentalità a dirigenti e impiegati pubblici che provengono da culture e formazione poco sensibili all’efficienza (e spesso al dovere pubblico), e sull’ostacolo che il malaffare pone alla semplificazione delle procedure. Riformare i sedimenti culturali è difficile, c’è solo da sperare nell’immissione di nuove generazioni (in cui anche le mafie investono), tecnologie, formazione e semplificazione. Si rilevano le pagine e pagine dedicate alla riforma della giustizia che avrebbero trovato più degno posto altrove, quasi a testimoniare anche fra gli estensori del rapporto la prevalenza di un certo tipo di formazione.
Con riguardo al sistema produttivo, oltre alle lodi alle magnifiche sorti e progressive del 5G e tecnologie satellitari – di cui non si quantificano naturalmente né l’apporto dell’industria italiana alle tecnologie 4.0, né piani di sviluppo e import-substitution – si accenna anche allo sviluppo di “filiere” (p. 42 e p. 59) “al fine di migliorarne il posizionamento nelle catene del valore europee e globali e di ridurre la dipendenza da Paesi terzi” (p. 59). Addirittura si scende a definire un settore industriale specifico da sostenere: i microprocessori. Sforzo lodevole in un piano in cui il Made in Italy e i borghi storici costituiscono la frontiera tecnologica. Peccato che alle non meglio precisate filiere e ai chips vada la miseria, rispettivamente, di 2 e 0,75 miliardi.
Così non si parla di quali saranno i settori più promettenti del futuro, quelli dove il Paese non può rinunciare ad essere presente. Né si pensa a utilizzare quello che rimane dell’industria pubblica per impiegarlo a entrare in sinergia con eventuali risorse private e della ricerca pubblica, o con collaborazioni internazionali, in settori nuovi. Una nuova IRI, peraltro bandita dalla liberista Europa? Si può viaggiare più low profile, abilmente aggirando i veti europei, magari usando nomi alla moda come start up. Manca un collegamento con l’obiettivo 4 (Istruzione e ricerca). Sarebbe invece importante modulare settori tecnologici dove il Paese potrebbe avere capacità e necessità di entrare incentivando la formazione di imprese, e settori che è bene che la ricerca comunque presidi perché più proiettati nel futuro. E manca, non dovrei essere io a dirlo, una prospettiva europea, di sinergie con analoghe iniziative europee.[11]
E così nel capitolo sulla competitività della PA e del settore produttivo ci troviamo invece a parlare di turismo e cultura. Nulla di male se questo non fosse un bearsi sulle italiche “eccellenze” e invece fosse freddamente trattato come un settore specifico, e si fosse anzi ampliato il discorso su un’altra arretratezza italiana che è il settore dei servizi e del terziario (inclusi i professionisti). Ma meglio cullarci coi borghi storici e il parmigiano.[12]
2. Rivoluzione verde e transizione ecologica
Ce lo chiede l’Europa, ma soprattutto il futuro, di investire nel verde. Nel capitolo l’economia circolare e l’idrogeno la fanno da padroni, peccato però che al sostegno delle “filiere” dell’idrogeno e delle “rinnovabili” si destini la solita miseria, 2,36 miliardi (18,51 miliardi vanno al noto superbonus 110%). Manca il coordinamento con gli obiettivi 1 e 4 (dove si concentrano le misure più industriali). Soprattutto, come mi fa notare Aldo Barba, i finanziamenti per le rinnovabili sono stati spesso fonte di spreco e hanno alimentato comportamenti predatori in alcuni casi scandalosi. Il punto dietro tutto ciò è la fiducia fideistica nella politica industriale non attuata direttamente dall’impresa pubblica, ma da quella privata attraverso incentivi fiscali, appalti pubblici, finanziamenti agevolati, etc.
Ci sono poi risorse su mobilità sostenibile e sistemi idrici (incluso il dissesto idrogeologico). Tutto fondamentale, ma è la relazione con la crescita e l’indotto industriale nazionale che manca. Ma i contesti territoriali, se più efficienti, non possono che esser fattore positivo, per cui ben vengano.
