di Guido Salerno Aletta
Siamo passati dall'investimento sui mercati finanziari alla speculazione sui prezzi: questo è il filo rosso che lega gli avvenimenti economici e finanziari di questi ultimi anni, a partire dalla grande Crisi Americana del settembre 2008.
L'inflazione incontrollabile cui stiamo assistendo non ha precedenti: mercantilismo e deflazione salariale, liquidità incontrollata e tassi negativi, crisi sanitarie e conflitti geopolitici.
Tutto comincia negli USA, con i mutui subprime. I prestiti che venivano erogati senza limiti senza controlli di sorta dalle banche americane a coloro che non avevano un reddito sufficiente per ripagarne il costo, e senza assicurarsi nessun'altra garanzia se non l'ipoteca sulla stessa casa che veniva acquistata, avevano innescato una dinamica irrefrenabile dei prezzi del mercato immobiliare. Più crediti venivano erogati, più salivano i prezzi degli immobili, per via di questa domanda drogata.
Questo meccanismo perverso valeva anche per i prestiti revolving: la rateazione del pagamento per gli acquisti effettuati con le carte di credito: di tutto, dalle automobili all'arredamento domestico.
Il sistema del credito illimitato serviva a nascondere il disagio derivante dai redditi insufficienti: era diventato uno strumento di integrazione salariale, a fronte di una occupazione sempre più saltuaria, a tempo parziale e scarsamente retribuita.
Le banche americane si sbarazzavano del duplice rischio finanziario che avevano determinato, quello dei mancati pagamenti delle rate e quello del crollo dei valori immobiliari che nel frattempo erano andati in bolla rendendo vana la garanzia sottostante, cartolarizzando i mutui: dopo aver creato speciali veicoli finanziari che avevano come sottostante questi mutui, ne vendevano le singole quote agli investitori internazionali. Il meccanismo era definito "originate to distribute": le banche infatti originavano il mutuo solo per rivenderlo impacchettato ad investitori stranieri, ignari del rischio che correvano.
La crisi economica globale che fu determinata nel settembre del 2008 dal fallimento di Lehman Brothers, la banca americana che non era riuscita a sbarazzarsi per tempo delle società veicolo che avevano come sottostanti i mutui subprime, fu affrontata da Banche centrali e governi con misure di sostegno monetario e fiscale a carattere straordinario.
La Federal Reserve americana, per prima, ridusse drasticamente il tasso di interesse portandolo a zero ed immise fiumi di liquidità nell'economia acquistando sul mercato titoli del debito pubblico statunitense e quote delle Abs's (Asset backed security) detenute dalle società pubbliche di cartolarizzazione immobiliare.
Il brusco calo del PIL che colpì di riflesso anche le economie europee creò forti preoccupazioni negli investitori. Dopo un primo momento in cui cercarono di proteggersi dal crollo dei valori di Borsa e dalle pessime prospettive comprando titoli pubblici, la valutazione dei mercati virò presto all'opposto: il rapporto debito pubblico/PIL saliva senza soste, il rating dei Paesi più indebitati peggiorava, il premio al rischio per continuare a detenerne e ad acquistarne i titoli si impennava.
Solo sul finire del 2011 anche la BCE decise di portare a zero i tassi di riferimento e a finanziare le banche con rifinanziamenti a più lungo termine, Ltro (Long term refinancing operation), che vennero erogati senza limite di importo prefissato.
Per quanto riguarda l'Europa, la terapia principale è stata quella del Fiscal Compact: tenendo sotto controllo il deficit e le spese pubbliche e forzando la mano sulla pressione fiscale per diminuire le importazioni. Per altro verso, si imponeva maggiore flessibilità al mercato del lavoro, facendo flettere verso il basso i salari, per aumentare la competitività delle imprese esportatrici sull'estero e riassorbire il deficit commerciale.
Ne è derivata una bassa crescita complessiva, per via della domanda interna gracilissima, ed una tendenza dei prezzi a scendere: la deflazione è drammatica per le imprese, perché comporta che vendano ad un livello di prezzi inferiore rispetto a quello di acquisto. La stessa BCE si è posta per anni l'obiettivo di portare l'inflazione ad un tasso vicino ma non superiore al 2% annuo e di sostenere i conti delle imprese e degli Stati tagliando i tassi di interesse sui debiti. Sui titoli pubblici, l'effetto è stato il ribaltamento completo della logica, con i rendimenti nominali a livello negativo: gli investitori pagavano un costo sul capitale impiegato anziché incassare una rendita.
Dopo una brevissima interruzione, le immissioni di liquidità da parte della Fed e della BCE sono riprese per via della crisi pandemica: la forte contrazione delle economie che è stata determinata dalle cautele sanitarie che sono state adottate, con chiusure precauzionali di ogni genere, hanno messo ancora più in difficoltà gli investitori. Mentre il mercato del debito continuava ad avere rendimenti negativi, le debolissime prospettive delle azioni quotate in Borsa non potevano assorbire la nuova liquidità immessa dalle Banche centrali.
Anche il fuoco di paglia basato sulla Green Economy e sulla transizione digitale si è spento subito: nonostante l'enfasi politica e gli impegni dei governi, è sembrata una bugia dalle gambe corte.
La liquidità enorme che le Banche centrali hanno riversato sui mercati ha trovato un unico sbocco: la scommessa sull'aumento della domanda di materie prime e di energia che si sarebbe determinata con la fine della crisi sanitaria.
Così è avvenuto: a partire dalla metà del 2021, tutti i prezzi sono cresciuti senza sosta, incontrollati, da quelli delle commodity a quelli dell'energia.
Da un mese a questa parte, la guerra in Ucraina ha aggiunto nuove tensioni e preoccupazioni inimmaginabili.
Non è la solita inflazione da domanda, né da costi, né deriva solo dalla creazione incontrollata di moneta.
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