Inizialmente atteso per Dicembre 2020, arriva ora finalmente al cinema uno dei film più desiderati di questo assurdo biennio pandemico: Diabolik di Antonio e Marco Manetti, meglio noti come Manetti Bros. E se le aspettative erano alle stelle, l’adattamento con Luca Marinelli, Miriam Leone e Valerio Mastandrea sembra oggi spaccare letteralmente la critica.
La sceneggiatura scritta dai Manetti con Michelangelo La Neve cattura lo spirito del fumetto creato da Angela e Giuliana, alias sorelle Giussani, attraveso l’albo numero 3, L’arresto di Diabolik, pubblicato nel 1963 dalla loro casa editrice Astorina, diretta oggi da Mario Gomboli.
Lo stesso Mario Gomboli, fedele custode di Diabolik e le sue storiche edizioni milanesi, ha illustrato in conferenza stampa le ragioni che l’hanno portato a rifiutare negli anni una lunga serie di progetti, accettando invece con entusiasmo il soggetto e la visione dei Manetti, impegnati a sognare da anni la loro personale versione cinematografica del primo, grande fumetto nero all’italiana.
Iperrealista ma carnale, cartoonesco ma feroce, il Diabolik dei Manetti si è fatto molto attendere, ma si rivela oggi come un esperimento di cinema prezioso.
Un’opera anomala, soprattutto rispetto all’industria cinematografica italiana, ma soprattutto un film fuori dallo spazio e dal tempo, distinto da una eleganza micidiale.
Com’era forse prevedibile, una parte della stampa condanna fatalmente la mancanza di ritmo, una tensione certo intesa secondo i canoni dei cinecomic a stelle e strisce. Cerchiamo allora di capire come si differenzia il cinefumetto Diabolik, un’opera complessa, forse a tratti imperfetta, eppure capace di negarsi agli standard del mercato, per uscirne comunque vincitrice.
Diabolik: La trama
Siamo alla fine degli anni ‘60. Diabolik (Luca Marinelli) è il famigerato criminale che semina il terrore a Clerville. Un ladro dalle abilità incredibili, ma anche un assassino privo di scrupoli, di cui nessuno conosce la vera identità.
Per l’ennesima volta è riuscito a mettere a segno il colpo e sfuggire alla polizia, in particolare all’uomo che è la sua nemesi, l’Ispettore Ginko (Valerio Mastandrea). Tutto fa supporre allora che il prossimo obiettivo di Diabolik sarà il diamante rosa di una ricca ereditiera, Lady Eva Kant (Miriam Leone), da poco rientrata a Clerville dal Sud Africa.
Mentre punta a quel gioiello di inestimabile valore, l’uomo resta però sedotto dal fascino di quella giovane vedova, per altro insidiata anche dal Vice Ministro della Giustizia, Caron (Alessandro Roia), pronto perfino a ricattarla pur di farne la sua promessa sposa.
Ma ora è la vita stessa del Re del Terrore a essere in pericolo. L’ispettore Ginko e la sua squadra hanno trovato finalmente il modo di stanarlo e questa volta Diabolik non potrà salvarsi da solo. Inizia così “la storia “oscuramente romantica tra Diabolik ed Eva Kant”.
Un sodalizio e una storia d’amore e ladrocinio destinata a diventare lo sfondo di un’infinita serie di avventure.
Diabolik: Recensione
Un film fuori dallo spazio e dal tempo, eppure immerso nello spazio e nel tempo del fumetto, nelle località immaginarie di Clerville, Bellevue e Ghenf, trovate nella realtà tra le strade di Milano, Bologna e Trieste, in particolare il porto sul mare di Portopiccolo.
Obiettivo del Diabolik dei Manetti era restituire integralmente atmosfere, struttura ed elementi distintivi del fumetto originale, tanto dal punto di vista narrativo che nell’attenta costruzione del comparto audiovisivo. Perché, secondo le loro stesse parole, un film non è un fumetto, e il fumetto originale c’è già.
L’opera di traduzione attraversa allora l’amore dei Manetti per Alfred Hitchcock, la cinematografia di genere degli anni ’70, gli sceneggiati Rai e le stesse ispirazioni delle sorelle Giussani, capaci di creare due personaggi rivoluzionari nell’incontro tra Noir, Giallo e un’idea di romanticismo che deve certo qualcosa alla grande tradizione del fotoromanzo e del romanzo d’appendice.