3. Infrastrutture per una mobilità sostenibile
Risorse impiegate nella Missione
La “mobilità sostenibile” ha anche un capitolo a sé, in gran parte coincidente con l’alta velocità e strade. Ben venga anche questa voce, specie in quanto i treni sappiamo fabbricarli (anche se abbiamo pericolosamente svenduto le fabbriche allo straniero). Forse si dovrebbe capire se le infrastrutture vanno dove c’è più probabilità di creare sviluppo. E un po’ di soldi vanno alla logistica (in particolare al sistema portuale), e ciò ben venga.
4. Istruzione e ricerca
Tutto ciò che si fa per istruzione e ricerca è ovviamente benvenuto. Ci sono in questa parte, naturalmente confuse in una sequela di provvedimenti, alcuni dei quali dovrebbero costituire la normalità e non l’intervento straordinario, misure interessanti volte ad esempio alla formazione accademica continua, e si presume obbligatoria per gli insegnanti di scuola, e sulla necessità di rafforzare i percorsi industriali e professionalizzanti; o iniziative per costituire ecosistemi innovativi a livello locale. Si parla al riguardo di finanziare “la creazione di 7 centri attivi in altrettanti domini tecnologici di frontiera attraverso il rafforzamento della dotazione di infrastrutture di ricerca e di personale altamente qualificato”.[13] Ci si domanda perché queste ultime iniziative non siano inserite in un più complessivo disegno di politica industriale che associ le vocazioni esistenti alla necessità di avviare settori e tecnologie nuove. Le risorse assegnate ai sistemi locali di ReS e ai centri di frontiera è naturalmente esiguo: 2, 9 miliardi.
5. Inclusione e coesione
Il Paese certamente necessiterebbe di politiche del lavoro degne di questo nome, volte alla formazione e aggiornamento. L’esperienza dei navigator (disoccupati poco qualificati temporaneamente posti a guidare loro colleghi a trovare quello che loro stesi erano incapaci di trovare) rende poco promettente l’impegno in questa direzione. Stante il fatto che i posti di lavoro non si creano con le politiche del lavoro ma solo col sostegno della domanda aggregata. Solo subordinatamente il mismatch territoriale e di qualificazione è infatti il problema, e comunque va anche affrontato assieme alla politica salariale e dei diritti rimuovendo gli ostacoli reddituali alla mobilità regionale. Formare i formatori e i collocatori è comunque un bottleneck, e senza un impegno della parte imprenditoriale in un sistema che si avvicini a quello tedesco poco c’è da sperare.
Sugli obiettivi relativi a famiglie, comunità e terzo settore e coesione territoriale mi taccio, in assenza di un collegamento ben chiaro con la competitività industriale, la sola a poter assicurare la loro realizzazione. Peraltro il problema demografico e quello del Mezzogiorno richiederebbero capitoli a parte.
6. Salute
Discorso analogo va fatto per la sanità che rientra in un quadro di politica industriale solo in connessione con l’indotto industriale, che nel Paese c’è e va sviluppato in relazione anche alle esigenze di modernizzazione sanitaria, ma di questo non v’è traccia nel documento. Un’Europa veramente solidale avrebbe prontamente predisposto l’emissione di eurobond a scopo sanitario senza le trappole fiscali del MES o del NGEU.
5. Considerazioni finali
La prima considerazione riguarda la filosofia di fondo del RF-NGEU-PNRR costruita attorno alla consueta visione degli interventi dal lato del potenziamento della competitività dell’offerta senza il necessario sostegno alla domanda aggregata.
