La canzone che ha più il potere di deprimermi è 'Wonderful World' di Sam Cooke. Oppure 'Wouldn't It Be Nice' dei Beach Boys. Anzi, mettiamola così: tutte le canzoni che trasmettono positività e allegria, a me fanno venire una tristezza infinita. Perché dentro di te sai che le cose, nella realtà, saranno sempre diverse.
(Mark Lanegan)
Disincanto,
rabbia sommessa, malinconia senza sentimentalismi, felice nell'oscurità
e nella tristezza perché è reale e gli appartiene; la frase sopra
riportata riassume, in sintesi, il Lanegan-pensiero, ciò che si può
ritrovare nei lavori solisti di una delle voci più evocative e profonde
del cantautorato degli ultimi anni.
Nato
il 25 novembre del 1964 a Ellensburg, anonima cittadina dello Stato di
Washington, Mark Lanegan è solo un appassionato ascoltatore di musica
fin quando, incontrando a Seattle due suoi vecchi amici, i fratelli Gary
Lee e Van Conner, si unisce a loro e a Mark Pickerel per formare una
band, gli Screaming Trees.
Il gruppo, autore di un "hard-rock psichedelico" (definizione dello stesso Lanegan), raggiunge una discreta popolarità a livello internazionale anche grazie al movimento grunge che in quel periodo conosce il periodo di massimo splendore e nel quale il quartetto è da tutti inserito, pur avendo connotati poco riconducibili a Nirvana, Pearl Jam e compagnia.
Nonostante
le discrete fortune del gruppo e i buoni rapporti che intercorrono tra i
componenti, Lanegan avverte la necessità di intraprendere una carriera
parallela nella quale riversare le vere tendenze musicali che sente
dentro, le passioni per i folksinger alla Leonard Cohen,
Tim Hardin, Fred Neil, Dino Valente, inclinazioni che di dimostreranno
straordinariamente diverse dal tipo di musica espresso fino a quel
momento con i fratelli Conner e dal grunge in generale, nonché più
idonee a esprimere i recessi più profondi del suo animo.
Il primo distacco e la rivelazione
And my mind is an opened door/ with nothing inside
Già nell'album di debutto, The Winding Sheet
(Sub Pop, 1990), si può capire quanto il progetto solista che Lanegan
ha intenzione di intraprendere sia lontano anni luce dalle strade
percorse finora.
Sebbene, infatti, si riscontrino echi riconducibili al lavoro degli Screaming Trees, per esempio nella movimentata "Down In The Dark", tutto l'album è pervaso da quel senso di dolce oscurità, da quel folk annerito di blues che finirà per diventare tratto inconfondibile e marchio di fabbrica del lavoro solista di Lanegan.
La voce tremante e sofferente nel folk di fantasmi e solitudine della title track,
che raschia i bassifondi in cerca di fuga dall'alienazione con l'oblio
in "Ugly Sunday" o tra la cui leggerezza si nasconde un demone ("fear
and paranoia run together in my dreams") in mezzo al violino tagliente
di "Undertow": è in questa dimensione che Lanegan capisce di poter
sfruttare al meglio le sue doti vocali e interpretative.
Con l'aiuto di Mike Johnson e di svariati amici (tra i quali Kurt Cobain e Chris Novoselic),
Mark riesce a forgiare una personale versione di folk che guarda sì ai
maestri fondatori (il folk-blues finale di "I Love You Little Girl"), ma
che possiede una propria personalità, sottolineata in maniera decisa
dalla forza d'interpretazione del cantante, come nelle grida sommesse di
"Ten Feet Tall", negli acuti in falsetto di "Wild Flowers" e,
soprattutto, nella cover leadbellyana "Where Did You Sleep Last Night?", con l'apporto dei due Nirvana, che comincia con un andamento solenne e funereo, per poi esplodere di strazi urlati nel finale.
I testi rispecchiano la temperie attuale dell'autore: una lotta con i propri demoni che si risolverà solo più avanti e che qui sembra aver cominciato a presentarsi in maniera decisa.
Prima che l'amico Layne
Staley interpretasse "Down In A Hole", Mark canta "I think my blood
might boil/ then my veins might burn" in "Down In The Dark"; ma ce n'è
ancora prima di toccare il fondo e ricominciare.
Convivenza e consapevolezza
Here comes the devil, prowl around
one whiskey for every ghost
and I’m sorry for what I’ve done
cause it’s me who knows what it cost
Passano tre anni, gli Screaming Trees viaggiano tra alti e bassi, trascinati dall'hype
grunge che invade tutto il mondo, grazie anche al supporto di alcune
pellicole cinematografiche, ma quello in cui vive il cantante di
Ellensburg è un mondo di fantasmi, una vita di alcool ed eroina.
Meno personaggio di Cobain, ma ridotto anche peggio, Mark troverà modo di esorcizzare il demone con Whiskey For The Holy Ghost (Sub Pop, 1994), quello che forse è il suo capolavoro più compiuto.
Sul tavolo ritratto in copertina, una bottiglia di whiskey,
un bicchiere, un pacchetto di sigarette e portacenere pieno, una
Bibbia; la dannazione e la redenzione che si abbracciano, o forse
lottano per prevalere, nel mezzo, Lanegan che, scrivendo tutte le
canzoni e riducendo l'apporto di Johnson col quale divideva il lavoro
nell'album precedente, sfodera una serie di pezzi da brividi lungo la
schiena. Il canto-preghiera ubriaca della title track, ad
esempio, nelle cui impennate Lanegan fornisce una prova vocale e
interpretativa rimarchevole. Oppure "Kingdoms Of Rain", colonna sonora
del western più triste e desolato possibile, con svisate di organo come
folate di vento secco. E, ancora di più, "Riding The Nightingale",
deriva vocale alla maniera del Buckley padre, tra acuti e bassi accompagnata solo da pochi accordi di acustica e da un leggero coro.
