Il filosofo britannico Mark Fisher, nel suo celebre Realismo Capitalista, descrivendo I Figli degli Uomini (Cuaròn, 2006) utilizza una frase talvolta attribuita a Zizek: “È più facile immaginare la fine del mondo che quella del capitalismo”.
Adam McKay, divenuto di culto dopo aver realizzato La grande scommessa, una pellicola che narrava le vicende della crisi finanziaria del 2007-2008 con un particolare taglio registico a metà tra documentario e fiction, con il suo Don’t look up mette in scena la stupidità umana nell’era del capitalismo digitalizzato.
McKay sembra attingere a piene mani dalla teoresi fisheriana, e lo si intuisce non appena si scopre il plot del film.
La giovane dottoranda in astronomia Kate Dibiasky (Jennifer Lawrence) scopre l’esistenza di una cometa; dopo l’iniziale entusiasmo, il suo professore, il dott. Randal Mindy (Leonardo Di Caprio), a seguito di alcuni calcoli, realizza che la cometa impatterà con la terra dopo appena sei mesi dalla sua scoperta.
Dalle premesse la pellicola sembra il più blasonato film apocalittico hollywoodiano, ma non è così, si tratta invece di una tragicommedia dal taglio alquanto inusuale per il genere in questione.
I titoli di testa con Jennifer Lawrence che vomita in un secchio della Casa Bianca nella quale sta aspettando di essere ricevuta dalla presidente degli Stati Uniti (Meryl Streep), sono il perfetto riflesso del mood del film.
Più in generale, è proprio il personaggio di Dibiasky ad essere portavoce di una generazione o, per meglio dire, due: quella dei millenials e quella degli zoomer, poiché caratterizzato da una profonda rabbia e malinconia, le stesse sensazioni che contraddistinguono proprio i nati tra la metà degli anni ’80 e i primi del 2000.
Il contesto generale dell’opera di McKay riflette ovviamente il periodo pandemico, mettendo in luce le sue contraddizioni, la sbruffonaggine dei potenti, la polarizzazione dell’opinione pubblica, lo spazio dato alla memetica nel contesto politico e così via.
Dinnanzi ad un pericolo che minaccia seriamente l’umanità, è l’idiota capitalismo a prendere il sopravvento sulle decisioni umane.
Una delle scene chiave del film è quella in cui, dopo l’annuncio in pompa magna della missione dedicata a deviare la cometa, e altresì dopo l’avvio effettivo della missione, i razzi e lo Space Shuttle atomicamente equipaggiato, tornano indietro dopo poco tempo dalla partenza, senza aver effettuato la missione.
Il motivo dell’imprevisto aborto dell’operazione è semplice: la cometa è ricca di elementi preziosi e conduttori utili alla costruzione di device.
Questa scena racchiude in sé diversi elementi scaturiti dall’approccio capitalista all’emergenza pandemica, ovvero la capacità del capitale di non fermarsi davanti a nulla, neppure alle emergenze più catastrofiche, rendendo tutto una “luccicante opportunità”.
Se nei paesi del “nord del mondo” gli anziani bianchi si affrettano ad inocularsi la terza dose, è anche vero che nei paesi in via di sviluppo in pochi sono riusciti a vaccinarsi anche solo con la prima.
Non è infatti una contingenza che il primo caso della variante Omicron sia stato individuato in Botswana, e così mentre i potenti dell’Europa si rifiutavano di inviare i vaccini ai paesi più poveri (il fermo “no” all’invio di 13 milioni di vaccini in Africa da parte di Draghi ne è solo un esempio), le varianti proprio nei paesi in questione continuavano a svilupparsi, come in una sorta di vendetta verso questo nuovo imperialismo.
Sono poi i personaggi del film, oltre alla sopracitata Dibiasky, a veicolare dei prototipi del nostro tempo.
C’è la presidente Janie Orlean che rappresenta perfettamente la politica statunitense, tanto da essere dipinta in maniera ambigua. Nelle prime fasi del film in un’inquadratura c’è una sua foto dove è ritratta con Bill Clinton, inoltre la vediamo comportarsi come una donna forte ed emancipata dallo stile piuttosto democratico.
Il suo modus operandi invece è quanto mai repubblicano, sia nell’annuncio della missione e nelle sue conferenze pubbliche, sia nel rapporto, a dir poco trumpiano, con i propri elettori.
C’è poi Peter Isherwell (Mark Rylance), il Ceo della Bash, un’azienda di alta tecnologia informatica e produttrice di smartphone innovativi. Isherwell è la perfetta sintesi dei vari “imprenditori illuminati” come Jobs, Brin e Page, Bezos, Musk e Zuckerberg.
