In occasione del quarantacinquesimo anniversario della “cacciata di Lama” dalla Sapienza, avvenuta il 17 febbraio del 1977, volevamo proporre un’intervista ad un militante della Rete dei Comunisti, Sergio Cararo, che all’epoca dei fatti si trovava (con l’Organizzazione Proletaria Romana) proprio in mezzo a quegli studenti che stavano esprimendo forti forme di contestazione. Quel momento si è rivelato uno spartiacque per il movimento studentesco rivoluzionario dell’epoca ed ha quindi ancora molto da insegnarci rispetto alle scelte e alle prospettive del presente.
In che contesto si è presentata la “cacciata di Lama”?
A febbraio del 1977 moltissime università erano state occupate dagli studenti per fermare la Riforma Malfatti. Questa prevedeva l’introduzione di due livelli di laurea (cosa avvenuta poi nel 2007 con la riforma Berlinguer), l’aumento delle tasse di frequenza, l’abolizione degli appelli mensili.
Il problema è che l’allora PCI, anche in nome del “compromesso storico” con la DC, sosteneva il governo (guidato da Andreotti, leader della Democrazia Cristiana) attraverso l’astensione sulle leggi promulgate dall’esecutivo. Tra queste c’era la Riforma Malfatti ma anche le misure antipopolari varate in nome della lotta all’inflazione: aumento delle tariffe di gas ed elettricità, della benzina, blocco di due anni degli aumenti salariali congelando il meccanismo della scala mobile.
Quindi il PCI e la Cgil stavano faticando sette camice per cercare di far ingoiare queste misure e tenere buoni gli operai. Il fatto che gli studenti fossero insorti contro il governo e criticassero duramente il PCI per il suo sostegno al governo, rischiava di far saltare l’intero scenario di “pace sociale” e lo stesso clima di compromesso storico. Quindi quella protesta andava “normalizzata” con ogni mezzo.
Era prevedibile che si potesse arrivare ad un fatto di questo tipo?
A Roma il 1 febbraio in un raid alla Sapienza, i fascisti avevano sparato ferendo gravemente uno studente e meno gravemente un altro. Il giorno successivo un corteo uscito dall’università devastava la sede dei fascisti in via Sommacampagna e ci fu uno scontro a fuoco tra i manifestanti e due agenti delle squadre speciali in borghese scambiati per fascisti. Il clima nelle università e soprattutto alla Sapienza era dunque molto teso.
Il PCI e la Cgil provarono allora una stupida e presuntuosa “prova muscolare” verso il movimento degli studenti, convocando un comizio di Cgil-Cisl-Uil con il segretario della Cgil Luciano Lama, proprio dentro l’università La Sapienza occupata da giorni.
Ci fu un tentativo di mediazione tra movimento e Cgil chiedendo di far intervenire uno o due studenti al comizio, ma all’appuntamento per definire i dettagli il rappresentante della Cgil non si presentò. Era stato un ulteriore atto di arroganza, ma nessuno – né noi né il PCI/Cgil – poteva immaginare cosa sarebbe accaduto il giorno del comizio. Non era prevista una contestazione così forte. In fondo a quell’epoca la Cgil era la Cgil e c’era ancora una sorta di riconoscimento e rispetto del sindacato più rappresentativo tra gli operai.
Qual è stata la dinamica precisa dei fatti?
In sostanza senza l’eccesso di sicurezza e l’arroganza del servizio d’ordine di Pci e Cgil la contestazione sarebbe stata simile a quella avvenuta in altri comizi sindacali. Ma niente di più. Ed invece è andata che la reazione degli studenti ad una ulteriore provocazione del servizio d’ordine Pci/Cgil (il famoso spruzzo dell’estintore immortalato da tanti video dell’epoca) fu assai superiore per qualità e quantità a quanto tutti potevano immaginarsi. Il servizio d’ordine del Pci/Cgil fu travolto, il camion/palco del comizio devastato, Luciano Lama dovette uscire sotto scorta da un’altra porta dell’università. Il 19 febbraio il movimento “capitalizzò” politicamente la cacciata di Lama dall’università con un enorme corteo che sfilò a ridosso della manifestazione della Cgil a San Giovanni, ma andando a concludersi autonomamente in Piazza Santa Croce. L’incantesimo era stato rotto.