È tutto una dicotomia tra bene e male nella lotta dell'anima per salvarsi, canzoni sulfuree e striscianti ("Judas Touch") che convivono con tiepidi soli ("El Sol") e pacificazioni di sassofono ("Sunrise"), il folk in timor di Dio di "Pendulum" o quello blues scarno e roco di "Dead On You".
In conclusione, "Beggar's Blues", piedi per terra, in
mezzo alla polvere, senza sapere dove andare e quale strada scegliere,
sempre che ci sia un bivio possibile, sempre che non arrivi il momento
in cui una delle due vie diventi il burrone in cui sei già stato e che
non vuoi conoscere più.
Espiazione e rinascita
Sixteeeenn
È
il 1997 e Lanegan viene arrestato per sospetto possesso di sostanze
stupefacenti, in tribunale con l'avvocato buono se la cava, ma ormai
anche lui sa di essere ridotto più a un'ombra che a un uomo e decide di
finirla passando per la disintossicazione in clinica.
In Scraps At Midnight
(Sub Pop, 1998), composto al Rancho De La Luna, nel deserto
californiano, Lanegan è un uomo cambiato. "Il disco mi coglie in un
momento della vita dove ci sono felicità e speranza", dice, e nei brani
trapelano in qualche modo queste sensazioni, anche se ad aprire la tracklist
è "Hospital Roll Call", in cui Mark urla e ripete solo una parola:
"Sixteen", come il numero della stanza in cui è ricoverato per la sua
cura; gli strumenti in libertà trasfigurano la confusione e le
sciabolate di chitarra la sofferenza.
Poi però quasi tutto è quieto, il folk riflessivo di "Hotel", il cuore sgravato di "Stay", il lento per slide e piano di "Bell Black Ocean" sembrano voler spazzare via il lato oscuro.
La solitudine e la pace paiono regnare in quel misto di Tim Hardin e Nick Drake che è "Day And Night", con il tremore di un'armonica sullo sfondo, e nella bellissima ballata sognante di "Last One In The World", uno dei migliori addii in musica mai realizzati.
Ma non tutto è stato semplice e come al solito Lanegan attraverso le sue canzoni descrive tutto in modo diretto: ci sono le sofferenze di notti insonni, "praying for sleep / praying for something so easy", nel notturno per piano e chitarra di "Praying Ground", oppure oneste dichiarazioni d’intenti ("pull all my shit together/ try for another breath") nel country-western alla Waits di "Day And Night".
La pace e l'armonia si perdono alla fine, "Because Of This" è tremore, disordine, vibrazioni e pugnalate, lotta fisica e mentale di un corpo che si contorce su sé stesso per purificarsi e tornare a uno stadio normale.
Il disco non è all'altezza dei precedenti, forse perché di
passaggio, di transizione verso una fase in cui bisogna raccogliere i
pensieri, concentrarsi e ricompattarsi, partire da punti fermi per
costruire, con solide fondamenta, una nuova carriera.
Un omaggio alle radici
I'm working
on the program
every day
Se il disco precedente era frutto di una fase di mutamento, I'll Take Care Of You (Sub Pop, 1999) rappresenta un omaggio a quelle che Lanegan considera le radici del proprio lavoro da solista.
La voce è pulita, libera dai danni di alcool e stravizi accumulati in precedenza, il sound è morbido, soffuso. Lanegan diventa crooner tra attimi di quasi-jazz ("Creeping Coastline Of Light"), spiritual sofferti e sentiti ("On Jesus Program") e organi sospesi a tratteggiare amori ritrovati ("Together Again").
Ma soprattutto, si diceva, è un disco di tributo; prima di tutti all'amico e fonte d'ispirazione Jeffrey Lee Pierce, del quale riprende, con semplicità commovente, "Carry Home", poi Tim Hardin nel folk punteggiato di piano e violino country di "Siloh Town", l'ovvio Fred Neil omaggiato dall’incrocio di voci nella sublime "Badi-da" e i meno conosciuti Tim Rose (il blues vibrante e psichedelico della finale "Boogie Boogie") e Dave Van Ronck (il western ubriaco e solitario di "A Shanty Man's Life").
L'interpretazione è la chiave di tutto, l’onestà e il rispetto della canzone nonostante l'adattamento personale, come nel soul avvolgente, caldo e sensuale di "Consider Me" o nel traditional "Little Sadie", con una prova tra l'ultimo Cash e lo Steve Earle più fuorilegge.
Da qui si (ri)partirà per una nuova strada, forse meno graffiante e sincera della precedente, ma ugualmente ragguardevole.
La maturità e gli anni a venire
Got no need for shelter
everything's forgotten
all is forgiven and understood
Mark
Lanegan è ormai un'altra persona. Gli ultimi dischi sono stati un
successo, nel 2000 ha chiuso definitivamente il discorso Screaming Trees
e iniziato le collaborazioni con i Queens Of The Stone Age
di Josh Homme ("mi piace la musica che fanno, mi piacciono loro come
persone e mi diverte dividerci un palco", dice) partecipando a "R" e con
l'ex-leader degli Afghan Whigs, Greg Dulli.
Ora la ribalta è per lui, con essa arrivano anche le aspettative.
Esce Field Songs
(Sub Pop, 2001), quinto album della sua carriera da solista, e la
diversità di Lanegan si percepisce ancora dalla copertina: capelli
tagliati corti, aria riflessiva ma anche conciliata; il disco che ne
esce è uno dei migliori. Il cantautore di Ellensburg matura il proprio
stile, fatto di un folk sempre in bilico tra il buio e la luce, canzoni
d'amore (l'hammond della dolce "Pill Hill Serenade") e la ruvidità di
folk-blues sbandati e distorti (la finale "Fix").
Diversamente dai pezzi più grezzi e istintivi dei primi due album, Lanegan va alla ricerca di soluzioni più forbite e complesse; "No Easy Action" si rigira come un raga psych tra spire di cori femminili e wurlitzer, "Miracle" sguazza nel dark e "Resurrection Song" in un’evanescenza da trapasso terreno, mentre "Don't Forget Me" è un folk-blues che rende omaggio alle origini messicane dell'autore ("i miei genitori vengono dal Nuovo Messico e da bambino ho vissuto nel sud ovest degli Stati Uniti, dove l'influsso della cultura messicana è molto forte").