Il suo massimo interesse è il profitto, seppur celato da apparenti intenti transumanisti alla Musk. È inoltre lui la causa del ritiro della missione che avrebbe salvato l’umanità, proprio perché mosso da un sentimento spregiudicato di accumulazione capitalistica.
Riesce ad impedire il corretto svolgimento della missione di salvataggio poiché è uno dei principali finanziatori della campagna della presidente, proprio come Brin e Page, che sostengono economicamente il Partito Democratico degli Stati Uniti (e probabilmente non solo, vista la potenza di Google nel gatekeeping).
Anche i personaggi secondari sono di indubbio interesse, a partire dal dott. Ogelthorpe (Rob Morgan) coordinatore dell’Ufficio di Difesa Planetaria (il quale, come ci viene esplicitamente spiegato attraverso un simpatico inserto, esiste davvero), o il giovane ribelle un po’ edgy – ma segretamente credente in Dio – interpretato dal novello sex symbol Timothée Chalamet.
Così come la giornalista Briee (Cate Blanchet), che ricorda molto la nostrana Lilly Gruber con un tocco di divertente demenza statunitense in più, e anche la cantante Riley Bina, che viene interpretata da Ariana Grande e dunque riflette con grande accuratezza lo stereotipo della pop-star americana.
Il personaggio che però, come direbbero gli zoomer italiani, “fa ridere ma anche riflettere” è quello del professore interpretato da Di Caprio, che sembrerebbe citare i “virologi-star”.
Il dott. Randal Mindy passa dunque dall’essere uno “sfigato” professore dell’Università Statale del Michigan, a diventare “l’astronomo più sexy d’America”, in onda h24 a dispensare consigli e ripetendo di stare tranquilli.
Anche quando il piano cambia e diventa quello dettato da Isherwell, Randal si adatta pur di continuare a vivere nella fama concessagli dai media, il tutto viene perfettamente evidenziato dalla relazione extraconiugale tra il professore e la giornalista interpretata dalla Blanchet.
La pellicola però, nonostante la sua lucidità, pecca di un certo americo-centrismo, durante le più di due ore di film, che tra l’altro scorrono lisce come l’olio, c’è una grande accuratezza nel citare dettagli e protocolli realmente esistenti, però il ruolo degli altri paesi è assurdamente secondario.
Nell’attuale corsa allo spazio 2.0, il peso di stati come Cina, Russia, Canada e di quelli europei dell’ESA, è importante tanto quello della NASA; invece, nel film vengono ridotti a macchietta.
Il secondo tentativo di salvare l’umanità è proposto proprio da Cina e Russia che cercano di deviare la cometa, se non fosse però che durante il lancio il cosmodromo di Bajkonur, quello da cui partirono lo Sputnik, Gagarin e la Tereskova, esplode.
Possiamo però provare ad interpretare questa esplosione con un sabotaggio da parte di Stati Uniti e BASH; diciamo che qui l’interpretazione sta allo spettatore.
Lo splendido e malinconico finale che seguita l’impatto della cometa con il nostro pianeta, ci riporta con la mente a quello di Zabriskie Point, se nel finale di Antonioni i beni di consumo esplodono e fluttuano nel cielo a rallenty, in quello di McKay i beni di consumo sono misti a pezzi del nostro pianeta, anche a quelli organici come la gigantesca balena mozzata che risalta nella composizione.
Una critica diretta alla società dei consumi e al cambiamento climatico che, al contempo, dissacra con sapere iconoclasta il virtuosismo del regista italiano.
Gli elementi presenti in questa intelligente ed intellegibile opera sono sapientemente mescolati, non risultano messi insieme forzatamente e riescono a dar vita a qualcosa che ha un sapore nuovo.
Gli spettatori vengono messi in guardia dall’assurdo e al contempo inquietante realismo del film, che tanto ricorda quel Realismo capitalista descritto da Fisher nell’omonima opera (ci sono anche numerosi riferimenti agli psicofarmaci!).
Come recita il sottotitolo presente nel poster pubblicitario “Based on truly possible events”, in italiano “Basato su fatti realmente possibili”, il messaggio è semplice: state attenti o questa è la fine che, prima o poi, faremo.
Al messaggio, stando ai più recenti fatti, non ci vuole molto a crederci. È inoltre preminente riflettere sulla capacità di una multinazionale come Netflix di proporre contenuti che criticano il modello vigente,.
Forse, alla base di questo fatto sta la capacità, a lungo descritta da Deleuze e Guattari, del capitale di sapersi deterritorializzare, ovvero di auto-criticarsi.
Sta poi a noi saper prendere spunto dalle tesi proposte da film e serie intelligenti (Squid Game ne è un grande esempio), per smetterla di piegarci di fronte all’idiozia del sistema.
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