Avviata la prima fase elettorale in cinque Stati indiani - Uttar Pradesh, Punjab, Uttarakhand, Manipur e Goa - i cui risultati definitivi saranno noti dopo il 10 marzo, iniziano a circolare i segnali d’una gestione del voto infuocata dalla tensione presente in diverse aree. In cima a tutti il popolatissimo Uttar Pradesh (oltre duecento milioni di abitanti) dove il partito di governo Baharatiya Janata Party si gioca faccia e prospettive future e per questo esaspera i rapporti fra e con gli elettori. Nello Stato che invia un gran numero di deputati al Parlamento nazionale, alle elezioni del 2017 il Bjp ha fatto il pieno di voti conquistando 53 seggi su 58. Da quel momento il primo ministro eletto, il monaco Yogi Adityanath, ha accresciuto consenso e potere. Per le politiche del 2024 è in predicato di sostituire Narendra Modi alla guida del partito hindu e della nazione stessa. La linea aggressiva del partito verso gli avversari, la palese violenza contro le minoranze religiose (islamica e cristiana in primo luogo) e le caste degli oppressi (dalits) sono anche opera di questo prelato dalla faccia paciosa e dalle idee razziste. Ovviamente non è solo, come dimostrano le dichiarazioni intimidatorie d’un suo compare di partito nell’Uttar Pradesh. In queste ore tal Raja Singh sta minacciando apertamente gli elettori attraverso i social. I suoi post incendiari non usano mezzi termini: “Abbiamo acquistato migliaia di bulldozer che sono la nostra via. Dopo le elezioni coloro che hanno votato contro Yogi li incontreranno. Le loro aree abitative saranno identificate. Già da ora avverto i traditori dell’Uttar Pradesh che dicono di non volere il premier uscente di cercarsi un altro Stato”. Questo è l’approccio ufficiale del partito hindu, figurarsi quel che potranno dire e fare le squadre di suoi picchiatori sempre attive sul territorio.
Due sono i partiti e gli elettori nel mirino del fondamentalismo hindu che teme di subire sconfitte, com’è accaduto lo scorso anno in altre elezioni locali: la formazione dell’elefantino, Bahujan Samaj Party e quella della bicicletta, Samajwadi Party, dai rispettivi simboli. Il primo gruppo sorto nel 1984, che con Kumari Mayawati ha avuto la direzione del popoloso distretto da metà anni Novanta fino al 2003 e poi ancora nel 2007, incarna la volontà pur presente nel continente-nazione di opporsi al sistema delle caste. La storia di Mayawati, nona figlia di una famiglia di dalit di Delhi, lo testimonia. Fra i diseredati la sua figura è diventata un’icona, la chiamano Behenji, la sorella. Samajwadi è una formazione sorta negli anni Novanta, d’orientamento progressista rappresenta una delle realtà locali che caratterizzano il frammentato panorama politico indiano. La sua forza sta proprio nell’Uttar Pradesh dove, per mano dell’attuale leader Akhilesh Yadav figlio del fondatore, nel 2012 ha vinto elezioni simili alle attuali, diventando premier locale. Certo, allora il Bjp era in fase di ristrutturazione con la scalata al vertice avviata da Modi, eppure quel colpo si fece sentire. Proprio agli strati popolari aveva guardato il primo ministro in carica quando vinse la consultazione del 2014. Eppure le promesse del grandioso lancio d’una potenza indiana con incremento generalizzato delle condizioni di vita nonostante la ferrea difesa del sistema delle caste, si sono inceppate nell’ultimo biennio, complice non solo una disastrosa gestione della pandemia di Covid che, accanto al mezzo milioni di vittime ufficiali, ha creato duecento milioni di poveri (il 38% vive appunto nell’Uttar Pradesh), ma l’ormai svelata inconsistenza della classe dirigente. Lo staff governativo, riempito di ideologi religiosi, non riesce a stare al passo con le necessità d’una modernizzazione pur presente, tormentata dalla tradizione e da un’esasperazione degli aspetti più retrivi e fanatici di quella che il Bjp vuole imporre come religione di Stato. È grazie al mito dell’India hindu che il nazionalismo spera di ribadire il suo potere in queste consultazioni.
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