È soprattutto il lavoro delle chitarre a produrre i pezzi migliori: il mood
creato dall'intreccio tra elettriche e acustiche in "Kimiko’s Dream
House" (scritta con l'amico Jeffrey Lee Pierce) o quello di "Love", che
pare omaggiare i due lati della vita artistica di Tim Hardin, regalano
momenti sublimi e ci consegnano un artista ancora in possesso di uno dei
migliori songwriting dell'ultima decade.
D'ora in poi la strada è in discesa, con tutti i rischi di scivoloni che ne conseguono.
L'anno successivo Lanegan partecipa più che attivamente al fortunatissimo "Songs For The Deaf" dei Queens Of The Stone Age e girando in tour con il gruppo inizia ad abbozzare i pezzi per il suo prossimo album.
Nel 2003 tutto sembra pronto per l'uscita di Bubblegum, ma qualcosa non va e Lanegan decide di pubblicare un'anteprima, un assaggio di quello che si troverà nell'album; esce così Here Comes The Weird Chill
(Beggars Banquet, 2003), Ep di otto brani che offrono già un'idea del
progetto su cui si costruirà poi l'Lp. È un disco oscuro e diabolico:
con il blues-rock "Methamphetamine Blues", con la cover beefheartiana
"Clearspot" e la desertica "Skeletal History", si staglia una via più
marcatamente rock, meno folk dei lavori precedenti, ma non per questo
senza spazi di riposo, come il sussurro soul per piano e voce di
"Lexington Slow Down" o la breve e solenne "On The Steps Of The
Cathedral". L'Ep viene registrato dall'autore con la Mark Lanegan Band, ensemble di musicisti che lo accompagna nei concerti e con il quale darà vita a una nuova svolta nel suo sound.
Nel 2004 esce Bubblegum,
sempre per Beggars Banquet, e le peculiarità già rilevate nel lavoro di
poco precedente si amplificano, provocando una cesura di stili che,
sebbene funzionasse nel breve dell'Ep, trasferita sulla lunghezza delle
15 tracce risulta dannosa.
Se da una parte Lanegan affascina con rarefazioni di gospel ("Strange Religion") e ballate suggestive ("Morning Glory Wine"), dall’altra si propone anche in blues-rock o stoner frutto di quanto assimilato nell'intenso lavoro al fianco dei Queens Of The Stone Age.
Il rock di "Sideways In Reverse" e di "Hit The City" (in duetto con PJ Harvey) sono episodi che non sembrano appartenere al Lanegan che si è visto finora, e nonostante l'apporto massiccio degli ospiti illustri (due ex-Guns'n'Roses, Homme e Olivieri), il disco appare riuscito solo a metà.
Ci
vogliono la lancinante e autobiografica "When Your Number Isn't Up" o
la vibrante "Like Little Willie John" per ritrovare il vecchio Lanegan,
quello del folk di frontiera, che omaggia le proprie radici, e quello
che canta delle proprie sensazioni, della propria vita.
Forse è
stanco, forse l'attività frenetica che lo ha portato a registrare due
album e un Ep nello stesso tempo che una volta impiegava per registrare
un singolo disco lo ha spremuto, fatto sta che Lanegan stacca la spina.
Si fa per dire, però, perché a fermarsi è solo la sua carriera da
solista, per dare il via a una trasversale fatta di apparizioni,
collaborazioni, dischi a metà: tutti vogliono la sua voce graffiante ed
evocativa, tutti bramano per un pezzettino di Lanegan da sfoggiare nel
proprio disco.
E Mark non dice certo di no, si allontana dai Queens Of The Stone Age, ma canta nel loro "Lullabies To Paralyze", partecipa a "She Loves You"
dei Twilight Singers di Greg Dulli e nel 2005 contribuisce alla prima
uscita dal vivo del progetto Gutter Twins, che lo vede protagonista
proprio insieme all'ex-Afghan Whigs.
Nel 2005 un altro incontro
importante getta le basi per una nuova collaborazione. In occasione di
un concerto a Glasgow (o così vuole la "leggenda"), Mark Lanegan
incontra l'ex-Belle & Sebastian Isobel Campbell. I due trovano affiatamento giusto, e l'oscuro crooner partecipa con la sua voce all'Ep dell'angelica fanciulla scozzese "Time Is Just The Same".
Nasce così l'idea di un disco insieme e, dopo vari scambi d'idee e di registrazioni via internet, nel 2006 esce Ballad Of The Broken Seas,
a nome Isobel Campbell & Mark Lanegan. Il disco in realtà è molto
più di Lanegan che della Campbell, che sovrasta nelle ballate folk,
blues e country in quanto più vicine al suo stile e al suo background artistico.
Tuttavia,
l'album non è riuscito come sia gli artisti che il pubblico si
aspettavano, la sovrapposizione delle due voci e dei due stili,
radicalmente diversi l'uno dall’altro, funziona solo quando si trova la
giusta amalgama, come nella title track o nell’iniziale "Deus
Ibi Est", e paradossalmente, mentre il lavoro di Lanegan sembra essere
scontato, quando prende il pallino del gioco la Campbell il lavoro si fa
interessante, vedi "Black Mountain" o "Saturday's Gone".
Il
lavoro condiviso con la Campbell, lungi dal fornire l'ispirazione per un
ritorno da solista, conferma anzi a Lanegan quanto se la goda a
spartire le cose con altri; così il songwriter americano riprende anche il discorso con i Twilight Singers, con la partecipazione ancor più attiva all'Ep A Sitch In Time nel 2006, e, un anno dopo, presta la sua voce alla maggior parte delle canzoni di It's Not How Far You Fall, It's The Way You Land del duo elettronico trip-hop Soulsavers.