Che messaggio hanno voluto mandare gli studenti con questa contestazione? In che modo questo episodio ha esplicitato una radicale forma di rottura con le forze politiche e sindacali del movimento operaio tradizionale?
L’università in quegli anni era cambiata profondamente anche sul piano sociale. Il fatto che anche i diplomati degli istituti tecnici potessero iscriversi all’università aveva consentito l’accesso agli studi anche a settori popolari ai quali prima erano preclusi. Nelle università c’erano anche i corsi per studenti-lavoratori. Eravamo in pieno movimento dell’ascensore sociale.
La Riforma Malfatti, ma anche la proposta di riforma avanzata dal Pci, venivano respinte con forza dagli studenti perché avrebbero fatto regredire questa condizione. Non solo, con le misure economiche messe in campo da un governo sostenuto dal Pci, la regressione sociale era avvertibile anche sul piano delle conquiste ottenute negli anni precedenti dai lavoratori e dalle loro famiglie. Si erano quindi andate accumulando tensioni sociali, senso di rivalsa, sensazioni di “tradimento” di ampi strati sociali. E gli studenti erano il terminale sociale più attivo e sensibile a queste istanze, ma soprattutto aveva meno aspettative e vincoli di consenso o di obbedienza verso il Pci e i sindacati.
La spinta a rompere una tregua sociale che favoriva solo il governo e il padronato, viaggiava sottotraccia nei settori operai ma era diventata ben visibile e radicata tra i giovani e gli studenti. Si percepiva che stando così le cose il futuro sarebbe stato più precario e insicuro. E infatti è andata proprio così.
Quel movimento aveva intuito in largo anticipo quale era la società che stavano destrutturando e quali disuguaglianze e selezione sociale stava preparando il blocco di potere per la società del futuro.
A partire da questo cruciale punto di svolta, come vi siete rapportati con le forze sindacali classiche, come la CGIL? Che cos’era cambiato, in loro o in voi, da aver reso il confronto/scontro così duro?
Il Pci sul piano politico e la Cgil sul piano sindacale/sociale si erano incaricati con il governo di tenere tutto questo fermento sociale sotto controllo. Ma la realtà è andata diversamente. I nuclei operai antagonisti si rafforzarono molto connettendosi ancora più strettamente con i giovani e gli studenti del movimento. Così come esistevano organizzazioni della sinistra rivoluzionaria come la nostra, già esistevano anche comitati operai e comitati unitari di base nelle fabbriche o nei servizi strategici (ferrovieri, Alitalia, Enel, ospedalieri). C’erano comitati o liste di disoccupati organizzati e comitati popolari nei quartieri. Ne uscirono tutti rafforzati dalla spinta all’organizzazione autonoma e alla rottura con i custodi della pace sociale rappresentati dalla Cgil. Pochi anni dopo, l’irruzione di migliaia di giovani precari della Legge 285 (una legge sull’occupazione giovanile) nel pubblico impiego consentì la nascita di organismi indipendenti anche nel settore pubblico.
Occorre sottolineare che in quella situazione agì anche uno “stato dello spirito” oltre che un dato politico. Nelle elezioni del 1976 era avvenuta la “grande avanzata a sinistra” con il PCI che ottenne più del 33% dei voti. C’era quindi una aspettativa di cambiamento attesa da anni e assai diffusa. Quando la risposta fu invece la collaborazione con il governo dei padroni, la rabbia e la disillusione crebbero molto.
I margini di mediazione e di subalternità dei lavoratori alla Cgil saltarono in più punti. Inevitabile che questa “minaccia” ad una egemonia e ad un controllo sociale da parte di Pci/Cgil che sembrava incontestabile, innescasse uno scontro politico durissimo in tutti i luoghi di lavoro ma anche nella società.
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