Di seguito proponiamo un testo interessante non tanto per le tesi che produce quanto perchè costituisce un esempio - il primo in cui incappiamo noi - in cui il sistema cinese, con i propri isultati assume un ruolo propulsivo nei confronti dell'organizzazione capitalista della produzione.
È un piccolo evento che entro quest'ottica va considerato e analizzato.
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La recente condanna di Amazon da parte dell’anti-trust italiano (Autorità Garante della Concorrenza e del Mercato) è qualcosa di più di una grande multa, equivalente a circa il 10% del fatturato annuo della multinazionale nel nostro paese. È, in primo luogo, la dimostrazione dettagliata ed evidente del perché la retorica del liberismo come unica forma efficiente di organizzazione economica si fonda su un grande equivoco. In secondo luogo l’indagine dell’Autorità ha esposto in maniera limpidissima il dilemma dei governi rispetto alle grandi imprese del web: come limitarne il potere senza perdere gli enormi vantaggi che offrono. In questo articolo riassumiamo come le politiche liberiste orientate a favorire la concorrenza continua hanno creato le condizioni esattamente opposte a quelle desiderate: monopoli inattaccabili da qualsiasi concorrente. Vedremo anche come la Cina gestisce il problema e concluderemo con una proposta di regolamentazione che ottiene il risultato di favorire la vera concorrenza senza perdere i vantaggi forniti dalle grandi piattaforme.
Efficienza e concorrenza: una falsa associazione
Ormai da decenni è universalmente accettato, anche dai movimenti politici che si autodichiarano “di sinistra”, una visione economica del mondo secondo la quale la libera concorrenza garantisce sempre e comunque il risultato più efficiente in qualsiasi contesto. La concorrenza fra imprese garantisce che le imprese sopravvissute adotteranno le pratiche produttive più efficienti. La concorrenza tra lavoratori garantisce che i redditi saranno adeguati al loro apporto alla produzione. La concorrenza tra paesi garantisce che chi attua politiche errate venge punito dai mercati finché non si riallinea. Ma da cosa nasce questa convinzione che la competizione produce migliori risultati? La fiducia incondizionata nell’onnipotenza della concorrenza come mezzo Darwiniano di raggiungimento dell’efficienza nasce da un modello economico vecchio di secoli basato su ipotesi adatte al sistema produttivo prevalente all’epoca, cioè quello agricolo. In particolare il modello considera che la tecnologia produttiva sia caratterizzata da diseconomie di scala, cioè che il costo unitario della produzione aumenta con la quantità assoluta prodotta. Ipotesi molto realistica in campo agricolo (e in assenza di innovazioni tecnologiche) ma semplicemente assurda rispetto a quanto avviene nella produzione industriale. Inoltre si ipotizza l’assenza di interazioni tra produzioni e mercati diversi, quindi chi produce A non ha alcun vantaggio rispetto alla produzione di B. Infine, come quasi tutti i modelli economici, il modello di concorrenza ipotizza la neutralità del sistema finanziario, secondo la quale un buon investimento viene sempre finanziato indipendentemente dalle condizioni del proponente. Secondo il modello, insegnato in tutte le università e considerato la pietra angolare della teoria economica, in queste condizioni il prezzo scenderà spontaneamente fino al livello minimo consentito dalle conoscenze tecnologiche grazie ad un gran numero di imprese che si fanno concorrenza tra loro. Questo risultato non è invece raggiungibile nel caso lo Stato intervenga con limitazioni di prezzo, tasse o incentivi. Da questo deriva, secondo i fedeli al pensiero unico liberista, che lo Stato deve evitare ogni intervento per permettere alla concorrenza di compiere la magia. L’analisi della Autorità sul caso Amazon dimostra in modo illuminante cosa succede nel mondo reale quando si applica il dogma del liberismo nel contesto contemporaneo quando siamo in presenza di economie di scala (costi unitari che si riducono con l’aumento della produzione) in produzioni fortemente integrate (se produco anche A il costo di produzione di B si riduce) con un mercato finanziario distorto (l’acquisto di una auto stressa le mie finanze personali quanto a Bezos costa colonizzare Marte). Nella sostanza Amazon ha fatto il suo dovere: battere la concorrenza offrendo servizi di qualità migliore ed a prezzo più competitivo. Per farlo ha investito cifre gigantesche, equivalenti alla ricchezza di intere nazioni, su progetti privi di un piano economico talmente ambizioso e fuori dagli schemi che non avrebbe mai ottenuto l’approvazione di un qualsiasi ente finanziatore. Ha poi sfruttato la sua popolarità di rivenditore online per entrare su tutti i mercati anche lontanamente collegati, dai servizi di cloud alla logistica, sfruttando le enormi sinergie tecniche e di rapporto con i clienti tra i diversi mercati. Data la dimensione del suo giro di affari ha sempre potuto godere di un enorme vantaggio rispetto a qualsiasi concorrente su qualsiasi mercato. Ha abusato della sua posizione? Lo decideranno i giudici, ma sicuramente se non si fosse comportata come ha fatto lo avrebbe potuto fare qualche altra impresa. Per quanto mi riguarda il problema non è (solo) l’eventuale abuso ma, sopratutto, che una fetta enorme di attività economica del paese (anzi, del mondo) sia controllata da una sola azienda. Gli interessi di Jeff Bezos non sono necessariamente gli stessi dei miliardi di persone che dipendono in qualche modo dai servizi della sua azienda. Ci si può domandare se esista un modo di controllare i giganti del web senza danneggiare l’economia ormai basata sui loro servizi.
