L’azione dei diversi governi che si sono succeduti negli ultimi vent’anni per quello che riguarda la scuola, l’università e la ricerca è stata contraddistinta da una sostanziale continuità. L’idea sottostante è stata che l’indirizzo del sistema della formazione e della ricerca è inadeguato rispetto alle necessità del sistema economico del paese e che solo attraverso una riforma del primo sarebbe stato possibile un rilancio del secondo. Gli interventi legislativi sono stati mirati dunque a colmare il cosiddetto “gap formativo”, cioè la differenza tra la formazione scolastica e universitaria e le esigenze del mercato del lavoro e a cercare di vincolare la ricerca di base dirottando i finanziamenti in maniera controllata dall’alto. L’esito di questi interventi è stato catastrofico perché erano sbagliate le premesse su cui si basavano.
Il problema del mercato del lavoro per quanto riguarda personale con alta formazione sta dalla parte delle imprese: il paradosso italiano è quello di posizionarsi al penultimo posto dei Paesi Ocse per percentuale di laureati nella fascia d’età 25-34 anni, con un valore pari al 29% contro il 45% della media OCSE, e al contempo di esportare i pochi “cervelli” che vengono formati, giovani laureati o dottorati (dal 2007 i posti di dottorato banditi si sono ridotti del 43,4%). Questo poiché pochi trovano una occupazione adeguata al livello d’istruzione acquisito. È proprio da questa situazione che sorgono fenomeni come l’emigrazione di massa e la competizione per lavori precari di basso livello.
La narrativa dominante ha però raccontato tutt’altro: sorvolando sul nocciolo del problema, la mancanza di una richiesta reale di personale ad alta formazione da parte delle imprese e del cronico sotto-finanziamento del sistema universitario e della ricerca, si è identificato il capro espiatorio del problema negli insegnanti per quanto riguarda la scuola e nei professori per l’università. In questo quadro si è dunque attuata, in maniera bipartisan, la riforma Gelmini che avrebbe dovuto salvare l’Università italiana dai “baroni” ma che invece l’ha consegnata ad una élite di professori spesso contigui alla politica. Il racconto è stato incentrato sulla favola del secchio bucato: prima di riempire un secchio, dare risorse al sistema, bisogna tapparne i buchi, riformarlo. Per ovviare allo “spreco”, nel 2010 si decise un taglio delle risorse di circa il 20% sventolando le parole d’ordine valutazione e meritocrazia: solo attraverso una valutazione continua è possibile far emergere il merito.
Questa situazione ha però prodotto una forte gerarchizzazione dei ruoli, anche per effetto dell’abolizione della figura del ricercatore a tempo indeterminato, sostituita da un esercito di precari la cui carriera è incerta per le scarse risorse disponibili e che sono incentivati al conformismo, cioè a lavorare su progetti di ricerca che puntano a ottenere, innanzitutto, il consenso della comunità di riferimento piuttosto che a proporre l’esplorazione di nuove, e magari controverse, idee. La precarietà e l’irresistibile tendenza al conformismo nella ricerca moderna sono due facce della stessa medaglia. Se questo è un fenomeno internazionale, in Italia è sicuramente incentivato dalla particolare combinazione di limitati finanziamenti e valutazione pervasiva.
La vera esplorazione, oltre a essere difficile, è ad alto rischio nel senso che può condurre a risultati incerti e soprattutto non è mai una scelta popolare nel campo in cui si lavora in quanto, per definizione, la maggioranza dei propri colleghi lavora su altre, e magari contrapposte, linee di ricerca. Tuttavia, favorire l’innovazione, che nasce proprio dall’esplorazione di nuove strade, dovrebbe essere un obiettivo prioritario delle politiche della ricerca: è necessario cioè trovare le migliori strategie per premiare la creatività.
Se dobbiamo pensare a delle linee di intervento, è necessario innanzitutto aumentare le risorse e distribuirle in maniera diffusa sia per quanto riguarda le linee di ricerca che per la collocazione geografica, invertendo così la tendenza a premiare solo chi ha, per merito o per storia, già risorse e cercando di invertire il deperimento di intere regioni e settori scientifici. La dinamica della distribuzione delle risorse in base ad un merito più o meno reale ha il rischio di accentrare sempre di più le risorse su pochi poli, soffocando la ricerca scientifica diffusa e generando un circolo vizioso che inibisce a sua volta la possibilità di sviluppare ricerche innovative. A questo fine è necessario non solo liberare i precari della ricerca dal ricatto della precarietà, ma anche contrastare la concentrazione del potere accademico in poche mani, attraverso il ripristino di forme di governo democratico degli atenei.
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