L’Aumento della violenza nelle scuole si esprime sia contro le cose, con atti di vandalismo, sia contro le persone con atti di bullismo o di violenza fisica. Tali fatti hanno trovato tempestiva visibilità mediatica e ci spingono a cercare di comprendere cosa si può fare per arginare questo fenomeno.
I motivi che alimentano il ripetersi e l’aumento degli episodi di violenza e di bullismo nella scuola possono essere molti: un’inadeguata e scarsa educazione emotiva, noia, menefreghismo e deresponsabilizzazione genitoriale, insofferenza ai dettami del vivere insieme, solitudine, emarginazione, competitività, meritocrazia ecc. Tante possibili cause e tante altre se ne potrebbero trovare.
C’è da aggiungere che politiche neoliberiste non hanno certamente aiutato la scuola, anzi, hanno accelerato la sua crisi con pesanti tagli alle risorse umane ed economiche per cui oggi diventa molto difficile trasmettere e fare cultura in piena libertà d’insegnamento e di pluralismo culturale, assicurando la tolleranza, l’inclusività, il sostegno e l’integrazione alle persone più deboli e in difficoltà.
Oggi, dobbiamo avere il coraggio, a fronte dei sempre più numerosi episodi di aggressività, di domandare se la scuola stessa non stia diventando, per le cattive politiche scolastiche, uno spazio sociale dove aggressività e violenza si sentano a casa propria.
Sicuramente le classi sovraffollate, la precarietà del personale scolastico, la soffocante struttura burocratica che ha stravolto e ostruito la scuola dell’autonomia, l’aziendalizzazione della comunità educante, creano un clima di forte sofferenza ambientale.
Inoltre la professione di docente ed i servizi scolastici sono, di fatto, appesantiti e soffocati burocraticamente da ipertrofia normativa, da carte da riempire e tempistiche procedurali cui ci si deve attenere, oltre alla cronica mancanza di fondi.
È facile per l’attuale ministro della pubblica istruzione e la sua corte di sapienti che lo circonda, predicare regionalizzazioni o proporre l’introduzione dello psicologo, una goccia nel mare, che aumenterà senz’altro il monte di carte e le procedure da seguire. Tale figura per marciare dovrebbe evitare l’organizzazione a sportello che poco ha funzionato nelle scuole.
Se ci si vuole occupare veramente del disagio giovanile scolastico curando l’aspetto psicologico occorrono ben altri mezzi e risorse. Occorre evitare di calare dall’alto figure professionali per pura propaganda politica e per celare il proprio dilettantismo. Figure che introdotte senza confronto in primis con i relativi organi collegiali, potrebbero anche entrare in conflitto con la libertà d’insegnamento ed essere sgradite a famiglie e studenti.
Sarebbe utile abbassare a quindici il numero di alunni per classe e agire in sinergia con un team di specialisti che affianchino il coordinatore di classe durante il consiglio di classe. Inoltre bisognerebbe relazionarsi immediatamente con le famiglie dei nuovi alunni, specialmente in ingresso, lavorando in tandem con le strutture territoriali, le scuole di provenienza e le altre figure specializzate sul disagio.
Purtroppo, nella scuola per salvaguardare l’integrità e la resa scolastica del gruppo classe e per spegnere le preoccupazioni delle famiglie degli alunni “normali”, perdura l’abitudine di sospendere temporaneamente o di espellere l’alunno aggressivo o difficile. Questa primitiva consuetudine contrasta chiaramente con i principi di inclusività, integrazione e recupero alla socialità che sono a fondamento della scuola. Indubbiamente non è facile agire in solitudine e privi di mezzi e la scuola è un’orfana povera da anni. In tali condizioni tutto diventa più difficile. Il corpo docente e gli altri membri della comunità educante non possono fare molto.
Occorre cambiare registro senza avere l’illusione di poter azzerare la violenza e l’aggressività che è anche conseguenza del nostro modo di produzione e sviluppo. Anche il controllo-sorveglianza esercitato dall’introduzione del registro elettronico non aiuta a instaurare una relazione di fiducia tra chi educa e chi è educato. Dietro queste celebrate tecnologie informatiche c’è una logica dell’ispezione-vigilanza per punire chi trasgredisce alle regole.
