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04/05/2021

«Un attentato quasi terroristico»

Negli ultimi decenni vi sono stati, in Italia, numerosi attacchi armati contro persone dalla pelle scura per la sola ragione del loro apparire “stranieri” o “immigrati”. Tra i casi più eclatanti, la strage camorristica di Castel Volturno nel 2008, dove persero la vita sei giovani uomini africani, e l’uccisione di Samb Modou e Diop Mor nel 2011 a Firenze per mano di un militante neofascista.

Razzismo, xenofobia, nazionalismo, definiscono e delimitano il discorso politico che sottende questi eventi, e che in vario modo li ispira. È un discorso che attraversa la storia italiana dell’ultimo secolo, prima, durante e dopo il fascismo, e che, purtroppo, non è circoscritto all’estrema destra o alla destra del panorama politico nazionale.

Una conferma di questo arriva dall’osservazione ravvicinata di un caso recente, drammatico quanto gli altri, ma che per fortuna non ha provocato vittime.

Il 3 febbraio 2018 Luca Traini, 28 anni, ex candidato della Lega Nord alle elezioni comunali, raggiunge in auto il centro di Macerata e spara contro dei perfetti sconosciuti, scelti solo per il colore della loro pelle e il fatto di trovarsi in una parte della città frequentata da immigrati di origine africana. Ne ferisce sei.

Si sposta in altre zone, spara contro negozi e la sede locale del PD. Nella città si vivono momenti di terrore, al punto che il sindaco sospende la circolazione degli autobus e invita la cittadinanza a chiudersi in casa. Al momento dell’arresto, Traini, si avvolgerà in una bandiera italiana e farà il saluto fascista.

L’attentato di Macerata è oggetto di uno studio a più mani, curato da Marcello Maneri e Fabio Quassoli (Un attentato “quasi terroristico”. Macerata 2018: il razzismo e la sfera pubblica al tempo dei social media, Carocci, 2020) volto a comprendere le modalità in cui questo evento è stato trattato dai mass media e sui social media.

L’analisi è doverosa, perché l’attenzione pubblica alla vicenda ha trasformato il gesto di Traini in un “evento mediale”, ovvero, nelle parole dei curatori, “una storia fortemente simbolica raccontata coralmente dai media facendo ricorso ad archetipi narrativi, che monopolizza l’attenzione del pubblico e mobilita emozioni e idee morali su ciò che la società dovrebbe o non dovrebbe essere” (pag 12).

Il libro è strutturato in sei capitoli che prendono in esame l’uso di Twitter e la sfera pubblica; l’attentato di Macerata nei quotidiani; i telegiornali; le junk news e la manifestazione antifascista; il discorso razzista nei media italiani; e le voci di Wikipedia sull’attentato.

Uno dei temi centrali del libro è la comprensione del funzionamento della sfera pubblica in un’epoca in cui i social media rivestono un ruolo di crescente importanza nella formazione dell’opinione pubblica.

In questo senso, la situazione è completamente diversa rispetto ad appena cinque o dieci anni prima. Un secondo tema che attraversa il libro e ne giustifica il titolo è la ritrosia dei mass media e dei leader politici ad utilizzare la definizione di “terrorismo” per questo attentato.

Perché, pur di fronte all’evidenza (attacco armato contro popolazione civile, in pieno giorno, nel centro di una città), le autorità politiche sono state caute nel definirlo per quello che era? La stessa cautela si riflette nella generalità dei quotidiani e dei telegiornali, che anche quando riferiscono del profilo neofascista dell’autore, e sottolineano le motivazioni razziste del suo gesto, tendono ad “umanizzarlo” con riferimenti alle sue precarie condizioni lavorative e relazionali, al suo stato mentale.

Ricorrente è la spiegazione dell’attentato come apparente vendetta per l’uccisione di una ragazza italiana per mano di un immigrato nigeriano, avvenuta a Macerata nei giorni precedenti l’attentato. La stessa attenzione viene negata alle vittime della tentata strage, che la maggioranza dei mass media non cita nemmeno per nome.

L’incombente campagna elettorale fa da sfondo a questa narrazione mediatica, che dà risalto ai commenti dei politici come interpreti privilegiati degli eventi.