Il
2008 è un anno importante per Lanegan, ma sempre nella versione di
condivisore e collaboratore. Prima esce l'atteso debutto del progetto
Gutter Twins, a metà con Greg Dulli. Saturnalia,
tuttavia, delude le aspettative. Se pezzi come "All Misery Flowers",
"Seven Stories Underground" e "Who Will Lead Us" ci presentano un
Lanegan in forma, la restante parte dell'album vive di pezzi che
sembrano già sentiti nelle collaborazioni precedenti tra i due, nei
Twilight Singers, ad esempio, in "The Station" o "Idle Hands".
Insomma, il disco che molti aspettavano si rivela meno sorprendente del solito.
Qualche mese più tardi esce anche il secondo episodio della cooperazione artistica con Isobel Campbell, Sunday At Devil Dirt,
che migliora certe situazioni scomposte del disco precedente, ma senza
anch'esso convincere fino in fondo. È un altro esempio di scontro tra
angeli e demoni, tra la sporcizia del blues e il lindore del folk-pop.
Ovvio che Lanegan domini la scena come fu in Ballad Of The Broken Seas,
non fosse altro che per la prepotenza virile della propria voce, qui
spinta in alcuni casi a livelli da raschiare gli abissi degli inferi,
tanto è bassa e carica di pece. E se è vero che in tracce come
"Seafaring Song", "Come On Over" o "Who Built The Road", l'amalgama
vocale tra i due risulta essere perfezionato, è altrettanto vero che il
finale si perde tra ballate che incidono assai poco. Meglio, allora,
episodi in cui ognuno va per proprio conto, come lo sciamanico Lanegan
di "Back Burner" o la sensuale Campbell di "Shot Gun Blues".
Un disco
che testimonia come il sodalizio che tutti credevano impossibile, per
le differenze sostanziali tra i due, sia fattibile, ma comunque non
facile come magari pensavano i diretti interessati.
Nel 2009 Lanegan rinnova il sodalizio con i Soulsavers, prestando la sua voce a Broken, altro disco gradevole, che tuttavia non aggiunge elementi particolarmente significativi al sound della band.
Un anno dopo arriva la terza puntata del sodalizio con Isobel Campbell, Hawk, che segna un seppur non sostanziale passo in avanti nella carriera del duo; Isobel e Mark infatti sembrano dialogare sempre meglio, adattando i propri stili personali alle canzoni interpretate, Lanegan, ad esempio, si fa leggero nel folk-pop di "Time Of The Season" mentre la Campbell è grintosa nel rockabilly di "Get Behind Me".
Lo stile compositivo vive
ancora delle due identità distinte, alcune canzoni, infatti, sono
proprie del Lanegan solista ("You Won't Let Me Down Again", "Come
Undone") mentre altre appartengono più allo stile pop dell'inglesina
("Time Of The Season", "Sunrise", "To Hell & Back Again") e,
nonostante le due canzoni in solitaria della Campbell, il risultato
finale è più che mai opera di una coppia, definitivamente affermata
tale, e non del ritrovo improvvisato di due artisti.
Un nuovo Lanegan per gli anni '10
A otto anni da Bubblegum,
suo ultimo lavoro solista, Lanegan ritorna padrone del proprio destino
per affrontare una nuova avventura solista, e siccome non è neanche un
pantofolaio, cerca pure di spiazzare. Sì, perché Blues Funeral
(2012) può lasciare disorientati; non subito, perché il subdolo
all'inizio ci propina un gran bel rock-blues rauco e sgroppante
("Gravedigger's Song"), poi ci delizia con un mellifluo blues sensuale
("Bleeding Muddy Water") e, a seguire, le vene psych-folk di "Gray Goes
Black" e quelle spiritual di "St. Louis Elegy". Ma già in quest'ultima
senti che si è infiltrato qualcosa, leggero, sì, ma lo noti, diverso...
fai finta di niente anche perché nelle chitarre della rockeggiante "Riot
In My House" senti le reminiscenze ancora fresche di Bubblegum, ma come inizia "Ode To Sad Disco" ti trovi a chiederti cosa ci facciano questi synth e queste drum-machine in un disco di Lanegan. Pare un remix, "Ode To Sad Disco", come se i Pet Shop Boys lavorassero su una canzone di Lanegan. Strano, mica gli sarà venuta la mania degli anni '80, eh?
Ma
poi "Phantasmagoria Blues", con quell'aria country-folk da deserto, ci
fa dimenticare l'episodio, ma quando lo stoner di "Quiver Syndrome" si
tinge di tocchi e scampanellii elettro-glam e arrivano pure i singulti
pop eighties di "Harborview Hospital" il pensiero si fa più insistente; che l'oscuro folk-bluesman si sia infatuato di questo sound
e stia cercando altre vie per ringiovanire la sua proposta? Non ci
aiutano molto le svisate di tastiera e i cori nella trascinata
"Leviathan", né i fiati folk dell'evanescente "Deep Black Vanishing
Train", se non lasciarci ancora confusi per poi perderci nelle spire
lente e cariche di effetti dei sette minuti di "Tiny Grain Of Truth".
Alla fine c'è un bel daffare a raccapezzarsi con questo labirintico
dilemma d'identità, nel quale Lanegan oscilla tra il vecchio e quello
che forse potrebbe essere il nuovo. Per ora sembra prevalere la strada
vecchia, nella quale il songwriter americano riesce sempre a
dare il meglio di sé e a offrire pezzi estremamente incisivi; anche il
resto però non è totalmente da scartare, servono parecchi ascolti ma
alla fine alcune trovate di questo Lanegan elettronico convincono,
seppur non a fondo.
Fedele come pochi a uno spirito di
collaborazione senza confini, il sempre generosissimo Lanegan
torna poco dopo un anno con un nuovo sodalizio e relativa raccolta di
canzoni. A beneficiare del suo slancio è questa volta l'estroso
musicista londinese Duke Garwood, uno spirito affine che l'ex frontman degli Screaming Trees ha già ospitato proprio nella più recente fatica in studio della sua band e portato in tour qualche tempo fa come opener per i Gutter Twins. Diversamente da quanto avvenuto con il doppio supporto ai Soulsavers o nell'ultimo (fiacco) episodio del progetto condiviso con Isobel Campbell, in questo caso sembra fuori luogo liquidare Black Pudding (2013) come l'ennesimo ricco cameo del cantante di Ellensburg. L'intesa tra i due artisti pare infatti solida e convincente. Fingerpicker abile quasi quanto un James Blackshaw, con nelle corde le suggestioni di un Greg Weeks
solo un tantino più narcotico, l'inglese si regala le dissertazioni
strumentali che aprono e chiudono il cerchio nel solco di un solipsismo
folk scuro e ipnotico. Nel mezzo il cantante impazza con la sua
inconfondibile cifra espressiva, tra sussulti di pura classe e cliché.
