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17/12/2021

Uno sciopero, e poi?

Adesso che è passato, si può forse ragionare più seriamente sul significato dello sciopero generale convocato da Cgil e Uil.

Lasciamo da parte le polemiche sui numeri delle adesioni. In ogni caso uno sciopero dimezzato dalla Commissione di garanzia e dalle stesse intenzioni “responsabili” (fuori sanità e scuola, che si era in parte fermata una settimana prima), è difficile che possa essere trascinante.

Aggiungiamoci pure che sette anni di passività assoluta dei “sindacati complici” (Cisl in testa in questa ignobile classifica), in cui la condizione dei lavoratori è peggiorata costantemente senza che nessuno muovesse un dito in quei palazzi, non deponevano a favore di una grande credibilità degli improvvisati “condottieri”.

Tutte le categorie di lavoratori – come ben sanno i sindacati di base, unico argine conflittuale in tutti questi lunghi anni – vivono una condizione di passività e rassegnazione da cui si scuotono, purtroppo, solo quando una fabbrica chiude o delocalizza. Ma soltanto in quella fabbrica o in quel comprensorio, senza alcuna generalizzazione della protesta.

Quasi paradossale, perché intanto il malessere sociale cresce, dentro e fuori i luoghi di lavoro, ma non riesce a trovare visioni e rappresentanza alternativa, accumulando frustrazione e debolezza.

Il che, ovviamente, diventa la condizione per molte sconfitte di fila.

Insomma, non poteva essere quel bagno di massa sempre sognato dalle tante piccole “mosche cocchiere” pronte a seguire le mobilitazioni sperando di poter guadagnare punti e consensi. La prima regola della lotta politica e sindacale è infatti semplice: chi organizza raccoglie, chi aderisce guarda.

Sgombrato il campo dalle considerazioni inutili, c’è intanto da constatare il trattamento mediatico riservato a Cgil e Uil, praticamente lo stesso cui sono abituati i sindacati di base e le piccole organizzazioni della sinistra radicale: poca copertura, sopratutto negativa o fortemente critica.

Peggio ancora dal fronte dei partiti, ben articolato tra indifferenti o indispettiti (Cinque Stelle e Pd) e nemici strafottenti (berlusconiani, meloniani, Lega – che pure vantava un primato nel voto operaio, qualche tempo fa).

Anche qui, un apparente paradosso: due organizzazioni che non hanno voluto indicare nessun nemico, per una mobilitazione comunque “di opposizione”, si ritrovano ad avere davanti solo nemici.

Per la prima volta, insomma, il sindacalismo accomodante è stato espulso dal novero dei soggetti abilitati a dire la propria in materia di manovra, annichilendo quel “ruolo politico” alla cui difesa avevano per 30 anni sacrificato gli interessi dei lavoratori.

Finita un’epoca, finito un ruolo. Nel nuovo assetto che Mario Draghi e il capitale multinazionale europeo vanno disegnando, non è previsto che le organizzazioni sindacali – di nessun genere – possano partecipare alle decisioni della “politica”. Possono gestire vertenze locali, aziendali, ma non incidere sulle scelte del governo.

Del resto, a quel che si vede nei lavori parlamentari, neanche Camera e Senato – “la politica”, nel vecchio mondo – riescono più a profferir parola.

I testi della legge di stabilità – la più importante dello Stato, perché determina quali settori sociali ci perdono e quali ci guadagnano dalle scelte governative – vengono presentati a giochi già chiusi, senza alcuna discussione né, tanto meno, possibilità di cambiamento.

Il nuovo assetto dei poteri disegnato da Trattati europei, Recovery Fund e PNRR è molto più “verticale” e non modificabile con la contrattazione politica o sindacale. È una governance ritagliata sulla logica aziendale, che non prevede contendibilità democratica a nessun livello.

Dunque, in questo quadro, uno sciopero generale depotenziato per motivi oggettivi e soggettivi, quali obiettivi poteva raggiungere?

Non certo quello di ottenere modifiche alla legge di stabilità, già da giorni consegnata all’Unione Europea e non modificabile (se non da Mario Draghi stesso). Ma quello di marcare un limite dopo che già era stato superato.

In altri termini, come ci è capitato di scrivere, Cgil e Uil sono state costrette a dichiarare lo sciopero per provare a restare in vita, per mantenere un ruolo.

In qualche misura lo ha ammesso anche Maurizio Landini: «Ci hanno detto che questo sciopero è anche politico. Sì. Noi stiamo facendo politica nel senso più vero e nobile del termine, come dovrebbe fare chi è votato per fare politica. Noi abbiamo intenzione di cambiare il paese e non abbiamo intenzione di fermarci».

Lo spazio individuato è gigantesco, perché il nuovo assetto dei poteri “europeisti” è finanziariamente fortissimo (gestisce moneta, prestiti, spread, sanzioni mirate, ecc.), ma socialmente inconsistente. Il grande capitale è roba per pochi eletti e un piccolo esercito di funzionari, ma già media e piccola borghesia restano tagliate fuori (questo spiega i sondaggi pro-Meloni).

È insomma lo spazio tutto politico tra società e potere: «Sta aumentando la distanza tra il palazzo della politica e il paese. Noi invece diamo voce al disagio sociale che c’è, abbiamo bisogno di prendere la parola e farebbe bene chi è in parlamento ad ascoltarci».

Comprensibile che tra le piccole forze della sinistra residuale si tiri un sospiro di sollievo immaginando che qualcun altro possa “muovere le masse” che non rispondono ai propri appelli.

Ma va onestamente ricordato che questa “ribellione all’estinzione”, da parte di Cgil e Uil, poggia su basi davvero fragili. Basti ricordare le infinite dichiarazioni di Bombardieri e Landini sulla “disponibilità al dialogo” di Mario Draghi contrapposta alla “chiusura di una parte dei partiti della maggioranza”.

Una lettura che farebbe ridere se non fosse tragica, nelle conseguenze pratiche, perché se non si riconosce il “nemico principale” – Mario Draghi è notoriamente uno delle principali teste pensanti della Troika che ha distrutto la Grecia e i suoi tentativi “riformisti” – è difficile poter resistere in un conflitto aspro.

Talmente aspro che persino Cgil e Uil non vengono più riconosciuti come “attori di peso sufficiente”, aventi diritto a dire la propria sulle scelte generali che riguardano il Paese.

Stiamo entrando in un altro mondo, pre-bellico o “ipercompetitivo”. Un mondo in cui lo spazio e le movenze della “concertazione” sono stati cancellati. E chi cammina con la testa voltata all’indietro, sperando in un ritorno al vecchio mondo antico, di solito si schianta contro un palo.

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