In una sorta di gioco di rimpallo auto-riflettente con i mass media dominanti, il governo di centro-sinistra condanna ma senza esporsi. Il presidente del consiglio non visita le vittime, e i partiti della maggioranza, in primis il PD, negheranno l’adesione alla manifestazione anti-razzista e anti-fascista organizzata da vari gruppi di base nei giorni successivi.

L’effetto è quello di uno sforzo, nemmeno tanto velato, di comprensione delle condizioni in cui il carnefice è diventato tale. Le vittime, gli immigrati, appaiono come la causa scatenante, i portatori di colpa. Il messaggio xenofobo di Salvini, rilanciato per mesi e anni attraverso ogni media, è diventato discorso popolare, si è fatto “senso comune”.

Quale ruolo giocano i social media in questo scenario apparentemente egemonico, dove il centro-sinistra vira verso il centro e si confonde con la destra, applaudito dai mass media per il suo “buonsenso”?

È indubbio che, con la rivoluzione digitale e l’affermarsi dei social media, i media tradizionali hanno visto ridimensionarsi il loro ruolo di gatekeeper del ciclo informativo. Con la moltiplicazione di opportunità per produrre e distribuire contenuti comunicativi la posizione dominante dei mass media tradizionali è venuta meno.

Tuttavia, ciò su cui gli studiosi non concordano è il livello di influenza reale esercitato dai nuovi media e dai social media sulla produzione di significato, e il loro ruolo nell’arena pubblica.

Il libro curato da Maneri e Quassoli offre un’analisi nitida e preziosa, basata sull’esame dell’evento mediale dell’attentato di Macerata. La loro analisi evidenzia “la persistente influenza dei media tradizionali e degli esponenti politici a cui i primi fanno da cassa di risonanza nel condizionare la sfera pubblica in Italia” (p. 17).

In altre parole, i social media non sono ancora riusciti a spodestare i padroni del vapore, e la loro influenza nel dibattito pubblico, quando c’è, è marginale.

Nei giorni seguenti l’attentato di Macerata, i social media sono l’unico luogo pubblico in cui esso viene definito “un atto terroristico di matrice fascista”. È questo il messaggio di Roberto Saviano, uno dei pochi intellettuali a godere di ampia visibilità pubblica.

Tuttavia la mobilitazione online attorno ai frame “antirazzismo” e “terrorismo” scema nell’arco di pochi giorni, per venire scavalcata, in termini di intensità, dal frame “sicurezza”, veicolato dalle forze politiche e dai media tradizionali.

Nel libro si combina l’osservazione di questo caso con quello dell’attentato alla redazione di Charlie Hebdo, che aveva provocato una mobilitazione online senza precedenti, in Francia e in altri Paesi. La conclusione è netta: “Lungi dall’imporre un framing autonomo agli eventi, in entrambi i casi Twitter si è rivelato estremamente permeabile allo stato del dibattito nei media tradizionali e nella politica istituzionale” (p. 35).

L’unica differenza tra i due casi è che mentre in Francia un consenso diffuso sulla definizione dell’attentato ha portato alla celebrazione di un rituale di riparazione (grande manifestazione pubblica), nel caso italiano il conflitto nel definire l’attentato ha impedito un rituale di riparazione ampiamente condiviso. Le logiche politiche, e i calcoli elettorali, hanno prevalso sulla difesa dei principi di convivenza civile.

La rappresentazione dell’Italia che emerge da questo libro è quella di un paese da un lato accondiscendente ai messaggi della destra, anche quella più estrema, e ripiegato nel discorso pubblico su una contrapposizione razzializzante e razzista dell’ immigrato e della persona dalla pelle scura, dall’altro con un panorama mediatico ancorato al sistema tradizionale. In questo senso, l’Italia appare un caso emblematico di quella che Aurelien Mondon e Aaron Winter definiscono “democrazia reazionaria” (Reactionary democracy, Verso, 2020).

A forza di dialogare con razzisti e neofascisti, nel rispetto di un malinteso principio democratico, i liberali e i cosiddetti “moderati” ne hanno non solo legittimato i punti di vista, ma ne hanno facilitato la popolarizzazione.

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