Monopoli ed efficienza economica: il modello Cinese
Tralasciando la beffa per cui il risultato della esaltazione della concorrenza come regola universale è la creazione di pochissimi monopoli planetari privi di concorrenti, i danni prodotti dalla concentrazione di potere economico sono molto gravi, anche se difficili da valutare per mancanza di dati. Alcuni indizi sono comunque evidenti, il principale dei quali è l’enorme flusso di startup che vengono acquistate dalle multinazionali del web prima di diventare potenziali concorrenti. È notorio che spesso le imprese acquirenti spendono centinaia di milioni di dollari, a volte anche miliardi, con l’unico obiettivo di non rendere disponibile il nuovo servizio. La politica di acquisizione delle multinazionali ha anche effetti geostrategici riducendo la possibilità del sistema europeo di competere nel mercato. È evidente che la disponibilità virtualmente illimitata di fondi e la possibilità di acquisire qualsiasi azienda crea dei centri di potere economico talmente grandi che nessun concorrente sarà mai in grado di scalfire per non dire di battere, indipendentemente dalle sue capacità. Questo potere economico genera, come è ovvio, crescente diseguaglianza economica tra i pochissimi che hanno accesso ai benefici generati e la massa che dipende dalla volontà di chi, per puro caso, ha avuto l’idea giusta al momento giusto, e da quel momento in poi ha solo il problema di come impiegare le sue risorse virtualmente infinite. È interessante comparare il panorama delle multinazionali americane con quello delle imprese equivalenti cinesi (Huawei, Alibaba, TenCent, ecc.). Anche nel paese orientale il sistema politico ha permesso (anzi, favorito) la creazione di imprese gigantesche che dominano interi settori cruciali dell’economia. La grande differenza è che il potere politico ha mantenuto un enorme potere di controllo, sia formale (leggi, autorità ecc.) sia, sopratutto, non formalmente codificato. Il risultato è che invece di finanziare capricci fantascientifici come colonizzare Marte le enormi risorse generate dai monopoli tecnologici sono indirizzate dallo Stato a perseguire obiettivi strategici ben definiti. Il primo dei quali, ormai raggiunto, è di colmare il divario industriale e nelle alte tecnologie con i paesi occidentali (l’unico neo è la produzione di chip di ultima generazione monopolio di Taiwan...). Il secondo è di acquisire la leadership nelle tecnologie del futuro, ed anche questo sembra a portata di mano considerando la superiorità produttiva e tecnologia cinese in ambito di telefonia mobile, energie rinnovabili, mobilità elettrica, innovazioni finanziarie (“fintech”), ecc. Sembra quindi che dentro la Grande Muraglia si sia riusciti a coniugare l’efficienza delle grandi imprese tecnologiche con le necessità della società, o almeno quelle definite dal suo governo.
