Da alcuni mesi gli organi di stampa e diversi esponenti del governo Draghi, tra cui la stessa Ministra per le Pari Opportunità Elena Bonetti (Italia Viva), lo davano per cosa fatta: la durata del congedo di paternità obbligatorio, ossia i giorni pagati concessi ai neopadri per stare a casa entro i primi 5 mesi dalla nascita dei figli, sarebbe stata notevolmente estesa, passando dagli attuali 10 a 90 giorni.
Il congedo di paternità è una misura di welfare estremamente importante, in quanto consente alla coppia di dividersi in modo molto più equilibrato un carico di lavoro che può essere nei primi mesi estremamente elevato, evitando che esso ricada solamente sulle spalle della madre.
È noto come siano frequenti i casi di depressione o difficoltà psicologiche post-parto per le donne: fatto a cui contribuisce in modo decisivo una cultura che ancora fatica enormemente a uscire dallo schema mentale per cui la gestione del neonato sia, in fondo, roba loro.
Già i 10 giorni attualmente previsti rappresentano poco più di una misura simbolica: occorrerebbe invece, come alcuni paesi europei da questo punto di vista più avanzati già fanno, iniziare a ragionare in termini di gestione condivisa e bilanciata del lavoro di cura, prevedendo estesi monte-giorni di congedo destinati alla coppia e non distinti tra madre e padre.
Discorso che, naturalmente, andrebbe esteso alle coppie omosessuali cui invece, com’è noto, in questo Paese è ancora scandalosamente proibito il fatto stesso di poter avere figli.
Passando invece alla amara realtà del governo dei “migliori”, è invece accaduto che, in sordina, l’allungamento del congedo, che avrebbe richiesto uno stanziamento di 1,5 miliardi, sia stato bloccato dal governo: il nuovo “Family Act” lascia del tutto invariata la sua durata.
Del resto, è difficile rimanere sorpresi davanti a questo sviluppo, quando si considera che le imprese possono cavarsela abbastanza facilmente nel rimpiazzare un lavoratore per 10 giorni; molto più difficile, e dispendioso, se l’assenza si prolungasse a 90.
È solo un caso concreto che mostra praticamente l’antagonismo degli interessi di classe: il welfare, i diritti dei lavoratori, il superamento delle discriminazioni di genere sono in aperto contrasto con le esigenze di competitività delle imprese e di una Unione Europea la cui ristrutturazione produttiva, per tornare protagonista nella competizione globale, ha bisogno di comprimere al massimo tutti i diritti sociali.
Un caso concreto che mostra anche una volta di più, e al di là di ogni retorica, di quali interessi sia espressione il governo Draghi; e quanto urgente sia la necessità, per lavoratrici e lavoratori, per le classi popolari di questo Paese, di mettere in campo una proposta di radicale alternativa sociale.
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