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05/09/2022

Se non son dittatori buoni non li vogliamo (e Giulio Regeni?)

di Francisco Soriano

In questi giorni convulsi l’establishment politico italiano, ai suoi più alti livelli, sta cercando di fronteggiare la più grave crisi energetica degli ultimi anni, soprattutto per gli eventi bellici scatenati in Europa da Putin. Qualche mese fa prima del conflitto bellico in corso, il premier italiano Mario Draghi definiva, più o meno, Recep Tayyip Erdoğan come “un dittatore con il quale si è obbligati ad avere relazioni”. Questa affermazione era stata determinata dell’atteggiamento scortese di quest’ultimo nei confronti di Ursula von der Leyen, in visita nella capitale turca, interpretato “legittimamente” come lesivo nei confronti delle donne. L’incidente capitato alla leader europea era stato presto definito come “sofagate” e, la difesa di Draghi, aveva determinato una crisi diplomatica fra l’Italia e la Turchia con tanto di convocazione dell’ambasciatore italiano ad Ankara. La presa di posizione di Draghi aveva sorpreso per la durezza e, senza dubbio alcuno, ci aveva fatto percepire quanto il leader italiano concepisca l’ipocrisia “in politica” come un dato effettivamente accettabile e ampiamente elaborabile. Una affermazione, la sua, che ci confermava la sua impostazione tecnocratica e utilitaristica nell’affrontare le questioni.

Dire che, “in qualche modo”, si deve e si può avere a che fare con un dittatore, definisce bene il perimetro delle relazioni immaginate dal primo ministro italiano. Infatti, l’affermazione non significava affatto superare l’ipocrisia tipica e comunemente accettata in politica internazionale fra stati, come invece la maggioranza della popolazione aveva immaginato ma, in un certo senso, la sdoganava alla luce del sole. Qualche italiota, con scarse conoscenze geopolitiche e una certa inclinazione a una non meglio definita revanche sciovinista, aveva salutato la frase di Draghi come (finalmente), una coraggiosa presa di posizione da parte di un vero leader, forte e inflessibile all’arroganza dell’altro, il nemico necessario, questo sì, su cui far ricadere il proprio frustrante sentimento di impotenza da provinciale nazionalista. La stretta di mano fra Mario Draghi e Recep Tayyip Erdoğan di qualche giorno fa, invece, definisce il perimetro in cui si muovono i nostri leader politici, interessati agli affari, alle buone relazioni, all’accettazione neppure silente che la violenza e la prevaricazione dei dittatori sui dissidenti e sulle persone che esprimono diversità e dissenso possono essere serenamente comprese e taciute. Che male ci sarebbe, in vista delle gravi difficoltà nell’approvvigionamento di risorse e nella necessità prevalente di fare degli inverni al caldo, di calmierare i prezzi dei combustibili, di frenare l’inflazione sui beni di prima necessità e quant’altro? In fondo, dicevano i nostri padri, pecunia non olet!

La questione risiede però, in questo caso, nella totale asimmetria delle posizioni nei confronti di chi perpetra violenza e persecuzione in una dimensione tipica dei regimi dittatoriali seppur in sistemi “generalmente democratici”. Il giudizio nei loro confronti è negativo in alcuni casi, in determinati periodi storici, in certe aree del pianeta e in riferimento ad alcuni leader autoritari; al contrario, in altri casi, l’opinione torna ad essere assolutamente positiva, certi comportamenti da condannare vengono sorprendentemente accettati e, il giudizio sui protagonisti dei misfatti, derubricato alla “necessità” e “pragmaticità” della politica e dell’economia. Infatti, Draghi era stato chiaro non per amor patrio ma, perché il nostro leader, per struttura ed attitudini ha sempre molto a cuore le questioni finanziarie ed economiche delle quali si è spesso trovato a fronteggiare nei vari ruoli che ha ricoperto a livello internazionale. E questo si nota evidentemente in Italia, dove la sua visione politica liberista, decisamente riscontrabile nei suoi atteggiamenti di approvazione ai modelli sociali ed economici statunitensi, provoca e incrementa sacche di povertà, disagio sociale, aumento delle diseguaglianze, arricchimento sempre maggiore di alcune categorie di cittadini senza che nessuno si permetta, se non timidamente, di criticare la deriva sociale alla quale andiamo incontro. Una situazione in totale simmetria con l’ipocrisia atavica ben radicata nel nostro Paese che, nelle sue fasi storiche spesso convulse, ha dato prova di insensibilità alle questioni sociali e alle richieste degli ultimi.

