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21/12/2021

Draghi, il "migliore" inizia ad esser logoro

Anche “i migliori” inciampano. E sta accadendo in questi giorni a Mario Draghi, tra l’ammissione che sulla diffusione della variante Omicron “attendiamo i dati” (in pratica: non ne sappiamo molto e il tracciamento non esiste) e le consuete turbolenze nelle ultime ore prima dell’approvazione del testo – blindato – della “legge di stabilità”.

Accade sempre così, tutti gli anni, anche senza pandemia. Ma Draghi è stato collocato a Palazzo Chigi per dare una sterzata netta al “solito corso delle cose”, e quindi ritrovarsi a pasticciare su sub-emendamenti, caccia alle coperture, mal di pancia di “portatori di interessi” minimi, potenti ed indicibili, è quasi una prova dell’immodificabilità del marciume dominante.

C’è da aggiungere che neanche i poteri multinazionali euro-atlantici che ne avevano preteso l’investitura a premier sembrano saper bene come andare avanti. E lo dimostrano il solito lucido editoriale di Bill Emmott, ex direttore de l’Economist ed ora editorialista del Financial Times, che ne consiglia l’elezione a presidente della Repubblica. Contraddicendo proprio l’Economist, che invece vorrebbe vederlo ancora a Palazzo Chigi come “capo operativo”.

La “soluzione perfetta”, ammette anche Emmott, sarebbe proprio questa – ossia la continuità dell’azione del suo governo (e se va bene al Financial Times, noi non possiamo che augurarci il contrario) – ma è impossibile per motivi politici e pratici. Comunque vada, tra un anno si vota, e gli ultimi sei mesi passati in campagna elettorale ne farebbero un premier dimezzato dai veti reciproci tra i partiti.

In ogni caso, dunque, a Palazzo Chigi arriverebbe poi un altro inquilino, perché “l’unità nazionale” imposta con la mazza ferrata difficilmente potrebbe essere confermata senza almeno un periodo – più o meno lungo – di tentativi falliti di formare un governo credibile. Non nei confronti dei cittadini, ma dell’Unione Europea e dei “mercati”.

Spiega infatti Emmott: “ciò di cui c’è bisogno è che l’equilibrio nella politica italiana penda più verso l’implementazione di lungo periodo delle riforme, in modo che tengano anche con futuri governi“.

Il Recovery Fund copre l’arco da qui al 2026 compreso, meglio dunque che Draghi assuma le vesti “semipresidenzialiste”, che lo metterebbero in grado di controllare minuziosamente l’azione di un esecutivo comunque subordinato: nel programma economico e nelle evoluzioni internazionali.

“Occorre che gli equilibri della politica italiana si spostino verso l’accettazione e l’attuazione a lungo termine di tali riforme, affinché possano durare attraverso i successivi governi”. E questo mutamento di prospettiva potrebbe essere aiutato “da un capo di Stato tenuto in grande considerazione in patria e all’estero, in altre parole Mario Draghi“.

Come si vede, il potere economico non ci gira intorno: Draghi “lo abbiamo voluto noi” e deve poter fare quel che anche lui ha teorizzato (e praticato) per quasi un trentennio. La classe politica italiana – espressione ormai di una piccola e media borghesia senza peso né proiezione internazionale – non è in grado di farlo da sola.

Ma l’Italia deve anche per forza avere un piede nel “triangolo di comando” nell’Unione Europea. Se fosse troppo azzoppata o instabile rischierebbe di far saltare un’intera ambizione strategica a livello europeo.

In questo, c’è un giudizio definitivo – quasi disperato, da un punto di vista opposto al nostro – sull’attuale personale che occupa le poltrone in Parlamento. Nessuno escluso.

Del resto, da quando Tangentopoli e “il populismo giudiziario” hanno eliminato e delegittimato la precedente Prima Repubblica, “fare il politico” è diventato quasi un insulto. Peggio: tutti pensano che “lassù” non ci sia altro da fare che mettersi in tasca un po’ di soldi e vidimare richieste di Confindustria, dell’Abi o di ConfCommercio. Guarda caso le nuove restrizioni anti-covid, nonostante i dati in crescita, le fanno partire dopo, e non durante, lo shopping natalizio.

“La società civile” da allora è “scesa in campo” e di statisti – del livello di Angela Merkel, diciamo, o qualcosa del genere – non se deve vedere più nemmeno traccia. Attori, per lo più comici, esecutori di ordini o arraffoni da quattro soldi, un corteo in cui ognuno è solo “un povero commediante che si pavoneggia e si agita, sulla scena del mondo, per la sua ora, e poi non se ne parla più; una favola raccontata da un idiota, piena di rumore e di furore, che non significa nulla”.

Al dunque, fuori dai tecnicismi imperscrutabili che nascondono decisioni economiche colossali, Mario Draghi non si sta rivelando migliore degli altri. O perlomeno non abbastanza da spianare la scena, come negli auspici dei “mercati”.

La vera “resilienza” è insomma quella della vecchia fogna italica, che ora vede la possibilità di decidere chi sarà il prossimo presidente della Repubblica oppure, almeno, il prossimo premier. E ognuno pensa “io”, tra quei quattro o cinque che figurativamente dirigono quel che viene chiamato “un partito”.

Il potere vero paga la crisi della propria egemonia e credibilità e la scarsità di “statisti” che potrebbero trasformare gli input esterni in sistemi di governo funzionanti. Ma, del resto, sono stati proprio gli uomini di Bruxelles, Francoforte e della City londinese a far strage di statisti (non erano poi molti neanche prima, in verità...).

Ora stanno lì, con la sola figurina di Mario Draghi spendibile per qualsiasi carica, ma senza partner né sostituti né vice altrettanto “credibili”. E neanche i media più servili del mondo possono crearne uno in pochi mesi.

Così “l’Europa” e “i mercati” si ritrovano nella posizione degli Usa in Afghanistan. Hanno droni e bombardieri per spianare chiunque li ostacoli (a forza di spread, direttive, trattati, Fiscal Compact, ecc.), ma non possono governare in pace neanche una massa di montanari un po’ incolti.

Al confronto, facendo zapping tra i talk show, persino Cirino Pomicino fa la figura di un vero statista...

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