“Un vero e proprio organismo associativo elevato a Sistema, che ruotava attorno all’illegale approvvigionamento di risorse pubbliche”.
Per il Tribunale di Locri era questo il “modello Riace” messo in piedi da Mimmo Lucano, condannato, in primo grado a 13 anni e 2 mesi di carcere, alla fine del processo “Xenia”. Scrive così Il giudice Fulvio Accurso nelle motivazioni della sentenza emessa a fine settembre scorso.
Nel provvedimento si parla di un “sistema che si basava su una piattaforma organizzativa collaudata e stabile, che si avvaleva dell’esperienza e della forza politica che Lucano possedeva e che questi esercitava in forma padronale ed esclusiva, tanto da indurre tutti al silenzio [...] l’encomiabile progetto inclusivo dei migranti, che si traduceva nel Modello Riace, invidiato e preso ad esempio da tutto il mondo”.
Ma lo stesso “si sarebbe reso conto che dal modello Riace avrebbe potuto garantirsi una comoda vecchiaia. E per questo avrebbe investito denari pubblici per futuri investimenti immobiliari che gli avrebbero consentito oltre a una visibilità politica un futuro tranquillo sul piano economico” salvo poi ribadire, che Mimmo Lucano “non ha nemmeno un euro nel proprio conto corrente”.
Secondo Accursio, Mimmo Lucano avrebbe ”strumentalizzato il sistema dell’accoglienza a beneficio della sua immagine politica” mettendo in piedi un’organizzazione “tutt’altro che rudimentale, che rispettava regole precise a cui tutti si assoggettavano, permeata dal ruolo centrale, trainante e carismatico di Lucano il quale consentiva ai partecipi da lui prescelti di entrare nel cerchio rassicurante della sua protezione associativa, per poter conseguire illeciti profitti, attraverso i sofisticati meccanismi, collaudati negli anni e che ciascuno eseguiva fornendogli in cambio sostegno elettorale[...]".
Domenico Lucano, “dopo aver realizzato l’encomiabile progetto inclusivo dei migranti, che si traduceva nel Modello Riace, invidiato e preso ad esempio da tutto il mondo, essendosi reso conto che gli importi elargiti dallo Stato erano più che sufficienti, aveva pensato di reinvestire in forma privata gran parte di quelle risorse, con progetti di rivalutazione del territorio, che, oltre a costituire un trampolino di lancio per la sua visibilità politica, si sono tradotti nella realizzazione di plurimi investimenti che costituivano una forma sicura di suo arricchimento personale (?), su cui egli sapeva di poter contare a fine carriera, per garantirsi una tranquillità economica che riteneva gli spettasse, sentendosi ormai stanco per quanto già realizzato in quello specifico settore”.
Per il Tribunale “nulla importa che l’ex sindaco sia stato trovato senza un euro in tasca perché ove ci si fermasse a valutare questa condizione di mera apparenza, si rischierebbe di premiare la sua furbizia, travestita da falsa innocenza, ignorando però l’esistenza di un quadro probatorio di elevata conducenza, che ha restituito al Collegio un’immagine ben diversa da quella che egli ha cercato di accreditare”.
In tutta evidenza, siamo davanti ad un teorema giuridico monstre, ovvero, ad un classico caso di ipotesi “criminale” che si suppone valida fin dall’inizio e di una tesi che si cerca, in tutti i modi, di individuare, o si pretende di individuare.
Una serie di asserzioni con pretese di esemplarità e di assolutezza che poi non mancano di appellarsi ad un quadro probatorio “di elevata conducenza”, senza, però, chiarire quale relazione materiale, concreta, vi sia tra i fatti contestati a Mimmo Lucano e l’esistenza di un suo fantomatico “disegno criminale”.
Tutto lo sconclusionato teorema giuridico si basa sull’arbitrario collegamento di alcuni atti di Mimmo Lucano – gli investimenti di risorse pubbliche – con ciò che egli stesso definisce, in un certamente involontario lapsus, “progetti di rivalutazione del territorio”.
Quei progetti che per Accursio altro non erano, però, che un “trampolino di lancio per la sua visibilità politica” e che per il medesimo si sarebbero tradotti nella “realizzazione di plurimi investimenti” e “una forma sicura di suo arricchimento personale su cui egli sapeva di poter contare a fine carriera per garantirsi una tranquillità economica che riteneva gli spettasse, sentendosi ormai stanco per quanto già realizzato in quello specifico settore”.
Un delirio di congetture ed illazioni di proporzioni inusitate – secondo cui proprio l’inesistenza di prove costituirebbe “una prova” – che difficilmente potrà reggere ad un secondo grado di giudizio. Ma intanto i danni e le ferite restano, tanto alla persona di Mimmo Lucano quanto a quel po’ che rimane di convivenza civile e solidale, e non si cancelleranno facilmente.
Dal complesso di queste motivazioni a sostegno della scandalosa sentenza che ha inflitto una pena di inaudita durezza nei confronti di Lucano, emerge, in tutta evidenza, un fumus persecutionis e le argomentazioni usate non sembrano affatto dettate dalla mera applicazione della legge e da una ricerca della verità, quanto, invece, dall’intenzione implicita di colpire personalmente e politicamente Mimmo Lucano, divenuto, suo malgrado, un simbolo ed un modello scomodo.
Un “nemico” non solo per coloro che hanno cavalcato, per pura demagogia, in tempi e modi diversi, la xenofobia, il razzismo e la ricerca di facile consenso ma, anche, per tutto un sistema che trae profitto, ogni giorno, dallo sfruttamento, sistematico e selvaggio, dei migranti ai quali non viene riconosciuto, ancora oggi, alcun diritto.
Basterebbe semplicemente chiedersi da dove viene gran parte del cibo che troviamo tutti i giorni in vendita sugli scaffali della grande distribuzione commerciale.
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