Rientrano in tale tipologia e odorano di controllo e di sorveglianza anche i test sempre più frequenti che il ministero della pubblica istruzione e del “merito”, effettua nelle scuole con la scusa di valutare il livello culturale degli studenti.
Tali forme ispettive non hanno prodotto alcun miglioramento nella scuola né tanto meno hanno avuto ricadute positive sul rendimento, sulla dispersione o l’insuccesso scolastico.
Trasformare la scuola in una sorta di panopticon 4.0 con controlli, obblighi e divieti genera risposte di opposizione e accresce la sfiducia rendendo più difficile l’instaurazione di un clima relazionale volto al confronto. Se vogliamo facilitare le relazioni umane tra i partecipanti alla comunità educante e stimolare il confronto e il dialogo occorre creare uno spazio in un certo modo politico che produca la mediazione serena del conflitto ed educhi alla comprensione degli elementi soggettivi e oggettivi del conflitto, invogliando all’apertura verso l’altro e la socialità.
Oltre a tutto la violenza prolifera nei luoghi dove l’indifferenza verso l’altro regna sovrana, dove gli atti di bullismo e di violenza non trovano l’opposizione di chi fa da spettatore e gira la testa da un’altra parte nell’attesa che qualcuno abbia il coraggio di intervenire al suo posto.
È questa miscela d’indifferenza, paura ed egoismo che alimenta il fascismo equivoco nelle nostre società votate al consumo che poi si riproduce in tutti gli ambiti della società compresa, la scuola.
Perciò bisogna destarsi sperimentando anche altri metodi educativi, linguaggi e sensibilità che consideri il corpo e la realtà che c’è fuori dalle aule. Tutti aspetti utili ad abbattere muri e costruire ponti di comunicazione con l’altro per conoscerlo e aiutarlo a opporsi contro chi usa la violenza e la prevaricazione.
Il tema dolente dell’incomunicabilità tra discente e docente e tra minore e la famiglia e il suo ambiente sociale andrebbe maggiormente accudito.
A tale riguardo mi viene in mente un vecchio film del 1967 “La scuola della violenza”. La pellicola tratta da un romanzo di E. R. Braithwaite racconta di un docente di colore che cambia metodo didattico, butta via i libri e parla di amore, sesso ribellione e altro e riesce in questo modo a comunicare con una classe di ribelli portandola con successo alla fine dell’anno scolastico.
Naturalmente queste materie sono ostacolate nella scuola italiana. Come pure sono state snellite fino quasi a scomparire materie come la filosofia, la storia, la geografia, la musica, il teatro.
Per di più sono state unite oscenamente e senza alcun riguardo alla cultura e di docenti, classi di concorso diverse, diminuito il tempo scuola e altre mostruosità.
Credo che a questo punto occorra finire questa serie di ragionamenti con un esempio. Mi riferisco al teatro dell’oppresso di Augusto Boal, elaborato in Brasile durante gli anni '60 con l’obiettivo di aiutare i contadini a rispondere alle situazioni di oppressione. In seguito A. Boal, espulso dalla dittatura brasiliana nel 1971 dopo essere stato incarcerato e torturato, giunge in Europa arricchendo il teatro dell’oppresso di nuove idee, metodi e tecniche più appropriati al contesto europeo.
Tale teatro è utilizzato con successo nelle scuole svedesi e ha caratterizzato positivamente alcune brevi esperienze italiane. Ritengo che una sua riconsiderazione in ambito educativo come strumento di presa di coscienza nei confronti di problematiche sociali possa servire da stimolo a una riflessione partecipata sull’attuale modello educativo e sulla scuola in generale.
Diversamente per la china che da qualche tempo hanno preso le politiche scolastiche di molti paesi compreso il nostro, temo il rischio di scuole con vigilantes e mura perimetrali con docenti androidi “robocop”, infarcita di sistemi di sorveglianza di riconoscimento facciale, ma nel qual caso vorrebbe dire che la violenza ha vinto su tutto facendosi sistema educativo.
In fin dei conti dobbiamo riconoscere nostro malgrado che nella scuola chi per un motivo chi per un altro siamo tutti soggetti oppressi.
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