Per ritornare alla dialettica sui “dittatori” (seppur capi di stato in Paesi dove esistono “strutture democratiche elettive”) e alla politica internazionale italiana, la polemica si è scatenata, ad esempio, più o meno consapevolmente in alcuni passaggi dopo le dichiarazioni di Joe Biden nei confronti di Vladimir Putin. Si è compreso e percepito dai vari esperti commentatori (così come la guida statunitense solare e intangibile nella sua sacrale aurea democratica impone), che esistono dei dittatori assetati di sangue, assassini, invasori, dei killer assoldati per uccidere oppositori e scienziati, dei leader autoritari che ordinano di torturare e bastonare (è successo al nostro Giulio Regeni) e, altri, che sarebbero colpevoli delle stesse mostruosità, ma in “forme e condizioni accettabili”. Nel conflitto fra Russia e Ucraina, ad esempio, non vengono considerate (molto raramente da analisti subito tacciati di “putinismo”) le ragioni della deriva bellica che risiedono nei comportamenti assolutamente coincidenti e con una stessa fonte comune costruita sull’intolleranza, l’appropriazione e lo sfruttamento delle persone e dei territori, la mancanza di rispetto verso gli accordi e il disconoscimento dei diritti umani e del dissenso di giornalisti, partiti e sindacati. Una seria e serena lettura della storia dei due Paesi, dagli accordi di Minsk a oggi, aiuterebbe invece a capire cosa stia succedendo, considerando anche la non trascurabile pressione militare della NATO su un Paese con un complesso di accerchiamento abbastanza tangibile. Questa mia considerazione si basa sui comportamenti e sulle prese di posizione dei nostri leader e rappresentanti politici, in vari contesti internazionali e pubblici, nei confronti dei dittatori d’Egitto, della Turchia, del Mozambico, dell’Algeria, dell’Arabia Saudita, dell’Iran e di altri innominabili Paesi con strutture autoritarie (ripeto, democratiche solo sulla carta) e immorali con i quali non si dovrebbero avere neppure relazioni telefoniche. Sono, in definitiva, dittatori “ragionevoli” con i quali si possono avere relazioni commerciali e diplomatiche.

Il nostro Presidente della Repubblica, Sergio Mattarella, in un percorso politico connotato, da sempre, da sobrietà e senso delle istituzioni, ha tradito la sua inviolabile intangibilità politica, probabilmente per “ragioni di Stato”, per ragioni necessarie e “davvero ineludibili”. È volato in Mozambico al fine di esaudire il fabbisogno di gas della nostra nazione, cercando personalmente di stabilire relazioni commerciali. Il concetto e il sacrificio sono chiari. Tuttavia, ricordare che cosa sia questo Paese, è forse doveroso. Un sacerdote portoghese e non un pericoloso rivoluzionario comunista, padre Ricardo Marques, ha definito qualche tempo fa sulla stampa nostrana la situazione sociale e politica del Mozambico: famiglie spezzate, persone scomparse (in migliaia), tortura come sistema e strumento di deterrenza contro i dissidenti, uomini e donne giustiziati per strada e sgozzati. Inoltre, il parroco quantifica con numeri catastrofici, la deriva “dittatoriale” del Mozambico: “più di 3.000 morti ed oltre 800.000 sfollati in tutta la provincia del nord del Paese negli ultimi sei mesi” in cui, “la maggioranza della popolazione si rifugia nella boscaglia, fuggendo da morte certa; inoltre ci sono persone che non sanno dove si trovino i loro parenti, se sono ancora vivi o morti”. Combattimenti continui, traffici di armi e di altro imperversano nel Paese fra gruppi di miliziani, fra i quali i jihadisti di al-Shabaab e civili, che fuggono da un luogo all’altro. Dalla città costiera di Palma sono stati costretti alla fuga 11.000 civili e molti sono rimasti intrappolati e giustiziati in città. Inutile affermare che la maggioranza dei fuggitivi sono donne e bambini, arrivati a Nangade, Mueda e Montepuez in vari momenti e a più riprese: “Non conosciamo le motivazioni di quello che sta succedendo” dice ancora il missionario che, aggiunge, “con l’escalation della violenza si stanno riaccendendo vecchi rancori. Non possiamo far cadere nell'oblio quanto sta avvenendo in questa parte di mondo. È necessario un intervento urgente, prima che sia troppo tardi. Mi appello, quindi, a tutte le autorità e alle persone di buona volontà, affinché si trovi presto una soluzione che metta fine a questa guerra devastante”. Gli appelli sono chiaramente caduti nel vuoto e gli unici a prestare soccorso e aiuto sono sacerdoti e suore cattoliche che vivono da anni in Mozambico. Continuare la narrazione della devastazione in questo inferno terrestre sembra essere quasi impossibile per orrore e dolore.