La seconda considerazione è che anche solo misurandolo dal lato della supply side economics, il piano è troppo piccolo finanziariamente ed eccessivamente diversificato in miriadi di interventi diversi e slegati fra loro, frutto più dell’ascolto di specifiche lobby che di una logica di insieme, per cui anche sul piano del potenziamento della competitività esso è enormemente insufficiente. Salta infatti agli occhi la commistione nel PNRR di obiettivi sociali e industriali. Se l’UE intende perseguire obiettivi sociali, nel breve termine in relazione alla pandemia, e nel lungo termine come perequazione degli standard sociali, lo faccia con misure apposite che non sono l’indebitamento dei Paesi più bisognosi, bensì trasferimenti fiscali fra Paesi o l’emissione di eurobond. La solidarietà europea è al riguardo del tutto pelosa, come testimonia la mera esistenza del MES sanitario: come se il FMI si mettesse a elargire prestiti sanitari. Naturalmente i Paesi europei più benestanti non ne vogliono sapere, e a buon diritto perché la solidarietà non si impone, e presuppone sentimenti politico sociali che in Europa non esistono se non debolmente (l’Europa non è una nazione, gli Stati Uniti sono invece una nazione plurietnica). I fini sociali del MES o del NGEU subordinati a vincoli fiscali ineludibili assomigliano molto a una trappola: un invito a spendere per fare i conti dopo, demolendo magari ciò su cui si è investito. Per la parte di politica industriale la combinazione di sussidi e prestiti a lungo termine è invece più accettabile.
Tuttavia, la terza considerazione riguarda il disegno di politica industriale che è assente sia a livello europeo che nazionale. Riferendoci al PNRR, tale disegno è a dir poco vago attorno a obiettivi generici (digitale e verde), mentre i legami fra gli obiettivi e le ricadute sull’industria nazionale non sono precisati. In verità sarebbe poi opportuno parlare di obiettivi industriali europei invece che nazionali. Ma una politica industriale europea volta alla competitività nei mercati mondiali e alla diffusione dell’industria nell’insieme dell’Unione è assente, prevalendo anche in questo settore le convenienze nazionali (o franco-tedesche), pubbliche e private – su cui c’è poco da lamentarsi alla luce delle considerazioni di poco sopra.
Per quanto riguarda l’Italia, la cultura liberista dei partiti (di sinistra e di destra) e dei loro consiglieri economici ha fatto sì che il PNRR si appiattisca sull’agenda stilata dall’Europa, sicché invece di un piano industriale nazionale, anche basato sullo sviluppo di istruzione, tecnologia e ricerca e con importanti ricadute su territorio, si ha un coacervo di obiettivi spesso conditi di retorica pseudo-sociale. Assenti ogni analisi della storia economica recente, una fotografia della struttura industriale (in senso ampio) del Paese, e un’analisi dei cambiamenti strutturali in corso. Impensabile per questa cultura pensare a ciò che resta delle Partecipazioni Statali (che è di gran valore) come strumento manageriale e tecnico su cui far leva, in sinergia col settore privato, la ricerca pubblica e possibilmente partner stranieri per entrare in settori promettenti. [14]
Non abbiamo infine toccato il problema della governance del PNRR su cui ha fra gli altri molto richiamato l’attenzione Giorgio la Malfa.[15] La questione ci sembra che una direzione unitaria e coordinata del piano – La Malfa ha evocato la cassa per il Mezzogiorno – comporti che esso contenga obiettivi coerenti e verificabili e non una commistione di confusi obiettivi sociali e spesso generici obiettivi di natura più economica. Non si vuole qui recuperare una cultura del piano, ma qualche elemento di programmazione forse sì. Ma la battaglia contro il liberismo che alligna nella destra pseudo-populista come nella sinistra politically correct è ancora da iniziarsi.
