Il governo ha scelto una data simbolica per la fine dello stato d’emergenza Covid, il 1 primo aprile, giornata elettiva di scherzi e goliardate. Sarebbe bello che ciò potesse essere inteso, appunto, come annuncio di un evento lieto e spensierato, ma non è così.
Anzitutto sappiamo che la pandemia, nella scuola come altrove, non è affatto finita e forse nemmeno sotto controllo. Il numero dei casi oscilla ogni giorno tra 70.000 e 100.000 con un numero di decessi tra 100 e 200. Ciò che è ancor più inquietante, è che negli ultimi giorni anche i ricoveri sembrano aumentare, a dispetto della tante volte sbandierata minor pericolosità della variante Omicron.
Nella scuola, la diminuzione del numero delle classi in DAD sembra quindi dovuta soprattutto a un allentamento delle misure restrittive che non alla fine della pandemia. Fingere che tutto vada bene nascondendo la polvere sotto il tappeto.
Tutto questo, peraltro, è il risultato della politica governativa di convivere con il virus, anziché eradicarlo. Il Comitato Tecnico-scientifico è sciolto e il generale Figliuolo si dedica a spedire armi, come peraltro s’addice a un militare.
Se dunque la scuola sembra ancora tutt’altro che fuori da rischi di recrudescenza pandemica è tuttavia normale chiedersi se questo presunto ritorno alla normalità significhi solo tornare a “come eravamo” nel febbraio 2020 o se qualcuno dei problemi emersi in questi due anni sia stato affrontato e risolto.
Purtroppo la risposta a questa domanda non può che essere negativa, anzi, se si deve valutare l’azione del governo, le cose stanno ora peggio di due anni fa, come peraltro è dimostrato dalle decine di occupazioni degli istituti da parte degli studenti e dal malcontento del personale alla vigilia del rinnovo contrattuale.
I problemi messi in luce dalla pandemia sono peraltro cronici nella scuola italiana: classi affollate, edifici inadeguati, precariato, mancanza di servizi di medicina scolastica. Nonostante le tante promesse, reiterate prima da Conte e Azzolina e poi da Draghi e Bianchi, nessun problema è stato affrontato alla sua radice, ma solo con provvedimenti improvvisati, largamente insufficienti e senza una visione complessiva.
Nell’immediato, ci si trova ora a dover risolvere il problema dell’”organico Covid”, una nuova categoria di precari costituita appositamente durante la pandemia, per i quali non si sa se ci saranno fondi sufficienti a pagar loro lo stipendio sino a fine anno (non dimentichiamo che ora la priorità è alle armi) e a capire cosa dovranno fare gli insegnanti non vaccinati.
Infatti, questi ultimi sono riammessi in servizio effettivo, ma non possono avere contatti con gli allievi. Idea abbastanza singolare, visto che l’insegnamento prevede necessariamente il contatto con dei discenti. Cosa potranno fare questi insegnanti quindi non si sa, ma già si ipotizza che i costi di un tale provvedimento potranno essere dedotti dai fondi previsti per il rinnovo del CCNL scuola.
Guardando più a lunga scadenza, dal periodo pandemico emerge il PNRR che per la scuola prevede soprattutto l’aumento dell’assoggettamento dell’istruzione pubblica ai privati, con interventi sempre più massicci delle imprese negli istituti e un modellarsi della ricerca sulle esigenze padronali. Di conseguenza, una scuola sempre più “competitiva” e una formazione sempre più aziendalizzata e tecnocratica.
Per gli studenti, che escono da tre anni scolastici drammatici, con una grave riduzione dell’offerta formativa conseguente alle difficoltà di relazioni vere con i docenti e con i compagni, la risposta che si annuncia è quella dell’introduzione delle soft skills o character skills come nuova misurazione a cui sottoporsi.
Si badi, la trappola che sta dietro a queste “competenze non cognitive” è ben articolata, poiché si vuole far passare per “attenzione all’aspetto emotivo” della vita scolastica ciò che in realtà è piuttosto il tentativo di formare i giovani a un pensiero socio-economico funzionale alle esigenze del mercato del lavoro.
Competenze “emotive” come per esempio “resistere alle frustrazioni” celano in realtà l’idea di essere disponibili ad accettare le mortificazioni sul posto di lavoro, la flessibilità, il precariato. “Competenze” che saranno misurate e a cui, di conseguenza, gli studenti dovranno adeguarsi.
La mostruosità sta proprio nel fatto che si tratta di competenze non cognitive, cioè non si misurerà l’apprendimento, ma la conformità del carattere ai dettami dell’OCSE.
Questa è la risposta che il governo Draghi dà ai problemi emersi nella scuola in questi anni, cioè l’esatto contrario di quanto andrebbe fatto. Chi diceva che dalla pandemia saremmo usciti migliori era il solito illuso.
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