Mario Draghi si è invece recato in Turchia. Una stretta di mano al califfo fotografata e ben mostrata in tutto il mondo, soprattutto per le polemiche di mesi fa, scatenate dal succitato “caso” von der Leyen/dittatore necessario. Anche in questo caso bisognerà ricordare che cosa rappresenti la Turchia, in pieno Mediterraneo, agli occhi del democratico occidente. Un Paese che intende far parte, a pieno titolo, della nostra Comunità europea ed è membro della NATO. Recep Tayyip Erdoğan è uno dei leader più improponibili al mondo per aver favorito e rafforzato nel proprio Paese la più massiccia e sistemica violazione dei diritti umani. Migliaia di morti e deportati dopo il tentato golpe, una buona scusa per liberarsi di tutti i dissidenti una volta per tutte, affamando le famiglie dei “sovversivi”. Sotto il suo governo di matrice dittatoriale, con evidenti atteggiamenti di tipo califfale, si attenta continuamente alla vita di giornalisti e dissidenti politici, con la tortura si terrorizza la popolazione, praticata in tutte le carceri e luoghi di detenzione. Incredibilmente, disprezzando ogni più elementare principio giuridico, vengono arrestati i legali e i difensori nei processi penali eletti a difesa dei propri imputati. Il sultano turco lede, viola e non tiene in alcun conto le norme internazionali in merito al rispetto delle etnie, delle comunità minoritarie e linguistiche, perseguitando con le proprie milizie e l’esercito, il popolo e i territori curdi, che bombardano, massacrano, uccidono su mandato, stuprando le donne e deportando i maschi, non disdegnando l’invasione di spazi oltre confine come è spesso capitato con la Siria. Anche in questo caso ricordare i casi di morti in carcere per lo sciopero della fame, prigionieri dissidenti alcuni dei quali componenti di gruppi musicali e giornalisti, è emblematico e spiega bene il clima di violenza nel Paese.

La politica estera italiana dai primi anni novanta del secolo scorso è stata connotata da gravissime e ignobili posizioni: noi, sempre dalla parte dei più forti e contro le popolazioni e gli stati in chiaro affanno e bisogno. Avremmo preferito che un leader come Draghi fosse stato finalmente in grado di reggere un comportamento abbastanza lineare nei confronti delle gravi intromissioni, centinaia, degli Stati Uniti d’America nello scacchiere internazionale. Ad esempio, sulla guerra per procura in Ucraina, fra Usa e Russia, silenzio assordante. I crimini commessi dagli americani sono stati spesso elencati e narrati, le derive umanitarie provocate dagli USA in Medioriente sono sotto gli occhi di tutti. Le posizioni imperialistiche al fine di procacciare risorse e commerciare in armi hanno una evidenza cristallina. Per non parlare delle violazioni dei diritti umani nel proprio territorio, che avvengono all’ordine del giorno: uccisioni indiscriminate degli afroamericani, tendenze di arianesimo nazista di alcuni estremisti e derive golpiste come la presa di Capitol Hill; poi le leggi che cancellano la possibilità alle donne di interrompere la gravidanza, le limitazioni al diritto di ospitare derelitti che spingono ai confini, le esecuzioni in base alla legge sulla pena di morte, le giurisdizioni speciali dove viene consentita la tortura “legale” come nel caso delle carceri di Guantanamo, sono solo alcune delle “distorsioni democratiche” di questo Paese.

