All’impegno accademico come docente di Politica economica presso l’Università degli studi del Sannio (Benevento), Emiliano Brancaccio affianca un’intensa attività di opinionista. Gli abbiamo rivolto alcune domande sul suo ultimo libro, Democrazia sotto assedio. La politica economica del nuovo capitalismo oligarchico (Piemme, 2022), in cui l’autore, partendo dalle ricerche empiriche condotte da lui e da altri studiosi, offre a un pubblico non specialistico una ricognizione sul rapporto tra capitalismo e democrazia (il video dell’intervista).
Il filo conduttore del volume è l’invito a riscoprire quella che Brancaccio individua come la più importante tra le leggi tendenziali di sviluppo del capitalismo enucleate da Marx, quella della crescente centralizzazione dei capitali; un processo che, all’interno degli Stati nazionali, si riverbera in uno scontro finanziario e politico tra le diverse frazioni della borghesia (schematizzando: fra globalisti e sovranisti), mentre a livello internazionale si traduce in una competizione tra diversi attori geopolitici che, per assicurarsi quote crescenti del mercato globale, sono disposti a spingersi fino al conflitto militare.
Alla luce di questa analisi, la nostra discussione non poteva che cominciare dalla guerra in corso. L’evidenza empirica – ci spiega l’Autore – è «così sconcertante da indurci a riabilitare, a recuperare una teoria strettamente collegata al concetto di centralizzazione capitalistica nel senso di Marx: la teoria dell’imperialismo, una categoria che ci aiuta a capire che la guerra economica genera squilibri di tale portata, processi di sbilanciamento tra capitali forti e capitali deboli, tra capitali in attivo e capitali in passivo, tra creditori e debitori, da tramutarsi, a lungo andare, in potenziale conflitto fra nazioni, fino a sfociare in guerra militare». L’invasione russa dell’Ucraina, prosegue Brancaccio, può essere definita imperialista non solo perché non ha alcuna “nobile ragione” da addurre, ma anche perché nasce da lontano, ossia dalla crisi di un’altra “soggettività imperialista”, quella degli USA – e dei loro alleati – che l’Autore riconduce a un’inarrestabile crescita del debito estero, concomitante all’espansionismo militare e arrivata ormai a un punto di rottura.
Inevitabile a questo punto la domanda su come superare lo iato tra le evidenze teorico-empiriche della centralizzazione dei capitali e l’attuale condizione non solo materiale, ma anche culturale e di autopercezione di quello che dovrebbe costituire il soggetto trasformatore, ossia il frastagliato mondo del lavoro salariato (e di quello pseudo-autonomo). Da un punto di vista oggettivo, «la centralizzazione dei capitali – sottolinea Brancaccio – conduce sotto molti aspetti a un’uniformizzazione di classe, intesa come convergenza [al ribasso] nelle condizioni materiali di lavoro e di vita a livello internazionale». Chiediamo all’Autore se l’innegabile livellamento verso il basso delle garanzie giuridiche, delle retribuzioni e delle procedure di lavoro renda davvero superflua la prospettiva dell’intersezionalità, con la sua insistenza sulla concatenazione di forme di oppressione diverse (perché fondate non solo sulla classe, ma anche sul genere, l’etnia ecc.). La sua risposta – che farà discutere – è che tale approccio riflette una fase storica ormai conclusa, in cui il comando capitalistico veniva effettivamente esercitato attraverso il divide et impera. Oggi «il capitalismo ci emancipa dalle differenze, ma ci emancipa nello sfruttamento», osserva l’autore, che nondimeno ammonisce a non cadere in un rozzo positivismo. Il richiamo è a Benjamin e alla sua critica «di ogni tentativo di rappresentazione della storia secondo i canoni di modelli matematici di tipo lineare». La legge tendenziale della concentrazione dei capitali, che – ricorda l’autore nell’intervista – proprio perché “tendenziale” non è lineare, racchiude in sé una contraddizione potenzialmente catastrofica, «che pone un problema di soggettività rivoluzionaria», un recupero dell’idea di noi stessi come “attesi”, ossia la consapevolezza del nostro passato e di un nostro possibile destino altro; una condizione, questa, necessaria per arrivare preparati al bivio che ogni catastrofe dischiude.