Innovazione ed efficienza: una proposta
Il modello di sviluppo economico cinese è poco auspicabile in Europa in quanto incompatibile con i principi politici fondamentali scaturiti dalla sconfitta dei totalitarismi, ed è inoltre da dimostrare se il popolo cinese sarà disposto a lungo a tollerare le forti limitazioni alla libertà personale in cambio di un relativo benessere economico. Si può però immaginare una via intermedia tra il completo dominio delle economie di mercato (o forse è meglio dire “di piattaforma”) delle imprese private da un lato ed una qualche forma di totalitarismo politico dall’altro. L’Europa sembra avviata a cercare il modo di spingere le imprese a produrre le innovazioni richieste dagli obiettivi socialmente definiti (ad es. transizione ecologica, digitale, ecc). Ma queste iniziative composte di finanziamenti pubblici e incentivi, pur auspicabili e positive, rischiano di non produrre alcun risultato se non si pongono le condizioni per assicurare la collaborazione, o almeno la non ostilità, delle grandi imprese che, direttamente o indirettamente, dovranno collaborare al raggiungimento degli obiettivi posti dalla Commissione Europea. Il motivo è semplice da dimostrare: l’intero budget stanziato dall’Europa per indirizzare l’economia verso gli obiettivi prefissati per i prossimi sette anni è equivalente al fatturato annuale di tre/quattro multinazionali americane. Se quindi si dovessero mantenere le imprese libere di agire come vogliono i finanziamenti europei andranno, nel migliore dei casi, ad arricchire ancora di più le grandi imprese monopoliste. Nel peggiore dei casi, le imprese useranno una frazione delle loro risorse per contrastare gli obiettivi europei. L’ovvia conclusione è che non è possibile limitarsi a offrire incentivi economici, che saranno comunque bruscolini rispetto al fatturato delle grandi imprese, ma è necessario usare strumenti di regolazione che non possono essere contrastati dai muscoli finanziari delle multinazionali. Ma come è possibile assicurare i vantaggi forniti dalle piattaforme senza concedere loro il potere economico che attualmente godono? La teoria economia tradizionale definisce i monopoli dannosi quando imprese hanno dimensioni eccessive su un mercato. La natura dei servizi tecnologici impedisce di usare questa definizione senza eliminare, con l’acqua sporca dell’eccesso di potere, anche il bambino delle innovazioni continue, bassi prezzi, affidabilità ecc. È necessario quindi aggiornare la definizione di eccesso di potere considerando, come ha fatto l’Autorità, la dimensione verticale delle imprese, cioè il grado di potere economico su mercati distinti ma collegati. È necessario cioè impedire che una impresa si trovi sia ad essere fornitrice di servizi ad altre imprese sia concorrente delle stesse imprese. Nel caso delle piattaforme online si può stilare il seguente elenco, forse incompleto, dei mercati rilevanti:
a) Reti trasmissione dati (cavi, server di comunicazione);
b) Infrastruttura elaborazione dati (server farm, cloud, ecc.);
c) Piattaforme di sviluppo applicativi;
d) Applicativi;
e) Servizi di vendita;
f) Servizi di raccolta dati privati (social media);
g) Servizi agli inserzionisti;
h) Servizi di informazione;
i) Servizi di consulenza.
Per evitare che imprese private raggiungano un eccesso di potere è necessario quindi che sia impedito loro di operare in più mercati verticalmente collegati. Se un’impresa vende sul mercato x non potrà vendere sul mercato y. Se ad esempio Amazon opera come rivenditore web non può offrire anche servizi di logistica. Facebook può raccogliere dati dai suoi utenti ma non può vendere spazi agli inserzionisti, attività che sarà svolta dagli acquirenti dei suoi dati. Anche Google dovrà separare le sue diverse attività di raccolta dati dalla vendita di pubblicità. In sostanza, le autorità di controllo devono introdurre il concetto di “anti-trust verticale” da affiancare al tradizionale potere di mercato orizzontale dovuto alle eccessive dimensioni di una impresa su un dato mercato. Questa scelta ha ovviamente delle implicazioni. Le autorità dovranno garantire la definizione di standard comuni per lo svolgimento di alcuni servizi, ad esempio il formato dei dati personali raccolti da alcune aziende ed usati da altre, così come esistono gli standard di comunicazione sul web. Assicurando che ogni impresa si limiti ad operare su un solo mercato si raggiungono diversi risultati:
– si assicura la parità tra tutte le aziende in un settore in modo che la concorrenza permetta effettivamente al migliore di fare maggiori profitti, e non semplicemente remunerando un potere economico acquisito in passato;
– si garantisce il rispetto delle normative (privacy, ambientali, fiscali, ecc.) in quanto gli standard comuni utilizzati da imprese distinte renderanno più facile identificare le violazioni;
– in caso di innovazioni sarà semplice diffondere i benefici tra tutte le parti interessate semplicemente aggiornando gli standard.
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