L’entrata dell’Italia nella prima guerra mondiale, avvenuta il 24 maggio 1915, fu un affare rocambolesco e improvvisato. Per chi l’ha studiata sui banchi di scuola non è stato facile capire come il nostro giovane Regno fosse riuscito in poco meno di un anno a passare da un’alleanza trentennale con Austria e Germania alla neutralità, e da lì direttamente a una guerra forsennata contro gli ex alleati. Politicamente, come si sa, si trattò di un mero calcolo: non avendo il nostro Paese l’autorità e i mezzi per imporre una propria politica estera, la sua unica via per espandersi era quella di incunearsi nei conflitti altrui alleandosi col migliore offerente.
Certamente più enigmatica è invece la prontezza con cui l’opinione pubblica di allora aderì a queste evoluzioni, se si considera che fino a pochi mesi prima della dichiarazione delle ostilità quasi tutta la popolazione e quasi tutti i partiti erano convintamente neutrali: i socialisti perché contrari a ogni guerra; i cattolici perché fedeli a Benedetto XV che all’«inutile strage» si era opposto prima, durante e persino dopo, con l’impegno diplomatico affinché non si ripetesse; i liberali perché persuasi dai moniti del vecchio Giolitti che della guerra aveva antevisto con precisione la durata e i costi.
Carlo Linati (1878-1949), giornalista, narratore e traduttore riconducibile al folto gruppo di autori della «Linea Lombarda» che si professavano eredi del magistero manzoniano, ha lasciato una sorprendente testimonianza di quel periodo nel racconto autobiografico «Anteguerra» pubblicato nella raccolta Le tre pievi (1922). Nei ritratti dei due protagonisti, l’autore stesso e l’amico di gioventù Donato Crivelli, si riflette il tipo gozzaniano del giovane di inizio secolo imbevuto di miti tardoromantici e cultura d’oltralpe, nemico della quieta operosità borghese che aveva soppiantato gli slanci risorgimentali. Entrambi avvocati controvoglia, i due amici coltivano la passione della pittura e della poesia in una Milano gretta e frenetica, «una città ch’è l’opposto dell’arte… dispietata verso gli spiriti francescani» dove – avrebbe amaramente commentato negli stessi anni Carlo Emilio Gadda – «soltanto chi fabbrica scaldabagni o maniglie di ottone stampato è una persona degna di considerazione».
I
protagonisti del racconto si sentono pesci fuor d’acqua e depositari di
«un’eredità di motivi e di colori che non poteva né doveva andar
perduta», ma in fondo non fanno che seguire gli stessi cliché
decadentistici in voga tra i loro coetanei. È con questa disposizione di
affettata insofferenza e fastidio di un’«epoca… squallida e angustiata,
sempre con lo spirito teso in un’aspettativa incresciosa, in una
sospensione aduggiante» che ricevono la notizia dell’ultimatum austriaco
alla Serbia: «il tocchesana!». Donato frequenta i ritrovi infuocati del
Partito Repubblicano, il primo ad abbracciare le ragioni
dell’interventismo, e non vede l’ora che l’Italia entri «anche lei nella
partita, che spero non ci vorrà negare questo favore». C’è voglia di
guerra, ma ancora non si sa neppure contro chi. «E se ci mandano a
combattere contro la Francia?» si chiede preoccupato l’amico, che
d’altro canto non ha nemmeno «ragioni d’odio particolari contro la
Germania… ma ne avevo sentito dir tal roba da chiodi in casa di mio
padre».
Col passare delle settimane i due abbandonano sempre più gli ozi letterari per darsi a vagare tra bettole e crocicchi alla ricerca di impressioni sul conflitto imminente, riconciliandosi in certo modo con la città anonima e brulicante da cui prima si sentivano respinti. I loro discorsi si fanno esaltati e paradossali. La guerra fratricida contro altri popoli europei diventa nella loro fantasia l’occasione di ricongiungere il nostro periferico Paese al «grande organismo europeo». Il presunto strapotere del popolo che «in Italia purtroppo… governa, che imprime i moti alla nazione» e l’inadeguatezza della classe dirigente italiana, si lamentano, rende vana la speranza di «cavar vino europeo da questa botte nostrana», sicché «se questo è il principio d’una europeizzazione d’Italia, ben venga». Ideali libreschi e ragion di Stato, esterofilia e patriottismo si accavallano senza un disegno o una logica che non siano quelli di eccitare il desiderio del fronte.