Le linee di sviluppo, scientificamente riscontrabili, del capitalismo chiamano così in causa la componente messianica del marxismo. Questo non significa che la strada sia spianata: la tendenza oggettiva all’uniformazione si accompagna ad altre tendenze che non sono pacificamente risolutive, anzi, sono foriere di catastrofe, appunto. Non si può quindi pensare – ironizza Brancaccio – di sedersi sulla riva del fiume e aspettare di veder passare il cadavere dell’accumulazione capitalistica; occorre anzi costruire una lotta per l’egemonia, gramscianamente parlando, che marchi la sua distanza dalle forme “codiste” – così le definisce l’Autore – ossia forme che in ultima istanza servono gli interessi degli apparati capitalistici, perché prescindono dalla centralità della classe operaia; una categoria, quest’ultima, che certamente va ripensata (per includere anche figure apparentemente distanti dall’operaio classico), ma assolutamente mantenuta.
«La scoperta scientifica di leggi oggettive, impersonali, di riproduzione del capitale non è in contraddizione con la categoria diciamo pure scientifica di egemonia»; i due movimenti vanno di pari passo e quello che oggi si osserva – chiarisce Brancaccio – è «un movimento oggettivo, in particolare una tendenza verso la crisi capitalistica, e contestualmente una serie di problematiche nella pratica egemonica». Lo sbocco di tale crisi è, ovviamente, indeterminato e non possiamo escludere che la nuova forma egemonica di un sistema in cui la competizione economica trascende in conflitto militare assuma il volto del neoliberismo autoritario.
Per neutralizzare lo scenario catastrofico che può scaturire dalla crisi capitalistica, Brancaccio propone una pianificazione democratica. È un ritorno al keynesismo, gli domandiamo? La sua risposta è netta: non sussistono più le condizioni storiche che lo resero possibile; esso rappresentò infatti la risultante dialettica dello scontro tra capitalismo e socialismo. Oggi tuttavia questa tensione tra due campi contrapposti è del tutto assente ed è per questo – precisa l’autore – che qualsiasi recupero del keynesismo non può che assumere tratti reazionari, concretizzandosi in una politica economica volta a frenare la tendenza alla concentrazione dei capitali, per tenere in vita quelli piccoli.
La pianificazione di cui ci parla Brancaccio non è l’evocazione di un fantasma del passato: «in forme assolutamente primordiali, embrionali, prodromiche la pianificazione è già presente, come pezzo della crisi del capitale»: ad esempio, la centralizzazione del capitale finanziario porta con sé anche una centralizzazione dei processi decisionali. «Questo è evidentemente lo stadio embrionale di una crisi del capitalismo, anche di una crisi ideologica»: che ne è infatti della libera concorrenza tra una miriade di attori? La tendenza alla “ossificazione burocratica” peraltro non è una prerogativa dello stalinismo, è insita anche nella pianificazione capitalistica; del resto, non mancano nella storia – e nel presente – gli esempi di capitalismo integralmente lesivo di ogni libertà che non sia quella... del capitale, con buona pace della narrazione dominante. In che senso allora il piano può diventare garanzia di libertà? «La libera espressione dell’individualità, cara a Marx [...], si manifesta nella repressione della libertà finanziaria del capitale, quindi in ultima istanza in un comunismo pianificatore della tecnica», puntualizza Brancaccio, invitando a recuperare le intuizioni marxiane ma anche quelle di Alexandra Kollontaj.
Chiudiamo sollecitando la sua opinione sul movimento per il clima e sulla sinergia con altri movimenti sociali. L’emergenza climatica, riconosce Brancaccio, costituisce «la rappresentazione scenograficamente più efficace della categoria della catastrofe» e in quanto tale solleva il tema della rivoluzione: il capitalismo infatti è costitutivamente incapace di affrontarla. Non del mercato, ma di una rivoluzione pianificatrice c’è bisogno. Di questa necessità, nota l’autore, non tutto il movimento per il clima è consapevole; quanto all’unificazione delle lotte intorno alla questione ambientale, Brancaccio ritiene che per ogni movimento rivoluzionario sia fondamentale partire dalla percezione delle persone, per poi arrivare a visioni generali. «Dovremmo evitare – è la sua conclusione – di correre frettolosamente verso un tentativo di riunificazione intorno alla visione della catastrofe climatica», tornando piuttosto a costruire modelli di ricomposizione delle rivendicazioni sociali che partono dal vissuto delle persone, un vissuto plasmato dalla divisione in classi.
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