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02/05/2021

Terzo Settore e condizioni dei lavoratori. Reinternalizzare è meglio/5

Il primo sciopero nazionale delle lavoratrici e lavoratori del Terzo Settore in quanto tale, risale al dicembre 2018 e venne organizzato dall’Unione Sindacale di Base. Un settore del mondo del lavoro decisamente atipico vide scendere in piazza i dipendenti delle cooperative sociali e gli educatori professionali.

In larga parte si tratta giovani, ma anche meno giovani, che lavorano nel privato sociale o no profit, in larghissima parte con contratti precari e stipendi spesso molto bassi, che dedicano la loro professionalità all’assistenza delle figure sociali vulnerabili, come anziani, bambini, portatori di handicap, stranieri o marginalizzati. Di contro in questo settore si è andato consolidando un management molto ben retribuito.

In occasione di quello sciopero, l’Usb aveva puntato il dito contro le esternalizzazioni dovute alla riduzione della spesa pubblica per i servizi sociali, sanitari, culturali e di welfare. Proprio lì si annidano – secondo l’Usb – il malaffare e lo sfruttamento dei lavoratori, spesso più simili a volontari che a salariati.

La mobilitazione chiamava a dare voce a tutti gli operatori del settore: dagli educatori agli operatori sociosanitari, dagli operatori dell’accoglienza agli operatori esternalizzati e poi ci sono quelli che rischiano il lavoro ogni anno per ristrutturazioni aziendali, cambi d’appalto, riorganizzazione dei servizi, e coloro che chiedono lo svincolo dei servizi sociali dal Patto di Stabilità e la fine del regime degli appalti.

Poi è arrivata la pandemia di Covid-19 e le tutte le contraddizioni del settore dei servizi sociali affidati al Terzo Settore sono esplose insieme a quelle del sistema sanitario nel suo complesso.

Le conseguenze dei tagli negli appalti e negli accreditamenti, già andavano a impattare sulla sicurezza del lavoro e sui rapporti numerici ridotti all’osso tra operatore/utente.

Il Covid-19 e la gestione “emergenziale” nei servizi esternalizzati del Terzo Settore ha lasciato tantissimi operatori e operatrici senza DPI, senza procedure e protocolli chiari e sicuri nelle strutture e nei servizi essenziali, esponendoli al contagio da coronavirus, spesso utilizzando l’arma del ricatto morale nel dover andare al lavoro.

Già penalizzati da retribuzioni spesso indecenti, chi lavora nel Terzo Settore durante l’emergenza ha visto saltare sia i salari sia i servizi dall’oggi al domani. Il salario è diventato FIS all’80%, e il FIS è poi scomparso tra le stringhe telematiche degli uffici dell’INPS, perchè la maggioranza delle cooperative non l’hanno anticipato. Nel decreto Cura Italia era previsto che gli enti locali dovessero pagare lo stesso i servizi sospesi, ma gli operatori molto spesso non hanno visto un euro.

Nel contesto della pandemia, al Comune di Roma il coordinamento degli AEC (assistenti educativi oggi diventati Oepa), a ottobre del 2020, è riuscito a portare alla discussione una Delibera di iniziativa popolare sottoscritta da 12mila firme nella quale si chiedeva la re-internazionalizzazione del servizio (come era fino ad anni fa). Ma l’opportunismo della maggioranza del consiglio comunale ha bocciato quella che poteva essere una esperienza pilota di estrema importanza.

A novembre 2020 gli assistenti educativi sono tornati in piazza a Montecitorio. Durante i mesi scorsi di lockdown i lavoratori in appalto dei servizi scolastici integrativi e di integrazione degli alunni disabili sono stati investiti in pieno dagli effetti delle condizioni strutturali e precarie dei loro contratti di lavoro.

Le Cooperative Sociali e gli enti del Terzo Settore che impiegano queste lavoratrici e lavoratori, inquadrandoli spesso in mansioni inferiori a quelle effettivamente svolte, con contratti part time, con paghe orarie attestate sotto la soglia di povertà, retribuiti a cottimo a fronte della richiesta di enorme professionalità e competenze, hanno in larga misura fatto accesso agli ammortizzatori sociali Covid, demandando il pagamento all’INPS, senza garantire l’integrazione piena dei magri salari, senza la maturazione di ferie e contributi, aggiungendo il danno economico alla beffa di un trattamento contrattuale infame.

È ormai evidente come nel Terzo Settore è tempo di mettere le mani e non solo dal punto di vista normativo che rischia di consegnare definitivamente pezzi significativi del welfare pubblico al cosiddetto privato sociale, ma anche perché è tempo che i 650.000 lavoratori e i milioni di volontari siano messi in condizioni contrattuali dignitose mettendo fine ad un vero e proprio verminaio.

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