L'impressione offerta in rampa di lancio da "Pentacostal" – titolo in
stile Lanegan che è già tutto un programma – è che il Nostro giostri
attraverso il mestiere con palesi finalità conservative, seppur in una
confezione più povera del consueto curata dagli "amici" del circolo QOTSA Alain Johannes & Justin Smith.
Garwood
predispone un sottotesto musicale disadorno capace di imporsi in
termini atmosferici senza mai risultare invadente, ideale contesto,
quindi, per far risaltare una voce che sembra ormai potere tutto.
Altrove prevale invece una dimensione raccolta ammirevole, con una
concretezza terrena ("Mescalito") o un velo malinconico (il clarino di
"War Memorial") che non gli sono nuovi ma impressionano sempre. Quello
di "Death Rides a White Horse" poi è un Lanegan lento, estatico, che
pare specchiarsi nella solennità dei classici Delta Blues. Si scorge
meno meraviglia ma più umanità, con i limiti formali dell’operazione
tenuti in bella vista. "Driver" rivela allora per converso un artista
che si adopera per mantenere un profilo più basso dello standard,
salmodiando una specie di preghiera laica. L'accattivante funky-blues
vizioso di "Cold Molly" riavvicina al clima contaminato dell'ultima
fatica con in più l'eccellente lavoro sporco di Duke, chiamato a
straziare senza posa le sue chitarre. Per rasserenare i nostalgici
oltranzisti è sufficiente la perla "Shade Of The Sun", assai
disciplinata e sostenuta a dovere dall'accompagnamento incantatorio
dell'harmonium, con un suono insieme catartico e malato.
Al disco pubblicato
in aprile con Garwood, fa seguito nel settembre del 2013 la seconda
raccolta di cover della carriera, a ben quattordici anni da I'll Take Care Of You. Considerando che il produttore di questo Imitations
(2013) è lo stesso di allora, Martin Feveyear, appare inevitabile
prendere le mosse da un confronto diretto con la precedente esperienza.
Alla quale riporta in maniera alquanto netta la parsimoniosa meraviglia
nei solchi di "She's Gone", aggiornandone però l’impronta allo standard
di uno chansonnier vecchio stampo, intimamente tradizionalista ma con in
sovrappiù una dote vocale fuori dall’ordinario. Per come si presenta,
l’album mostra di non volersi assumere chissà quali rischi. Il
folk-blues pulito e affidabile dell’inaugurale "Flatlands" (che la Chelsea Wolf di "Unknown Rooms" sembrava
avergli cucito su misura) replica a grosse linee le suggestioni
desertiche dei lavori della maturità (e del recente "Black Pudding")
senza riuscire a mascherare un po' di stanchezza, l'impressione di
trovarsi al cospetto di un artista invecchiato. Le cose non vanno
diversamente quando, poco oltre, Mark sceglie di cimentarsi con un brano
dell'amico Greg Dulli ("Deepest Shade", dal catalogo Twilight Singers)
che è la quintessenza dello spleen nostalgico a lui caro: il risultato è
lusinghiero per quanto, considerati i registri, sia difficile non
archiviare la prova come ordinaria amministrazione per uno come lui, qui
persino troppo compassato. La confezione è impeccabile, il crooning seducente,
da navigato intrattenitore, eppure su questi terreni l'oracolare
Lanegan si rivela prevedibile come non mai. Anche quando rilegge in un
luminoso quadretto folk il James Bond cantato da Nancy Sinatra ("You
Only Live Twice") attrattive e problemi restano i medesimi: è tutto
esattamente come ce lo si aspetterebbe. È solo superando questo limite
che si può apprezzare il senso del disco, un semplice passatempo, eppure
non privo di momenti godibili o (più di rado) piccole sorprese.
Sono soltanto un paio i casi in cui Mark azzarda qualcosa di più personale, pagandone poi lo scotto in termini di coesione: il tepore dei fiati nella cornice estatica di "Brompton Oratory" (dal Nick Cave iper-contrastato di "The Boatman's Call"), in vece di una replica pedissequa che sarebbe stata inutile, e la posa waitsiana indossata nello scenario disadorno di "Mack The Knife", da un classico di Kurt Weill di cui conserva forza e respiro. Per il resto appaiono evidenti i segni della distanza espressiva dalla più datata collezione di cover.
Questo è davvero un Lanegan che tende all'imitazione, diversamente da quanto fatto ai tempi di I'll Take Care Of You:
si adegua sul piano formale, forzando troppo se stesso per far
risaltare in controluce i vari modelli di riferimento; oppure predilige
la componente emotiva con interpretazioni commosse (come nella prima
delle tre riletture di Andy Williams, "Solitaire", chiaro omaggio a un performer
recentemente scomparso) che puntano a rievocare la genuina fascinazione
esercitata dai dischi di famiglia ascoltati sino alla nausea in tenera
età. In altri casi è invece la proposta stessa a spingersi ben al di là
dei suoi consueti canoni. Capita con il recupero coraggioso ma poco
convincente di "Élégie Funèbre" (di Gérard Manset, qui affidata ai
magheggi del fido Alain Joahannes) come nel singolo "I'm Not The Loving
Kind", dal John Cale di
"Slow Dazzle", assai più somigliante all'originale che non al suo
occasionale interprete. Le perplessità dovute ad apparentamenti che
suonano talvolta un po' innaturali non cancellano i meriti di 'molto
curata e ricca di ospiti preziosi (dal redivivo Mike Johnson a una
sezione ritmica che vanta entrambi i batteristi degli Screaming Trees, Mark Pickerel e Barrett Martin, oltre a Bill Rieflin e Duff McKagan), la cui sincerità resta un dettaglio non contestabile.