La politica estera del nostro Paese non si è mai distinta per coraggio. Vari e molteplici i governi capeggiati da Silvio Berlusconi e i suoi sodali che, ad esempio, orchestrava ricevimenti in favore dei dittatori buoni: si ricordano ancora quelli adornati da giovani donne con in braccio il corano, in chador e minigonna, pagate per rendere onore allo sceicco Muhammad Gheddafi in territorio italiano. E poi le barzellette e le pacche sulle spalle, gli affari e le foto ricordo con Vladimir Putin, quel leader che Joe Biden oggi definisce un macellaio. I populismi cominciarono proprio allora, ridefinendo il ruolo del Parlamento, sacro avamposto democratico, alla mercè degli spettacoli televisivi, divenuto presto uno spazio eletto rimpinguato da giullari e saltimbanchi, soubrette e amici di lusso, mortadelle e fiaschi di Chianti. Dopo la deriva culturale e antropologica insieme, ecco l’astro nascente: il populista Renzi, del quale pochi ricordano la sua dialettica a tratti violenta: “basta con i vecchi e i professionisti della politica”, quelli che siedono da sempre sugli scranni del Parlamento, richiamando a una doverosa dimissione in caso di “cambio-casacca”; e poi la “rottamazione”, come se si parlasse di frigoriferi o autovetture, ormai inutili, se non buoni in vista di una rivalutazione commerciale per il nuovo. Era il nuovo che avanzava e, se non fosse stato concesso il passo, diceva, “ci faremo da parte perché un mestiere noi ce l’abbiamo”. Sono tutti in stretta ed eroica resistenza sulle proprie postazioni di potere e guadagno. Ancora le invettive, poi, contro quelli che rubano, che scappano quando “fanno gli incidenti stradali”, e altre cose di questo genere che avrebbero influito negativamente sulla democrazia di questo Paese. Renzi non è sfuggito alla sua “grandezza” in politica estera, rendendosi davvero insuperabile, lui, fiorentino di Rignano, a dichiarare che il Rinascimento è ormai affare saudita, facendoci vergognare più che arrossire. Neanche si era finito di parlare del povero giornalista fatto a pezzi in un consolato e trasportato in sacchetti di plastica in Arabia Saudita. Per onore di cronaca molto spesso, con malcelata umiltà, Renzi ha sperato di essere nominato a capo della NATO, questa entità che ha tolto sovranità al nostro Paese, collocando sul nostro territorio missili nucleari di cui non possediamo i codici. Chapeau!

Oggi, invece, il Parlamento doveva diventare una scatoletta di tonno. Le parole per chi scrive hanno un valore superiore, probabilmente, a quello (il significato, l’etimo e infine il valore) che i parlanti (politici?) intendono dare, ma questo lessico esprime bene lo stato deteriore del Paese. Discretamente meglio, il linguaggio si è denotato per moderazione quando la narrazione voleva il Palazzo come “un cristallo”, così trasparente in cui tutto poteva essere visto: infatti lo spettacolo in termini di indecenza nei comportamenti dei rivoluzionari populisti ha superato ogni più fervida fantasia.

Noi però non dimentichiamo la storia di Giulio Regeni. I populisti non sono stati in grado di compiere nessun passo nei confronti dell’Egitto governato da un dittatore necessario. Non c’è riuscito nemmeno il tecnocrate, l’uomo della provvidenza. L’ennesimo: Mario Draghi.

Questo giovane intellettuale italiano è stato bastonato, torturato e ucciso, gettato come uno straccio in uno spiazzale fra i rifiuti di una autostrada. Questa è la verità. Non esistono altre discussioni, opinioni, idee, dialettiche. Noi vogliamo la Verità e la Giustizia per Giulio Regeni. Noi vogliamo che l’Italia interrompa i rapporti commerciali e diplomatici con l’Egitto, vogliamo che questi due Paesi non abbiamo più rapporti anche al prezzo di interrompere la circolazione delle persone per qualsiasi intento.

Noi i dittatori non li vogliamo, anche quelli necessari.

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