A un certo punto il personaggio narrante si congeda
dall’amico per raggiungere le sponde e i monti del lago di Como cari a
tanti autori lombardi (non escluso chi scrive, si parva licet) e allo stesso Linati, che ne era originario per parte di madre e che celebrò nella raccolta delle Passeggiate lariane
(1939). Lì, lontano dalla concitazione e dal chiasso anche
intellettuale della città, il giovane dandy sembra un poco rinsavire ed è
assalito dall’angosciante presentimento della tragedia che incombe
sulla terra «grave e melodiosa» che ama. Durante le sue scampagnate
raccoglie il rassegnato pessimismo dei contadini e riceve da un amico
banchiere già mezzo rovinato dai venti di guerra una minuziosa lista di
provviste da accantonare, perché «potrà venirci addosso una carestia
tremenda». Un altro conoscente «semi scrittore e semi avvocato» lo
investe farneticando di «tutto il suo dionisiaco entusiasmo per la
grandezza del momento storico che stavamo attraversando».
Sarà chiamato nuovamente a Milano da un telegramma del Crivelli che gli annuncia per lo stesso giorno l’inizio di un attacco ai «lurchi», cioè ai beoni, come Dante aveva designato gli abitanti della Germania nel XVII canto dell’Inferno. Inizia qui la seconda parte del racconto, dove l’autore riporta minutamente le violenze perpetrate dal popolo milanese contro le proprietà e le persone dei tedeschi rimasti in città. Appena sceso dal treno si trova catapultato in una specie di pogrom: le strade sono occupate da fiumane di scalmanati intenti a saccheggiare e distruggere tutto ciò che abbia un nesso col nuovo nemico. I negozi di proprietà tedesca sono sventrati e svuotati, le merci date alle fiamme. Le famiglie gettate in strada dalla folla che irrompe negli appartamenti e vi distrugge tutto ciò che trova. Un pianoforte a coda vola giù dal quarto piano tra il plauso della «gente, a grappoli, che rideva, gridava, aizzava». Nei vicoli e nei cortili ferve la caccia alla «spia», cioè a chiunque sia in sospetto di essere cittadino dell’impero o del Reich. Una volta acciuffatolo, «cominciava in una gran ressa di accorsi un lavorio indiavolato di lingue e di randelli».
Benché turbato da quella ferocia improvvisa e gratuita, il narratore segue gli eventi con accondiscendente curiosità «e se qualche vecchio scrupolo d’umanità o di ragion morale mi faceva un po’ esitante d’innanzi a tali eccessi, queste voci furono presto fatte tacere dalla ragion patriottica e dalla grandiosa esaltazione di quell’ora storica». Né quell’«immenso, furibondo carnovale» manca di suscitargli anche un certo piacere estetico, quasi che «il popolo… sentisse che la distruzione ha la sua bellezza, massime quando giova a far il mondo più bello e più pulito». È buio quando trova finalmente l’amico Donato, che a capo di certi teppisti sta assestando gli ultimi colpi a una libreria ridotta a un antro carbonizzato («dàlli alla scienza tedesca!»). Il delicato pittore di un tempo è irriconoscibile. La sua immagine scarmigliata e la furia dei suoi discorsi intimoriscono l'amico che ora vede in lui «un esagitato, un ossesso». In questa «trasfigurazione» dell’angelico Crivelli sembra svelarsi la vacuità dell’uomo e per sineddoche di un'intera classe intellettuale ridotta a vivacchiare di luoghi comuni, che si dà arie di aristocrazia ma a conti fatti segue la massa come l'ultimo degli illetterati: «Anch’egli è popolo» riflette il narratore tra sé, «anch’egli partecipa alla natura vulcanica di questa plebe».
All’arrivo dei pompieri i due si allontanano fino a raggiungere piazza Belgioioso. Lì sono assaliti dalle loro antiche fantasticherie e immaginano di vedere l’anziano autore dei Promessi Sposi («il nostro Lissandrino») affacciarsi dal suo palazzetto e osservare compiaciuto il tumulto. Più tardi, all’osteria, Donato mostra ai commensali un manualetto tedesco sottratto dalla libreria distrutta in cui si illustrano l’uso e gli effetti di vari esplosivi. «Oh che muster! Che muster!» ripete sbigottito un vecchietto. Vinti da siffatta prova (?) i presenti non possono che arrendersi all’ineluttabilità del conflitto: «Ora siamo in ballo e ci convien ballare».
La lunga giornata e il suo racconto si chiudono con un quadretto che è insieme silloge di quell'animalità surreale e metafora della direzione intrapresa. Un gruppo di persone sta ora minacciando una fanciulla bionda dall’accento tedesco, che fugge in un portone. I suoi inseguitori la raggiungono, ma poco dopo riemergono sventolando trionfanti una carta: «È svizzera!». Si scopre allora che la ragazza aveva avvicinato un sergente di cavalleria per ragioni, diciamo, di affari. Scampato il pericolo, si ricompone e chiede al soldato: «Adesso verrai con me, non è vero?». L'uomo la stringe a sé, le dà un bacio sulla bocca «e ambedue scomparivano nel vicolo, fra gli evviva della gente».
L'Italia li avrebbe presto seguiti.
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