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04/01/2024

Israele fuori dal mondo

Analizzare una strategia militare significa sempre individuare l’obiettivo politico che la giustifica. La “morale” non c’entra.

L’attacco israeliano a Beirut, con un drone, per colpire un dirigente di Hamas – Saleh al Arouri, vicepresidente dell’ufficio politico – rivela una logica militare semplice e chiara: disarticolare la struttura di comando del nemico e quindi indebolirlo.

Da questo punto di vista è un atto di guerra “normale”, che ha la forte controindicazione di allargare a tutto il Libano (non solo ad Hezbollah) la minaccia di escalation del conflitto.

È la stessa logica che aveva prodotto l’attacco in Siria in cui è stato ucciso il generale iraniano Seyed Razi Mousavi, un «consigliere senior del corpo in Siria». In questo caso le controindicazioni si moltiplicano, perché il coinvolgimento nell’escalation riguarda due paesi come la Siria e soprattutto l’Iran, che hanno un peso politico e militare decisamente superiore al Libano.

Il disegno politico israeliano emergente da questi due attacchi, insomma, sembra assai meno potente della forza militare messa in campo.

Indebolire il nemico diventa impossibile se si moltiplicano i nemici. Per quanta forza militare (e nucleare) si possa avere è chiaro che l’aumento degli avversari porterà a subire più colpi, ed anche più duri, in una rincorsa che a tutto può portare tranne che a vivere “in sicurezza” (alla pace, in Israele, sembrano non averci mai pensato).

Anche perché una cosa è avere dei nemici “dormienti” – che aiutano i tuoi nemici più vicini e più deboli, ma senza intervenire direttamente – altra è vederli scendere in campo e schierare le truppe.

La strage di Kerman, in Iran, ha invece tutte le caratteristiche di una provocazione deliberata, di uno “sfregio” mirante ad indurre una risposta militare diretta.

L’obiettivo non aveva infatti nulla di militarmente rilevante. L’anniversario dell’uccisione, per mano Usa, del generale Qassem Soleimani, ex capo della Forza Quds, il braccio delle operazioni estere dei Guardiani della Rivoluzione, ha visto in piazza quasi esclusivamente civili, qualche dirigente politico, ovviamente diversi “guardiani”.

Ma le bombe di Kerman – due, a distanza di poco tempo e poche decine di metri – miravano esclusivamente alla massimizzazione di morti e feriti. Senza alcuna pretesa di “precisione chirurgica”.

Militarmente insensata, ma politicamente definitiva. L’Iran è invitato a rispondere ed è ovvio che la risposta sarà seguita (o anticipata) da altri colpi di durezza crescente.

Dunque qual è l’obiettivo di Israele?

Fare guerra con tutti in Medio Oriente? Per quanto possano restare in piedi millenarie nemicità tra sciiti (Iran, Houti yemeniti, alauiti siriani, Hezbollah libanesi, ecc.) e musulmani sunniti (tutti i paesi arabi, senza contare quelli più lontani come Pakistan, Afghanistan, centrosiatici, Indonesia), è difficile pensare che questi attacchi – che si sommano al genocidio in corso a Gaza – possano attirare simpatie verso Tel Aviv o incentivare l’indifferenza.

Da tre giorni, peraltro, Iran e Arabia Saudita – capifila delle due grandi correnti dell’Islam – sono entrati a far parte dei Brics+, e quindi quelle distanze sono in corso di riduzione.

La strategia del “cane pazzo” (una strategia di deterrenza), come ricordato anche ieri, può funzionare se il numero dei nemici è relativamente basso e la loro motivazione a combattere è minima. E necessita comunque di un “ombrello” statunitense, sia a livello militare che diplomatico, che sia fermo e incontrastato. Condizione in crisi da tempo...

Eppure, se si guarda alle esternazioni dei ministri di ultradestra nel governo Netanyahu, pare proprio che la strategia di Israele sia priva di limiti e quindi di senso politico.

Nei giorni scorsi i ministri israeliani Bezalel Smotrich e Ben Gvir, hanno fatto appello a un ritorno dei coloni ebrei nella Striscia di Gaza dopo la guerra e al contemporaneo “incoraggiamento all’emigrazione” degli abitanti palestinesi della regione.

“Per avere la sicurezza – ha detto Smotrich in un’intervista alla radio militare – dobbiamo controllare il territorio e per controllarlo militarmente a lungo termine abbiamo bisogno di una presenza civile“.

È un’ottica classicamente coloniale, di occupazione perpetua di un territorio altrui. Il problema è che questa logica – anche a voler prescindere dagli orrori che sta producendo – sposta il problema, ma non lo risolve.

Ammesso e non concesso, infatti, che i palestinesi di Gaza possano essere fisicamente espulsi dalla Striscia, in qualunque territorio vadano resteranno piuttosto “arrabbiati” con Tel Aviv. E dunque costituiranno ancora una “minaccia per la sicurezza di Israele”.

Applicando la stessa logica di Smotrich, Ben Gvir e Netanyahu, a quel punto, sorgerebbe la “necessità” di ripetere lo schema, occupando altri territori, in un processo senza fine... che in realtà va avanti dal 1948.

Tirando questa logica alle estreme conseguenze, Israele si sentirà “sicura” solo quando il resto del mondo sarà vuoto o lontano dai propri confini, che peraltro non sono fissati nella sua Costituzione e quindi continuamente estendibili in base alle proprie esigenze di sicurezza.

Non è un’illazione malevola, se si pensa al fatto che in questo momento il governo Netanyahu sta contattando diversi stati per “emigrare volontariamente” i gazawi. E hanno pensato in primo luogo al... Congo.

In linea, si potrebbe dire, con il governo inglese che voleva “esportare” gli immigrati in Ruanda.

Singole follie che rivelano la dimensione del problema che ha davanti in questo momento il mondo: un paese fuori controllo e fuori da ogni regola, che agisce sulla base – o con la giustificazione ideologica – di essere un “popolo eletto” da un dio “in esclusiva”.

Un suprematismo razzial-religioso che non si era mai presentato prima, né con queste caratteristiche, né con questa pericolosità.

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