Né ci si dovrebbe basare sul solo dirigismo. Come mi ha suggerito l’amico Giancarlo Bergamini, giustamente scettico che si riesca a fare in tre o quattro anni ciò che non siamo stati capaci di fare negli ultimi decenni (senza riflettere sul perché), importante sarebbe anche un approccio bottom up, partendo dal tessuto di buone pratiche presenti nel Paese: aziende digitalizzate (ce ne sono anche nel meridione) guidate da imprenditori dotati di visione; scuole capaci di rafforzare i percorsi industriali e professionalizzanti; amministrazioni pubbliche, tribunali compresi, efficienti. Questo presuppone un lavoro di ascolto – e insostituibile sarebbe il ruolo anche di Confindustria, che non è solo Carlo Bonomi, ma anche tanti bravi funzionari che conoscono bene la realtà dei loro associati. E non si dovrebbe far leva solo sui grandi gruppi industriali a partecipazione statale: ci sono settori interi costituiti da aziende di medie dimensioni che non hanno rapporti coi maggiori gruppi italiani (penso per esempio al distretto del biomedicale) e che avrebbero molto da dire su quali siano le esigenze di un’industria innovativa.
Riferimenti
S. Cesaratto,, G. Zezza, Farsi male da soli. Disciplina esterna, domanda aggregata e il declino economico italiano, L’industria, vol. 2, 2019, pp. 279-318, DOI: 10.1430/94135 (free download)
S. Cesaratto, Sei lezioni di economia – Conoscenze necessarie per capire la crisi più lunga (e come uscirne), 2da edizione, Diarkos, Reggio Emilia, 2019 (versione inglese Heterodox Challenges in Economics – Theoretical Issues and the Crisis of the Eurozone, Springer, 2020, www.springer.com/gp/book/9783030544478).
A. Stirati (2020) Analisi macroeconomica, prospettive italiane e una valutazione di MES ‘pandemico’ e Recovery Fund, Economia & Politica
L. Tronti (2021), Sull’andamento degli investimenti in Italia nelle recenti decadi in una prospettiva comparata si veda Investimenti, profitti e ripresa: il problema italiano. Un’analisi di lungo periodo, gennaio, Economia & Politica
Ringraziamenti: Scagionandoli da ogni responsabilità, ringrazio Riccardo Achilli, Aldo Barba, Giancarlo Bergamini, Riccardo Pariboni, Massimo Pivetti, Antonella Stirati e Lanfranco Turci per consigli e incoraggiamento. Dai commenti dei primi tre ho attinto selvaggiamente, mentre Pariboni e Turci hanno un po’ frenato il mio impeto contro gli obiettivi sociali politically correct.
[1] http://www.governo.it/sites/new.governo.it/files/PNRR_2021_0.pdf
[2] Cesaratto 2019, cap. 5; Cesaratto & Zezza 2019
[3] Sull’andamento degli investimenti nelle decadi recenti in una prospettiva comparata si veda di Tronti (2021).
[4] Si ritrovano solo affermazioni spot come: “La scarsa propensione all’innovazione del sistema produttivo e il basso livello di digitalizzazione della nostra economia e della nostra Pubblica Amministrazione (PA) sono tra le cause principali dei deboli tassi di crescita economica del Paese, che a loro volta si riflettono nell’insufficiente tasso di occupazione femminile e giovanile e lo svantaggio dell’economia meridionale” (pp. 7-8). Oppure affermazioni piuttosto trite (su cui non manca però un’influenza delle analisi della banca d’Italia): “L’insoddisfacente crescita italiana è dovuta non solo alla debole dinamica degli investimenti, ma anche a fattori strutturali, quali la dinamica demografica declinante e il basso tasso di natalità, la ridotta dimensione media delle imprese e l’insufficiente competitività del sistema-Paese, il peso dell’elevato debito pubblico, una incompleta transizione verso un’economia basata sulla conoscenza” (p. 8).
[5] https://temi.camera.it/leg18/dossier/OCD18-14585/piano-nazionale-ripresa-e-resilienza-pnrr-proposta-del-governo-del-12-gennaio-2021.html
[6] Si veda Stirati (2020).
