Per fortuna sembra non esserci ancora identità di vedute nel confronto sulla previdenza tra governo e sindacati. Rimane la distanza sulle scelte da compiere per il 2023, una volta che si sarà esaurito l’esperimento di Quota 102 voluto da Draghi. L’ultima volta, era il 2012, nei confronti della controriforma Fornero furono fatte addirittura... tre ore di sciopero e “la Fornero” passò liscia come l’olio con qualche lacrima di circostanza.
Il governo, come fatto fin qua, evoca soluzioni condivise ma considera quella di pensioni interamente basate sul sistema contributivo per tutti la via maestra da seguire, soprattutto nel caso dei trattamenti anticipati, e non appare disposto a investire sulla spesa pensionistica, che è già una “vigilata speciale” da parte di Bruxelles. Tant’è che per il mini-pacchetto sulle pensioni inserito nella Legge di Bilancio sono stati messi a disposizione solo 600 milioni.
CgilCislUil insistono sulla necessità di una flessibilità in uscita, già dai 62 anni d’età o con 41 anni di versamenti a prescindere dalla soglia anagrafica, e sulla necessità di non penalizzare troppo i pensionandi con assegni interamente “contributivi” che potrebbero ridursi anche di oltre il 30%.
Ma oltre l’Unione Europea anche gli altri alfieri del neoliberismo, come l’Ocse, sparano a palle incatenate contro la corsa della spesa pensionistica italiana criticando il ripetuto ricorso negli ultimi anni a deroghe alla legge Fornero, a partire da Quota 100. Eppure la stessa Ocse ha dovuto ammettere che nel nostro Paese chi comincia a lavorare oggi riuscirebbe ad andare in pensione non prima dei 71 anni d’età.
L’Analisi della Fondazione Di Vittorio (Cgil) contesta questa visione ed evidenzia come il ricalcolo contributivo del trattamento pensionistico produrrebbe un taglio “importante e iniquo” che potrebbe anche superare il 30% dell’assegno lordo.
Lo studio sottolinea che per una retribuzione di 20mila euro lorde e con 30 anni di contribuzione complessiva, con una carriera lineare e 15 anni di contribuzione al 31 dicembre 1995, la pensione lorda mensile passerebbe da 870 euro con il sistema misto a 674 euro con il ricalcolo contributivo, un taglio pari al 22,6%. Una differenza che in questo caso per un soggetto che anticipa a 64 anni l’uscita con il ricalcolo contributivo peserebbe per 19.344 euro di pensione in meno nell’intero periodo di pensionamento.
È emerso poi il problema di forme di tutela pensionistica per i giovani con carriere lavorative discontinue – una sorta di “pensione di garanzia” – per garantire un trattamento pensionistico adeguato alle giovani generazioni anche attraverso la valorizzazione “gratuita”, a fini previdenziali, dei periodi di formazione e di inoccupazione legati a politiche attive. L’assegno sarebbe di tipo contributivo e ne beneficerebbero soprattutto i nati dopo il 1970, spesso alle prese per lunghi periodi di tempo con lavori precari.
Insomma, come scriveva qualche giorno fa sul nostro giornale Francesco Filiera, l’adeguamento dell’età lavorativa all’allungamento della vita media diventa un fattore che farà passare alla storia il capitalismo come l’unico sistema sociale in cui “vivere più a lungo” corrisponde a una cattiva notizia per la società.
Il quadro pensionistico oggi
Secondo i dati dell’Inps, i pensionati al 2020 in Italia sono circa 16 milioni. Per le pensioni ogni anno si utilizzano circa 307 miliardi di euro. Il reddito da pensione medio mensile è di 1.958 euro. IL 97% dei pensionati percepisce una media di 1600 euro mensili.
Con riferimento agli importi medi, le pensioni anticipate/di anzianità sono quelle più elevate (1.851 euro mensili), quelle di vecchiaia sono di 879 euro mensili, quelle di invalidità di 964 euro mensili; infine le pensioni ai superstiti hanno importi pari a circa il 58% di quello delle precedenti categorie (718 euro mensili). Le prestazioni assistenziali si attestano intorno ai 460 euro mensili.
Sintetizzando i dati a disposizione emerge che ci sono 5,3 milioni di pensionati con pensioni sotto i mille euro al mese e che pesano per il 12% sulla spesa pensionistica. 585 mila pensionati con pensioni sopra i 4mila euro mensili pesano invece per il 13,2%.
I primi “costano” 35 miliardi i secondi oltre 40 miliardi. In mezzo c’è la platea che prende dai 1000 ai 3900 euro mensili di pensione (una differenza non certo irrilevante) e assorbe circa 230 miliardi all’anno (il 75%) della spesa pensionistica che, come abbiamo visto, vale circa 307 miliardi.
Le prestazioni previdenziali rappresentano l’81% del totale e quelle assistenziali il 19%. La categoria più numerosa è rappresentata dalle pensioni di anzianità/anticipate con il 30,9% del totale, seguita da quella delle pensioni di vecchiaia con il 24,5% e dalle pensioni ai superstiti con il 20,5%; le prestazioni agli invalidi civili sono il 15,3% del totale; per ultime, le prestazioni di invalidità previdenziale e le pensioni/assegni sociali sono rispettivamente il 5,0 e il 3,9%.
Nel 2020, le prestazioni di tipo previdenziale erogate dall’INPS sono per il 49% a carico del Fondo Pensioni Lavoratori Dipendenti, con un importo lordo medio mensile pari a circa 1.200 euro. Il 30% è a carico della Gestione Lavoratori Autonomi e Parasubordinati (importo medio pari a 800 euro) e il 18% è a carico della Gestione Lavoratori Pubblici (importo medio 1.900 euro).
La “fuffa” delle pensioni integrative private
Stando all’ultima rilevazione disponibile fornita dal Covip, in Italia sono 8,445 milioni i soggetti iscritti ad un fondo di pensione complementare su una platea lavorativa di 22 milioni di lavoratrici e lavoratori dipendenti e autonomi.
Secondo il rapporto annuale dell’Inps 2021, su 14,451 milioni di lavoratori dipendenti, solo 12,636 milioni sono a tempo indeterminato e 1,765 milioni sono a tempo determinato. Di entrambi ben 3,273 milioni sono a part time, quindi con retribuzione e contributi ridotti.
Praticamente solo 11,267 milioni potrebbero disporre di un minimo di risorse retributive per pagarsi anche una minima pensione integrativa. A oggi da questa “gamba” – sventolata e sostenuta come l’unica soluzione – restano dunque esclusi 6 milioni di lavoratrici e lavoratori, quelli con retribuzioni e contributi più bassi e quindi destinati a pensioni da miseria nonostante una vita di lavoro.
Non solo. L’opacità dei fondi pensioni complementari è tanta che per farli digerire ricorrono anche alla truffa del silenzio-assenso per incastrarci dentro lavoratrici e lavoratori magari distratti, inconsapevoli o poco informati.
Un dato è certo, con retribuzioni basse e bassissime come quelle di lavoratrici e lavoratori italiani non c’è materia per la previdenza complementare privata. Inevitabile quindi che debba essere la previdenza pubblica a farsi carico di chi lavora oggi e di chi ha lavorato.
A meno che non si intenda rimettere segmenti crescenti della società in mano al “buon cuore” della Caritas e far tornare il paese alle disuguaglianze dell’Ottocento.
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