Alla soglia delle cinquanta candeline, Lanegan pubblica nel 2014 Phantom Radio:
dieci brani alla sua maniera, densi di luci e ombre, che non
scontenteranno del tutto i suoi fan né però li esalteranno oltre il
dovuto. La voce scura, profonda, dolente, passionale è subito in
"Judgement Day", murder ballad minimalista pur nella sua maestosità, accompagnata efficacemente da un organo funereo, memore dell'umore di Leonard Cohen e Neil Young. Il sortilegio si ripete in "I Am The Wolf", chitarra acustica arpeggiata ed evanescente tappeto di synth: qui il fantasma di Nick Cave
fa capolino e ci mostra "the voice" nuovamente a suo agio in ambienti
desolati e selvaggi, compendio perfetto alla sua interpretazione
malinconica. All'ordito che noi tutti ben conosciamo, vanno poi ad
aggiungersi altre tessiture, altri colori, non proprio in linea con il
background appena delineato. Si tratta del recupero di certi anni 80,
sponda new wave britannica: drum machine
(che il Nostro ha curiosamente estrapolato da una app del suo
smartphone) e sintetizzatori soprattutto, operazione in parte già
portata avanti nel precedente Blues Funeral. E allora ecco l'iniziale "Harvest Home", mid-tempo avvolgente e sinuosa, alla maniera degli Echo & The Bunnymen,
chitarre scheletriche a far da contraltare a tastiere poderose. Ecco
anche "Torn Red Heart", dolcissimo e stralunato dream-pop, davvero poco
distante da certe suggestioni firmate New Order e Cure.
Ma
non è tutto oro, ahinoi: brani come "Floor On The Ocean", "The Killing
Season" e "Seventh Day" risultano opachi e deboli, goffe e banali
imitazioni di trip-hop melodico e orecchiabile, ripulito e scintillante (à-la Morcheeba,
per capirci). Così come "The Wild People", ripetizione pur discreta ed
elegante di quanto già espresso nelle ballate precedenti. Fortunatamente
arriva "Death Trip To Tulsa" a mettere la parola fine: ancora una volta
pare di assistere ai titoli di coda di un film su grande schermo,
magari qualche noir pulp diretto dalla coppia
Rodriguez/Tarantino. Di nuovo un'inquadratura dall'alto: eccola lì, è
l'auto di grossa cilindrata guidata da Lanegan, si allontana dagli
stessi luoghi remoti traversati fino a poco prima. Dopo aver domato i
suoi demoni è diretta in città. Forse a Seattle, a casa, alla festa per
un cinquantesimo compleanno.
A febbraio 2015 le aspirazioni electro di Lanegan si concretizzano attraverso la pubblicazione di A Thousand Miles Of Midnight, raccolta di versioni remix di brani contenuti sia in Phantom Radio
che nell'Ep "No Bells On Sunday", di qualche mese precedente. Il primo
elemento che balena all'occhio è lo spessore, la fama dei remixer coinvolti, che vanno da artisti di grido (Moby, UNKLE) ad amici che si sono ben volentieri prestati all'operazione, vedi Greg Dulli (già con lui nel progetto Gutter Twins), Mark Stewart e Soulsavers.
Sono versioni alternative, più ("Seventh Day") o meno (la stilosissima
"I Am The Wolf") riconoscibili, che conferiscono un'inedita veste alla
scrittura di Lanegan, lanciandolo una volta di più nella
contemporaneità, evitando che il musicista resti chiuso in un
rassicurante bozzolo troppo legato al passato. I remix non hanno sempre
una connotazione prevalentemente ritmica: in alcuni casi il mood
si fa atmosferico ("No Bells On Sunday" diventa una colonna sonora dai
connotati ambient, "Jonas Papp" è la sonorizzazione di paesaggi
naturali), densamente notturno ("Floor Of The Ocean"), oppure minaccioso
e inquietante ("Waltzing In The Blue" sembra subire l'influenza del Tricky più luciferino).
Il tutto a dimostrare quanto Lanegan senta stretto oggi il ruolo di crooner
maledetto: intende piuttosto interpretare stili eterogenei, confermando
un percorso che lo ha spesso visto eccellere, vuoi quando è stato un
pioniere del grunge con gli Screaming Trees, vuoi quando è stato ospite di lusso in alcuni lavori dei Queens Of The Stone Age, vuoi quando ha scritto ed eseguito moderne filastrocche condivise con Isobel Campbell, sino al serioso cantautorato dei lavori solisti. Il materiale di Phantom Radio, concepito in maniera non canonicamente rock, si prestava in maniera perfetta a subire il trattamento assicurato da A Thousand Miles Of Midnight,
la quantità e la qualità degli ospiti chiamati a remixare assicurano
varietà stilistica nella continuità, la voce è sempre quella di Lanegan,
sono i contenitori a cambiare di densità sonora, a modificarsi
accogliendo il segno dei tempi che cambiano. La moderna tecnologia apre
nuovi scenari, il blues scartavetrato resta, ma ora assume forme
diverse.
