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05/06/2023

L’inflazione è da profitti, ma la paga il lavoro

Con la dinamica dei prezzi che non accenna a diminuire, il potere d’acquisto delle famiglie si riduce sempre di più e le persone hanno difficoltà a fare la spesa e a pagare il mutuo o l’affitto.

Le banche centrali di tutto il mondo hanno risposto con aumenti dei tassi, in osservanza alle prescrizioni della teoria quantitativa della moneta (Tqm), che resta maggioritaria, nonostante le critiche demolitrici e l’evidenza scientifica a smentirla.

Si apre con questo argomento il libro L’inflazione. Falsi miti e conflitto distributivo, opera collettanea pubblicata a marzo da Edizioni Punto Rosso.

Secondo la Tqm l’inflazione è il prodotto di un eccesso di moneta in circolazione, che sarebbe stato provocato dai programmi di spesa pubblica messi in campo nel 2020-21. Basterebbe quindi ridurre questo eccesso aumentando il tasso di interesse, per risolvere il problema.

In realtà, il rialzo dei tassi deprime investimenti e domanda finale, raffreddando l’economia e generando disoccupazione. Per questa via si riduce soprattutto il potere contrattuale dei sindacati, costretti ad accettare riduzioni salariali.

In Italia, però, i salari sono già ai minimi storici: dopo un trentennio (1990-2020) segnato da una riduzione dei salari reali medi del 3% – un unicum tra i Paesi dell’Ocse – il biennio passato ha visto una caduta verticale del salari reali – pari secondo i dati Istat all’1,3% nel 2021 e addirittura al 7,6% nel 2022 – e il 2023 non è destinato ad andare meglio.

Di fronte a questo scenario drammatico, il rialzo dei tassi opera un’ulteriore redistribuzione del reddito da chi paga interessi sui propri debiti – ad esempio, le famiglie che hanno contratto mutui a tasso variabile – verso chi percepisce rendite finanziarie.

Risulta allora cruciale comprendere le cause dell’inflazione odierna. È un fenomeno legato solo a fattori esterni, come l’aumento dei prezzi energetici aggravato dalla guerra?

L’impatto dell’aumento del prezzo del gas avrebbe comportato un aumento dei costi di produzione e dunque dei prezzi pari a un terzo dell’inflazione osservata in Italia. Questo considerando non solo gli effetti diretti, ma anche la loro propagazione attraverso la rete globale delle relazioni inter-industriali, gli effetti indiretti cumulati.

I rincari dell’energia spiegano dunque solo una piccola parte della spirale dei prezzi. Poiché i salari nominali non sono aumentati, questo gap è spiegabile solo con un aumento dei margini di profitto: in un contesto di prezzi fortemente variabili come quello iniziato a fine 2021, in diversi settori le imprese non hanno solo scaricato tutto l’aumento dei costi di produzione sui consumatori, ma hanno avuto buon gioco ad aumentare i prezzi in misura più che proporzionale, aumentando i margini di profitto.

Siamo dunque di fronte a un’inflazione trainata dai profitti, non dai salari.

Diventa allora importante chiedersi quali politiche potrebbero proteggere i salari reali dei lavoratori senza innescare la famigerata “spirale salari-prezzi”.

Una riduzione del margine di profitto consentirebbe di mantenere i prezzi invariati, a tutela del potere d’acquisto delle famiglie. Il controllo dei prezzi, e dunque dei profitti, sarebbe quindi uno strumento prezioso per proteggere il mondo del lavoro, almeno nei settori più rilevanti rispetto al meccanismo di trasmissione dei prezzi.

Una misura così radicale – potrebbero argomentare gli economisti di grido – rischierebbe tuttavia di mettere in crisi il sistema produttivo italiano. Ma non esiste alcuna legge ferrea riguardo il mantenimento dei margini di profitto.

Non solo in aggregato la massa dei profitti generati in Italia sarebbe più che sufficiente ad assorbire gli aumenti dei prezzi energetici e delle materie prime, contenendo la dinamica dei prezzi, ma alcune singole realtà aziendali si discostano di molto dalla media, in positivo.

Se ne ha conferma a partire dai dati di bilancio delle imprese italiane del quinquennio 2017-21: a una crescita del valore della produzione del 14% e del margine operativo lordo del 29%, fa riscontro un aumento dell’utile netto del 77,5%; dopo il crollo della produzione dovuto ai lockdown, la redditività delle aziende è comunque in forte recupero.

L’aumento dei profitti a fronte di investimenti piuttosto contenuti fa aumentare i depositi bancari delle aziende, che dal 2017 al 2021 sono aumentati del 70% (da 302,8 a 515,3 miliardi), contro un aumento generale dei depositi pari al 24%.

Ne deduciamo dunque che l’inflazione, insieme alle politiche economiche adottate nei principali Paesi avanzati, ha permesso il forte aumento della profittabilità delle imprese.

Un altro tassello essenziale per comprendere le dinamiche odierne e la sconfitta storica da cui queste discendono riguarda l’indicizzazione salariale, ossia le varie forme di ancoraggio dei salari ai prezzi. Le vicende del sistema italiano di indicizzazione fino all’abolizione della scala mobile nel 1984 costituiscono un punto di partenza rilevante per inquadrare il presente.

A partire dal 1993 l’obiettivo dichiarato diventa proprio quello di contenere l’inflazione e a partire dall’accordo separato del 2009 – siglato da Confindustria, Cisl e Uil – gli aumenti salariali sono legati a un indice inflazionistico, chiamato Ipca, al netto della dinamica dei prezzi dei beni energetici importati (Ipca depurato).

In altre parole, il tasso di inflazione che fa da riferimento per contrattare gli aumenti salariali non tiene conto dell’effetto degli aumenti di prezzo dell’energia importata, che come abbiamo visto è responsabile di una parte rilevante dell’attuale salita dei prezzi.

Non solo assistiamo da decenni a un processo di indebolimento dell’indicizzazione e della tutela dei salari reali, ma abbiamo un sistema di contrattazione ancorato a un indice inflazionistico che non tiene conto della componente energetica importata.

Si tratta di una scelta politica determinata dai rapporti di forza tra percettori di profitti e di salari, tutta a scapito di questi ultimi. Per di più, se osserviamo il contesto europeo, ci rendiamo conto che i meccanismi di indicizzazione salariale non sono ovunque così sfavorevoli per i lavoratori: in diversi Paesi, anzi, i sindacati cercano di estendere l’indicizzazione all’insieme dei contratti.

Gli argomenti solo sfiorati in questo articolo sono approfonditi nel libro, che vuole essere uno strumento utile a inquadrare la spirale inflazionistica dal punto di vista della distribuzione e della giustizia sociale, prospettiva poco considerata nel dibattito pubblico italiano.

Se la durata e le conseguenze dell’inflazione sono una questione tutta politica, prioritaria per chi vuole difendere gli interessi del mondo del lavoro, è bene proclamare ad alta voce l’esistenza di una alternativa concreta rispetto all’ennesima crisi pagata da lavoratori, precari e disoccupati.

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