Resta solo da chiedersi se quella parte di critica che si scaglia oggi contro una eventuale lentezza di Diabolik, abbia mai sfogliato uno degli albi delle sorelle Giussani, oppure ne conservi un’immagine edulcorata, legata più al successo e l’aura dell’icona che non la sua reale storia editoriale.
Secondo un’analisi più obiettiva, gli autori hanno saputo invece tradurre in immagini i punti cardine di quello specifico linguaggio: primissimi piani, sguardi e baci appassionati, inseguimenti e fughe dalla polizia che non si risolvono nei termini contemporanei, quelli dell’Action e il Thriller, ma piuttosto attraverso l’ingegno, le soluzioni, le assurde invenzioni del Re del terrore.
Diabolik: l’eredità del cinema di Hitchcock, Melville e Billy Wilder
Per ragioni che sfuggono alla logica, una certa critica contemporanea sembra nutrire uno strano concetto di fan service. Termine che rappresenta il più imperdonabile dei mali, quando però si tratta di Diabolik e non di Matrix Resurrections o un qualunque supereroe dell’Universo Marvel.
Insensato forse giudicare il film con Luca Marinelli secondo gli standard del cinecomic contemporaneo, distinto dalla moltiplicazione spasmodica degli stimoli audiovisivi, ovvero un linguaggio incompatibile e lontanissimo dagli anni ’70, decennio di riferimento della sceneggiatura del film.
Ma anche più insensato accusare Diabolik di essere un’opera nostalgica, costruita per compiacere i vecchi fan del fumetto. Al contrario, il film è evidentemente il prodotto di due profondi conoscitori del Re del Terrore, ma anche del Giallo secondo Hitchcock, da Il sospetto a Intrigo internazionale a Caccia al ladro, come del Noir secondo Jean-Pierre Melville, Billy Wilder e Howard Hawks.
Se nel 1968 Mario Bava aveva acceso la parabola del suo Diabolik di luci psichedeliche, inquadrature distorte e un’ironia nera che non teme la deformazione né l’assurdo, il nuovo progetto torna all’idea di un omaggio autentico e radicale.
Un progetto che non è programmato per il pubblico, anzi lo sfida a riscoprire una diversa percezione del cinema, guardare agli stessi Diabolik, Ginko ed Eva Kant, perché le icone del fumetto tornino a rispecchiarsi sul grande schermo.
Amore e ladrocinio. Non c’è Diabolik senza Eva Kant.
Miriam Leone, Valerio Mastandrea e Luca Marinelli superano brillantemente la prova, mentre la sceneggiatura pone l’accento su uno degli aspetti più rivoluzionari del fumetto. Ovvero, la creazione di Eva Kant, personaggio Noir che non deve nulla alla tradizionale rappresentazione della crudele, infida femme fatale, e neppure allo stereotipo della donna del boss, bellissima e sottomessa.
Miriam Leone e i Manetti hanno saputo esaltare la natura di Eva Kant, figura assolutamente inedita per l’epoca, e insieme quel legame indissolubile e istantaneo che nasce dall’incontro con Diabolik. Un incontro di ingegno e amorosi sensi, dove l’erotismo, esattamente come nel fumetto, non è mai esplicitamente mostrato ma si esprime solo attraverso l’intensità di sguardi e allusioni.
Se la nascita del sodalizio tra Diabolik ed Eva è il cuore narrativo del film, la struttura e l’intreccio sono definiti dalla magnifica colonna sonora di Pivio e Aldo De Scalzi, pronta a invadere letteralmente lo schermo, scandire il ritmo dell’azione e dell’emozione.
Chiudono il cerchio i brani composti e interpretati da Manuel Agnelli, La profondità degli abissi e Pam pum pam, tanto che forse la chiave, il dualismo del film si rivela proprio tra le righe di queste canzoni.
A questo punto, se non l’avete già fatto, non ci resta che invitarvi a prendere un biglietto per Diabolik. Al netto di qualunque giudizio, resterà come una delle opere imprescindibili per comprendere questo decennio, questo periodo di profonda mutazione nel cinema italiano.
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