Il 2017 è l'anno di Gargoyle,che al
primo impatto potrebbe apparire il meno brillante degli ultimi tre
dischi, il proverbiale lavoro di transizione: in realtà - rispetto a
"Blues Funeral" e "Phantom Radio" - si distingue come il meno facilmente
catalogabile, pur restando in grado di mantenere intatta l'innata
capacità di infilarsi dannatamente sottopelle, ascolto dopo ascolto. La
scrittura è un affare a tre: il nuovo chitarrista Rob Marshall (già con
l'alt-rock band inglese Exit Calm) porta in dotazione nuova linfa vitale
fornendo un contributo determinante nei sei brani che ha co-firmato;
sugli altri il co-autore è Alain Johannes
(al quale è affidata anche la produzione), responsabile quasi
esclusivamente degli episodi più umbratili, "Blue Blue Sea", "Sister" e
"First Day Of Winter", quelli che mantengono Lanegan legato alla
tradizione. Quando uniscono le forze si raggiungono i risultati
migliori, nelle prime due tracce, dove meglio viene definito sia il sound che la poetica del disco, palesando quanto i demoni sullo sfondo continuino a essere ben presenti ("Devil lives in anything" canta
Mark nell’iniziale "Death's Head Tattoo", mirabile, con quell'atmosfera
di costante elettrica tensione, di pericolo imminente), emergendo
vividi col sopraggiungere delle tenebre ("Midnight calling to colour me insane" sentenzia nella successiva "Nocturne", pazzescamente bella, incipit sulle note di un basso inequivocabilmente dark-wave; post-atomica nell'incedere ed epica nel chorus, è questo il nuovo classico di Lanegan, in grado di rinnovare i fasti della "Grey Goes Black" di cinque anni fa).
Sempre
pronto ad indagare il lato selvaggio dell’esistenza umana (le prime due
parole cantate nel disco sono non a caso "Wild Thing"...), le difficoltà,
le dipendenze, le ossessioni, Lanegan sa riservare momenti di poetica
dolcezza ("Goodbye To Beauty") alternati a rotondi alt-rock suonati al
massimo ("Beehive", "Old Swan"), e – come se non bastasse – con "Drunk
On Destruction" si riserva il gusto di mettere in carniere uno stadium rock alla maniera degli U2 di un tempo. La voce (baritonale ma questa volta meno greve del solito) resta l'inconfondibile marchio di fabbrica, ma Gargoyle prende slancio anche grazie all'importanza del parterre coinvolto: oltre al fedele trittico composto da Greg Dulli, Josh Homme e Duke Garwood, troviamo – fra gli altri – Jack Irons
dietro le pelli (lì dove non si ricorre a batterie elettroniche
precampionate) e Martyn LeNoble (Porno For Pyros) al basso. Fosse uscito
qualche settimana più tardi, probabilmente Gargoyle sarebbe stato dedicato alla memoria di Chris Cornell,
scomparso a metà maggio, ma pur svincolato da questo tragico
avvenimento s'impone come l'ennesima testimonianza di invidiabile
vitalità da parte di uno dei più grandi sopravvissuti del rock
contemporaneo. Con tutte le assenze che si sono palesate, ci si aggrappa
ancor più forte a Mark: per alcuni uno zio di mezza età, per altri un
fratello maggiore che ci accompagna da quasi trent'anni.
Il 2018 è
per Mark Lanegan l'anno del secondo capitolo della collaborazione con
l'amico fraterno Duke Garwood. Il lavoro dal quale bisogna partire per
analizzare questo "With Animals" è però proprio Black Pudding del
2013, del quale "With Animals" reca la stessa ragione sociale e intende
essere il sequel. Mentre in "Black Pudding" Lanegan brontolava
accompagnato da una chitarra acustica con il ferro delle corde ben in
mostra, tutto in "With Animals" è più spirituale e pertanto immerso in
un'atmosfera sacrale e ovattata. Un limbo fumoso e narcotico dove le
confessioni ossessive del vecchio Mark riecheggiano tra loop, beat sordi
e magre frasi di chitarra blues. La minacciosa canzone che dà il titolo
all'album aggiunge a questa ambientazione i sapori caldi e intensi che
Duke Garwood ha scoperto nel suo viaggio nel deserto con i Tinariwen.
I due brani più vicini a "Black Pudding" si intitolano "Upon Doing
Something Wrong", che però si differenzia dai toni del vecchio disco
grazie ad un tocco sulla chitarra leggerissimo, e "Spaceman", fugace ma
inevitabile sguardo al Mississippi. Rientra nel novero dei pezzi più
tradizionali anche "L.A Blue", blues scurissimo caratterizzato da
un’intonazione ruvida e sensuale di Lanegan. Grazie alla sua voce
iconica e profonda, il lupo solitario di Ellensburg riesce a calamitare
l’attenzione ad ogni intervento, anche in un contesto riflessivo e
dimesso come quello di "With Animals", dove non può svettare su tutto il
resto come capita nei dischi con la band.
Ma non è parco di pause e svanimenti nell'ombra, stratagemmi atti a
rendere l'atmosfera ancora più sciamanica, ma anche valorizzare le
straordinarie doti tecniche del suo soul brother. Alla chitarra
Garwood è incredibile – il modo in cui la fa piangere in "Ghost
Stories" è da manuale - ma sa il fatto suo anche quando si tratta di
scavare solchi nell'anima mediante interventi di fiati ultraterreni ("My
Shadow Life") o di laceranti droni d’archi ("Feast To Famine").
Il 2019 porta la collaborazione preziosa e inconsueta tra il producer italiano Alessio Natalizia, aka Not Waving, e il cantautore americano con il moniker di Dark Mark, che con Downwelling danno
vita a un progetto che potremmo descrivere come cantautorato
elettronico colto. La voce scura e grave di Lanegan si staglia in modo
nitido nelle composizioni, a tratti limpide, a tratti acide di
Natalizia, proponendo i topoi caratteristici del glossario
“lanegan-iano” (in un florilegio di “graveyard”, “demons”, “sin”,
“darkness”...). Sono storie di peccatori sul baratro di un vicolo della
città, o al crocevia della morte, raccontate in maniera ferma da Lanegan
e mosse invece da un’incredibile pulsione vitale e da una melanconia
profonda che scaturisce dalla elettronica sofisticata di Natalizia
(“Murder In Fugue”): si inizia con l’accettare l’assenza del futuro,
sulle quiete note di synth e le parole moltiplicate in echi (“Signyfing
The End”); si cammina lungo le strade della città, dove i suoni
metallici delle catene stridono coi desideri di fuga del protagonista
(“City Of Sin”); si attraversa storditi Babilonia per completare la
catarsi (“Burned Out Babylon”) e giungere infine alla consapevolezza di
essere comunque perduti (“The Broken Man”).
