Fine del denaro a costo zero e dei “rendimenti negativi”. La mossa della Federal reserve statunitense, annunciata ieri dal suo presidente Jerome Powell, chiude un lungo decennio di tassi di interesse praticamente nulli e apre una fase dai contorni tutt’altro che definiti.
La mossa ha una ragione empirica evidente: il tasso di inflazione Usa, a novembre, è arrivato al 6,8%, come non accadeva da 39 anni. La componente core – il contributo dei prezzi energetici – è del 4,9%. Significa che questa inflazione non dipende dai livelli salariali (negli Usa precipitati a livelli quasi “italiani”), ma quasi esclusivamente dai prezzi internazionali.
Quel che neanche Powell dice è che questa abnorme crescita dei prezzi energetici (gas, petrolio, ecc.) è frutto non solo di una “ripresa” mondiale della produzione dopo i lunghi lockdown dovuti alla pandemia, ma anche e forse soprattutto alle tensioni geopolitiche sollevate dall’Occidente (che vede ormai prossimo il “sorpasso” cinese) e alla speculazione finanziaria.
Quest’ultima, in particolare, resa molto aggressiva proprio dal lungo periodo di tassi zero, rendimenti negativi e iniezioni di liquidità che non arrivavano mai all’economia reale.
Ora ci arrivano, si può dire, ma nelle forme tipiche della speculazione: come intermediazione sulle materie prime energetiche (ma anche su metalli per le nuove tecnologie, come litio, cobalto, ecc.).
Un’inflazione bastarda e atipica, insomma, che però può essere affrontata da una banca centrale come tutte le altre volte: con l’aumento dei tassi di interesse. Anche a costo di “gelare” la ripresa mentre è ancora in fasce, ossia ad un punto in cui non sono stati ancora recuperati i livelli pre-pandemia.
In poche settimane la Fed ha così archiviato la tesi dell’inflazione solo “temporanea”, che consigliava prudenza nell’interrompere i propri flussi di acquisti (iniezioni di liquidità) sui mercati, escludendo così anche qualsiasi ipotesi di aumento dei tassi.
Al contrario, mette in programma almeno tre rialzi nel corso del 2022, verosimilmente dello 0,25% ognuno. Ma in tempi così incerti, ogni previsione può essere stravolta in pochi mesi.
Anche la Bce sarà obbligata a seguire la stessa strada, mettendo fine negli stessi tempi – entro marzo – al proprio programma di acquisti di titoli, il Pepp.
Le borse hanno reagito bene, ma ovviamente andrebbe distinto l’andamento dei titoli finanziari – che beneficiano certamente di questa “stretta” annunciata, visto che il denaro che gestiscono riprenderà a “fruttare” anche se usato per l’acquisto di titoli di stato – da quello dei titoli industriali, che invece “soffriranno” un costo del denaro più alto.
Inutile dire che per lavoratori dipendenti e disoccupati questa notizia è pioggia sul bagnato. A meno che non inizi un clamoroso ciclo di lotte a livello internazionale, in tutto l’Occidente neoliberista, i loro salari sono destinati a restare inchiodati mentre i prezzi aumentano e la “ripresa” rallenta, traducendosi in minore riassorbimento della disoccupazione dovuta alle chiusure pandemiche.
Dal punto di vista “sistemico”, comunque la si giri, è il fallimento della strategia monetaria con cui le banche centrali neoliberiste hanno affrontato la crisi dal 2008 in poi. Con il quantitative easing avevano salvato il sistema finanziario, favorendo il perdurare della speculazione, mentre i sistemi industriali andavano deperendo a forza di delocalizzazioni.
Ora c’è un’inversione di rotta che avrà effetti ancora un volta pessimi sull’economia reale occidentale, mentre la grande finanza avrà agio per lanciarsi in nuove avventure dall’esito già noto: bolle speculative pronte ad esplodere.
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