Nella tarda serata di lunedì 21 febbraio, Vladimir Putin ha firmato il decreto di riconoscimento delle Repubbliche popolari di Lugansk e di Donetsk quali stati «indipendenti, democratici, sociali e di diritto», da parte della Federazione Russa. Insieme ai leader delle due Repubbliche, Leonid Pasečnik e Denis Pušilin, Putin ha sottoscritto anche un accordo di amicizia, collaborazione e aiuto tra L-DNR e FR, come era stato chiesto dai due leader del Donbass.
La firma di Putin è arrivata pochissime ore dopo il termine della riunione straordinaria del Consiglio di sicurezza russo (organo consultivo), svoltasi nel pomeriggio, nel corso della quale praticamente tutti gli intervenuti – Ministri della difesa e degli esteri Sergej Šojgu e Sergej Lavrov, Primo ministro Mikhail Mišustin, Segretario del Consiglio di sicurezza Nikolaj Patrušev, ex Primo ministro e attuale vice presidente del Consiglio di sicurezza Dmitrij Medvedev, ecc.) – si erano pronunciati per il riconoscimento delle Repubbliche popolari.
Di fatto, subito dopo la seduta del Consiglio di sicurezza, al telefono con Emmanuel Macron e Olaf Scholz, Putin aveva loro già annunciato che, a momenti, avrebbe messo la firma in calce al decreto. Ora la cosa è fatta.
In Donbass si esulta e si parla di data storica.
Dalle cancellerie europee, invece, come da copione, lamentazioni di «delusione» e annunci di sanzioni europeiste contro Mosca. «Condanna», anche questa scontata, da parte del Segretario generale NATO, Jens Stoltenberg e riunione straordinaria del Consiglio di sicurezza ONU.
Alla riunione del Consiglio di sicurezza russo, Lavrov aveva messo alla berlina tutte le uscite occidentali e ucraine in aperto dispregio di ogni accordo e aveva dichiarato che il loro atteggiamento nei confronti del Donbass non lascia a Mosca altra scelta se non quella del riconoscimento delle Repubbliche.
Mišustin aveva dichiarato che, in effetti, il Governo russo già da mesi stava adottando misure che sottintendessero il prossimo riconoscimento di L-DNR. Medvedev ha tra l’altro ricordato come nel 2008, lui stesso Presidente russo, il riconoscimento di Abkhazija e Ossetija meridionale avesse impedito i massacri di popolazione civile nel corso dell’aggressione portata dall’allora presidente georgiano Mikhail Saakašvili, con l’aperto beneplacito di George Bush.
Il paragone non sembri così peregrino: i civili in Donbass continuano a morire anche in queste ore sotto i colpi delle artiglierie ucraine, mentre vengono alla luce ancora nuove fosse comuni coi resti di uomini e donne, spesso decapitati, massacrati all’inizio dell’attacco ucraino nel 2014 dalle spedizioni terroristiche dei battaglioni nazisti, così cari ai demo-liturgici di casa nostra.
La riunione del Consiglio di sicurezza russo si è svolta dopo che nei giorni scorsi la Duma aveva approvato pressoché all’unanimità la proposta di riconoscimento di L-DNR.
Ma, soprattutto, dopo che nella mattinata di lunedì i leader di DNR e LNR, Denis Pušilin e Leonid Pasečnik si erano rivolti ufficialmente a Mosca chiedendo il riconoscimento delle repubbliche anti-naziste (rifiutiamo di definirle “separatiste”, alla maniera dei giornalacci euroatlantici nostrani; ma di questo, più espressamente in altra sede), quale unica via rimasta per porre fine o, quantomeno, dare l’altolà ai nazisti ucraini, che in queste ore stanno attuando l’ennesima sanguinosa offensiva contro il Donbass, con nuove vittime tra la popolazione civile; vittime che vanno aumentando ogni ora che passa.
Nel corso della riunione, Putin aveva comunque tenuto a sottolineare che la decisione avrebbe in ogni caso riguardato il riconoscimento dell’indipendenza delle due Repubbliche popolari, ma non il loro ingresso nella compagine russa.
Ora, la decisione di Vladimir Putin sul riconoscimento delle Repubbliche popolari, che si aggiunge alla concessione – ormai effettiva da alcuni anni e che interessa già oltre 800.000 cittadini di L-DNR – della cittadinanza russa a qualsiasi abitante delle due Repubbliche che lo desideri, non può non portare con sé significative conseguenze, non solo nei rapporti tra Mosca e Kiev, ma soprattutto nelle relazioni tra la Russia e gli sponsor euroatlantici dei nazigolpisti ucraini.
Ma, a questo punto, già da settimane la scelta appariva quasi obbligata per Mosca, sia per salvaguardare la vita e l’incolumità di propri cittadini e connazionali a ogni effetto, sia per porre un argine alla sfacciataggine di Washington e di Bruxelles, una volta praticamente esaurita la strada della trattativa.
Nell’intermezzo tra la fine del Consiglio di sicurezza e la firma del decreto, Putin si è rivolto alla nazione, con un discorso di quasi un’ora, per illustrare la situazione e annunciare i passi del Cremlino. Ha messo in guardia Kiev, esigendo «l’immediata cessazione delle azioni di guerra. In caso contrario, ogni responsabilità per la possibile continuazione dello spargimento di sangue ricadrà interamente sulla coscienza del regime al governo sul territorio dell’Ucraina», ha detto.
Allargando il discorso alla situazione internazionale, ha ricordato come lo scorso dicembre, Mosca avesse proposto a Washington e Bruxelles di concordare garanzie di sicurezza, che escludano un’ulteriore espansione a est della NATO e il dispiegamento di armi da attacco anche in Ucraina. Rimaste senza risposta quelle proposte, ha detto Putin, Mosca «ha tutto il diritto di adottare misure di risposta per garantire la propria sicurezza» e questo è «proprio ciò che faremo».
Da sfondo a tali dichiarazioni, ancora una volta si sono però sprecate anche le imprecazioni di Putin contro i bolscevichi, Lenin, la “dittatura stalinista”, la fondazione dell’URSS come confederazione che, a detta di Vladimir Vladimirovič, sarebbero la causa anche dell’attuale situazione in un Donbass, “regalato” da Lenin all’Ucraina, «a spese di territori storici russi», del vecchio impero russo così caro alla nuova Russia.
Tant’è. Prendiamo atto anche di queste ennesime esternazioni putiniane. Ne parleremo. Ma non ora.
Sul momento, la questione principale e quasi esclusiva sul tappeto è un’altra. Era chiaro che il «ci hanno fregato», pronunciato da Putin all’indirizzo della NATO, non sembrava ormai più sufficiente. Sembrava arrivato il tempo di porre la domanda: «e allora?». Un primo passo, tutt’altro che da poco, è stato fatto.
Ora, parafrasando il Lenin così inviso ai nuovi russi, si può dire che la presenza di truppe e mezzi militari russi in Donbass, «di cui a lungo hanno parlato» i media cialtroni euroatlantici, si attua per davvero e mette fine alla pulizia etnica nazigolpista ai danni della popolazione russa e russofona del Bacino del Don, iniziata (come minimo) nel 2014.
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