Ancora nel 2019 esce Somebody's Knocking della Mark Lanegan Band, album nettamente influnzato nel sound da new wave e synth-pop britannici degli anni Ottanta (in particolare, dalla darkwave di Siouxsie e dei Cure di "Pornography"). L'adrenalinico incipit
elettrico del disco illude l'ascoltatore di trovarsi di fronte a ciò
che è noto grazie al surf-blues-rock di "Disbelief Suspension", ma
l'illusione nostalgica inizia a svanire già con i beat elettronici e i synth di "Letter Never Sent", che si insinuano tra le chitarre.
L'impatto iniziale di questa nuova uscita è quasi respingente per i "laneganiani" di ferro, ma lentamente il disco si apre, in particolare grazie alla capacità del suo creatore di sperimentale più sfumature della sua espressività vocale e della sua capacità narrativa tramite la melodia, senza disdegnare soluzioni pop e cantabili come in "Gazing From The Shore". Altro punto interessante dell'album sono i ritornelli: quando un brano sembra portarti in una direzione e riecheggiare troppo qualcosa di pre-esistente, il crooner di Ellensburg sceglie un'altra melodia e vira verso l'inaspettato. Emblematico di queste due caratteristiche del disco è "Name And Number", tra svolte inattese e quella coda sbilenca in cui il sassofono e i synth danno un gusto di X-Ray Spex e New Order. Lanegan continua a dirigersi verso l'ignoto e più si trova nel buio più assapora la libertà, e forse anche la liberazione dal fardello del grunge e dal peso dell’essere un "sopravvissuto" di quella stagione.
Mark Lanegan è insaziabile. La sua fame di blues e di autenticità, la sua inquietudine e la sua ricerca artistica in più direzioni ci conducono a una delle prove più convincenti del crooner di Ellensburg dai tempi di “Blues Funeral” (4AD, 2012). Le quindici tracce del nuovo disco arrivano dopo l’uscita lo scorso anno di un album di spensierata sperimentazione e di una preziosa collaborazione col producer elettronico italiano Not Waving (Alessio Natalizia).
Straight Song Of Sorrow (2020) esce contestualmente alla pubblicazione del memoir del cantautore, “Sing Backwards And Weep: A Memoir” (Hachette Book, 2020) - il racconto della sua discesa agli inferi, tra abusi e dipendenze, e della fortunata risalita - condividendone la manifesta natura autobiografica. L’album è la summa più equilibrata tra gli stili e le anime che urlano dentro Lanegan, che lo hanno portato a collaborare anche con Isobel Campbell o Duke Garwood, e che definiscono continuamente la forma del suo songrwriting blues.
Spicca
a metà dell’ascolto la splendida l’elegia pastorale di “Stockholm City
Blues”, con gli archi che accompagnano la testimonianza del cantautore,
quasi a rappresentare i fantasmi che lo hanno inseguito fin dalla
riabilitazione e che forse continuano a tormentarlo. Il pre-finale si spalanca sul baratro con “At Zero Below”, una all-star song in cui Lanegan è accompagnato ai cori da Greg Dulli (Afghan Whigs, Twilight Singers, Gutter Twins), al violino da Warren Ellis (Dirty Three, Nick Cave & the Bad Seeds) e al pianoforte da Ed Harcourt. Chiude l’electro-gospel di “Eden Lost and Found”, un duetto con Simon Bonney (Crime & City Solutions).
Il dolente e sfumato incedere del brano, i cui contorni sono disegnati
dagli archi, compie un’opera di maturità e di probabile liberazione, in
cui Lanegan (ri)trova finalmente quell’equilibrio in grado di saziare
una foga, personale e artistica, inesauribile più di una traccia d’oro
tra le rocce del suo West. Ci restano le parole del songwriter, in cui il dolore si è fatto già speranza, in un richiamo mai così nitido alla rinascita di Johnny Cash.
Pochi mesi più tardi Lanegan pubblica una nuova raccolta di remix. Another Knock At The Door
è la reingegnerizzazione dell'intera scaletta di "Somebody's Knocking",
enfatizzandone ancor più la già ben presente componente electro,
affidata al trio Iyeara. Dopo il restyling resta però ancor
meno di quelle briciole di blues e dalla grande inquietudine che in
qualche modo continuavano ad essere presenti anche in uno dei dischi
meno convincenti di Lanegan. Ma il punto focale non è tanto questo,
quanto i beat retromani sui quali gli Iyeara hanno deciso di
puntare, che trasportano il cantore di atmosfere dolenti e notturne
verso oramai obsoleti territori eighties (o tutt’al più nineties) oriented pulsanti e colorati.
Non
tutto è da cestinare, per carità, ma per una “Playing Nero” che
obiettivamente funziona, ci sono troppe tracce che girano colpevolmente a
vuoto. Un progetto che dimostra senz’altro il coraggio di Lanegan nel
volersi rimettere continuamente in gioco, ma ancor più la massima
libertà concessa a chi maneggia le sue canzoni, anche lì dove avrebbe
potuto - a ragione - censurare qualcosa. Mark ama giocare, e far giocare
gli altri, con i suoni, punta a non ripetere sé stesso all’infinito, a
reinventarsi coinvolgendo altri artisti, ma altre volte, come nel caso
della raccolta di remix di “Phantom Radio”, era andata decisamente meglio...
Il
23 febbraio 2022 giunge l'atroce notizia che gela il mondo del rock:
Mark Lanegan è morto a soli 57 anni nella sua casa di Killarney, in
Irlanda. Si era ammalato gravemente di Covid nel 2021, al punto da
finire in terapia intensiva, Un’esperienza così drammatica che lo aveva
spinto a scrivere un memoir, "Devil in a coma". Sono ancora ignote le
cause del decesso, ma certo è lo sgomento di tutti coloro che hanno
seguito le sue gesta, dapprima come pioniere grunge, quindi come
cantautore graffiante e coraggioso. Un cantore dell'abisso che ha
toccato baratri di profondità inaudita, formidabili e indimenticabili
per tutti.
Nessun commento:
Posta un commento