[7] Dal dossier del Parlamento evinciamo anche che: “Il contributo finanziario massimo per l’Italia, a titolo di sovvenzioni, ammonterebbe a circa 68,9 miliardi di euro, dei quali 47,93 miliardi da impegnare nel biennio 2021-2022 e i restanti 20,96 miliardi nel 2023. Tra le principali economie europee, le sovvenzioni sarebbero pari a: 25,62 miliardi di euro per la Germania; 39,38 miliardi di euro per la Francia; 69,53 miliardi di euro per la Spagna.” Da notare che uno dei parametri di assegnazione, il tasso di disoccupazione negli ultimi 5 anni, risulta penalizzante per l’Italia che l’ha più basso della Spagna pur con tassi di occupazione comparabili (la disoccupazione è più palese in Spagna che in Italia). Eppure in autunno cercammo con dei colleghi di allertare il ministro Gualtieri al riguardo.
[8] La Commissione europea raccoglie a sua volta i fondi emettendo titoli garantiti dal bilancio europeo.
[9] Dal dossier del Parlamento deduciamo tuttavia che la politica italiana non ha la seppur minima consapevolezza di queste problematiche: “Non trovano invece espresso riscontro nel Piano le indicazioni parlamentari relative, nel settore degli interventi per la giustizia, alla tutela delle detenute madri, alle misure alternative alla detenzione e al sostegno per le donne vittime di violenza”. Questo tanto per constatare il livello di degrado culturale della politica italiana, in questo caso si desume di “sinistra”.
[10]https://www.italiaviva.it/le_62_considerazioni_di_italia_viva_sulla_proposta_italiana_per_il_recovery_fund
[11] Un’eccezione al desolante chiacchiericcio sul RF è al riguardo Francesca Bria, Creare campioni nazionali per nuove filiere, Il Sole 24 Ore, 24 Gennaio 2021.
[12] Questo il tono, tanto per capirci: “’Caput Mundi’ e ‘Percorsi nella Storia’ per promuovere la capacità attrattiva turistica del Paese attraverso una fruizione sinergica e innovativa del Patrimonio e riqualificando i contesti, con forme di turismo ‘lento’ e sostenibile.” (p. 63).
[13] Centro Nazionale per l’intelligenza artificiale (l’Istituto avrà sede a Torino); Centro Nazionale di Alta Tecnologia ambiente ed energia; Centro Nazionale di Alta Tecnologia quantum computing; Centro Nazionale di Alta Tecnologia per l’Idrogeno; Centro Nazionale di Alta Tecnologia per il Biofarma; Centro Nazionale Agri-Tech (il Polo Agri-Tech avrà sede a Napoli); Centro Nazionale Fintech, (il Polo avrà sede a Milano). Si prevede che circa la metà degli investimenti saranno localizzati al Sud (è veramente necessario porre questo vincolo
[14] Abbiamo provato a sondare i punti di vista di CGIL (http://www.cgil.it/recovery-cgil-lavoro-sia-fulcro-di-tutti-gli-interventi/) e Confindustria ma abbiamo amaramente constatato come la prima spinga soprattutto per accentuare gli obiettivi sociali, mentre la seconda sembra in definitiva condividere l’impianto: “C’è solo un’allocazione delle risorse per macro-temi e l’individuazione degli obiettivi generali che s’intendono raggiungere, ma mancano i progetti con cui le risorse verranno spese e, per ciascuno di essi, gli strumenti, il cronoprogramma per la sua realizzazione, i costi e gli impatti su PIL e occupazione. In ogni caso, pur in assenza di una visione complessiva del Sistema Paese, nel Piano si ritrovano indirizzi e misure coerenti con le esigenze del tessuto produttivo, come il rafforzamento del Piano Transizione 4.0 e gli interventi in tema di Ricerca, Sviluppo e Innovazione” (https://www.confindustria.it/notizie/dettaglio-notizie/Audizione-Confindustria-sulla-proposta-di-PNRR-Piano-Nazionale-di-ripresa-e-resilienza).
[15] Si veda su: http://www.fulm.org/
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