Esattamente trenta anni fa Boris Eltstin ed i vari capi delle repubbliche, tutti ex dirigenti del Partito Comunista, decretavano la fine dell’Unione Sovietica. Fu un vero e proprio golpe, organizzato a seguito del fallimento di quello da operetta di nostalgici brezneviani alcuni mesi prima.
I nuovi padroni delle repubbliche ex sovietiche presero il potere negando la volontà dei loro popoli, che solo un anno prima, in un referendum indetto da Gorbaciov e giudicato inappuntabile dalle istituzioni internazionali, in più del 70% si erano espressi a favore del mantenimento dell’URSS.
E quel voto era stato omogeneo in tutti gli stati che si separavano: dalla Russia, all’Ucraina, alla Bielorussia, al Kazakistan, ovunque tranne che nelle repubbliche baltiche – che di fatto si erano già scisse – i popoli dissero che volevano continuare assieme.
Ma i nuovi padroni dissero no; e così alla fine del 1991 quella bandiera rossa che nel 1945 era sventolata sul Reichstag di Berlino, dopo la sconfitta del nazifascismo, veniva ammainata dal Cremlino di Mosca.
Nei nuovi stati ed in particolare in Russia iniziò una stagione di saccheggio e capitalismo selvaggio, nel nome della “libertà”. In breve tempo la povertà dilagò assieme all’accumulo di scandalose ricchezze.
Fu una strage perché, con un fenomeno sociale unico nella storia recente, l’aspettativa di vita in Russia crollò in breve di più di dieci anni.
Nel frattempo gli ideologi del capitalismo liberista proclamavano la “fine della storia”, perché il sistema fondato sul profitto aveva trionfato nel mondo. Gli Stati Uniti divenivano la sola potenza dominante e cominciarono ad esercitare questo dominio con le guerre per la democrazia, con quella “terza guerra mondiale a pezzetti” che dura tuttora.
La NATO, rimasta senza l’avversario principale, invece che essere sciolta fu rafforzata come strumento di dominio imperiale. La globalizzazione liberista coprì tutto il pianeta, che fu precipitato in un crisi ambientale sempre più incontenibile come la spinta all’accumulazione ricchezza.
“Non ci sono alternative a questo sistema” proclamavano tutti i potenti ed i loro portavoce, mentre poche migliaia di persone diventavano padrone di più di quanto possedesse la maggioranza dei sette miliardi di abitanti del pianeta.
Poi questo sistema orgoglioso e sicuro del suo dominio ha cominciato a creparsi. Prima le crisi economiche ripetute, poi quella pandemica ne hanno mostrato tutta la fragilità.
Nuovi paesi e nuove economie, con in testa la Cina, sono sorti da quello che una volta veniva genericamente definito “terzo mondo”.
Infine lo stesso socialismo dato per morto nell’Occidente capitalista, in forme ed esperienze anche molto differenti, ha ripreso a proporsi come soluzione concreta ai problemi dell’umanità. L’incredibile risultato del vaccino senza profitto realizzato a Cuba, nonostante il blocco, ne è una prova.
La realtà è che dopo il crollo dell’Unione Sovietica e della sua forma di socialismo, tutte le promesse del capitalismo allora vittorioso si sono rivelate bugie e imbrogli e che il mondo è diventato sempre più ingiusto ed insicuro.
La storia non si è fermata affatto, per decenni ha scavato sottoterra per poi riemergere oggi nelle nostre società, poste nuovamente difronte alla necessità di scegliere e decidere sul proprio futuro.
Quale che sia il giudizio sul socialismo sovietico e sulle ragioni della sua fine, bisogna riconoscere che il capitalismo è una via ancora percorribile dalla umanità solo al prezzo di ferocia e disastri immani, per le persone come per la natura.
Per questo oggi lo stesso capitalismo non riesce a festeggiare quella che trent’anni fa presentò come la sua più sfolgorante vittoria.
Per questo oggi è più facile ricordare la bandiera rossa vittoriosa del 1945, che quella ammainata nel 1991.
Perché la storia è ripartita e nei suoi percorsi riemerge quella bandiera che prima di tutto vuol dire: socialismo o barbarie.
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