Presentazione


Aggregatore d'analisi, opinioni, fatti e (non troppo di rado) musica.
Cerco

11/01/2024

Una visita a Julian Assange nella prigione di Belmarsh

Il co-fondatore del sito Wikileaks teme che la sua stessa detenzione, la persecuzione del governo statunitense e il blocco ai finanziamenti del sito abbiano di fatto spaventato i potenziali informatori (whistleblower).

A Belmarsh, prigione di Sua Maestà, sono le 14.30 di mercoledì 13 dicembre quando Julian Assange entra nell’area visitatori. Nel gruppo di 23 detenuti, Julian si distingue per la sua altezza – 188 centimetri – e per i lunghi capelli bianchi e la barba curata. Stringe gli occhi, cercando un volto familiare nella folla di mogli, sorelle, figli e padri degli altri detenuti.

Lo sto aspettando, secondo quanto mi era stato detto, alla zona D-3 della sala, che sembra un campo da basket. È una delle circa 40 zone, tutte consistenti in un tavolino circondato da tre sedie imbottite, due blu e una rossa, avvitate al pavimento.

Ci scorgiamo, ci avviciniamo e ci abbracciamo. È la prima volta da sei anni che me lo rivedo davanti. Mi scappa detto: “Sei pallido”. Con quel suo sorriso malizioso che ho visto in tanti incontri nel passato, Julian mi dice scherzando: “Già. Lo chiamano pallore da galeotto”.

Non ha praticamente più conosciuto l’aria aperta da quando si è rifugiato nell’angusta ambasciata ecuadoriana di Londra nel giugno 2012 – salvo per quel minuto mentre la polizia lo trascinava in un furgone penitenziario.

Prima del 2019, le porte-finestre dell’ambasciata almeno lasciavano intravedere il cielo. Invece nel carcere di massima sicurezza di Belmarsh, nel sud-est di Londra, sua dimora dall’11 aprile 2019, Julian non vede mai il sole.

I secondini lo tengono confinato in una cella per 23 ore su 24. La sua unica “ora di ricreazione” si svolge tra quattro mura, sotto sorveglianza. Si capisce dunque il perché di quel pallore da moribondo.

Ero arrivato in treno e poi in autobus un’ora e mezza prima dell’appuntamento, per le formalità di registrazione e per i controlli di sicurezza.

Tutto inizia nel Centro Visitatori, un edificio al piano terra a sinistra del carcere. Si tratta di una sala desolante in stile anni Cinquanta come quelle raffigurate da Edward Hopper: tavoli da quattro soldi, sedie scheggiate, luci fioche e banchi di armadietti di vetro.

Una donna sorridente, che sembrava avere almeno i miei 72 anni, mi ha detto che ero in anticipo e mi ha suggerito di prendere un caffè. L’ho ordinato a un omino che presiedeva un rudimentale angolo cucina: ha semplicemente versato dell’acqua bollente in una tazza dove aveva messo un po’ di caffè solubile.

Venti minuti dopo, all’una e un quarto, la porta di un ufficio adiacente si è aperta per consentire ai visitatori di fare la fila per ottenere i lasciapassare.

Quando è arrivato il mio turno, ho dato il mio nome a una delle tre donne in divisa dietro un bancone rialzato. Ha guardato il suo computer e poi ha chiesto: “È qui per il Signor Assange?” È stata gentile, quasi amichevole, mentre registrava le impronte dei miei indici e mi diceva di guardare una telecamera aerea che mi fotografava.

Ho fatto vedere i tre libri rilegati che volevo regalare a Julian: il mio “Soldiers Don’t Go Mad”, il nuovo romanzo di Sebastian Faulks, “Seventh Son”, e “Pegasus: La storia del software spia più pericoloso del mondo”, di Laurent Richard e Sandrine Rigaud.

donna gentile mi ha ordinato di consegnarli alla donna tarchiata seduta alla sua destra. Questa ha esaminato il mio libro, la storia di un ospedale psichiatrico per ufficiali colpiti da shock durante la Prima Guerra Mondiale.

Guardando poi il frontespizio, dove avevo messo la mia firma per Assange, ha sentenziato: “E’ proibito consegnarglielo.” “Ma perché?”, ho chiesto, facendo la domanda che non si deve mai fare in una prigione. “Perché non si può scrivere nulla su un libro destinato ai detenuti.”

Ho risposto che era semplicemente la mia firma su un libro scritto da me, non un codice segreto. Niente da fare. Questa era la regola. Mi ha ordinato di aspettare in sala mensa mentre verificava se era permesso dare gli altri due libri.

Bevendo il Nescafé tiepido, ho letto i giornali. E’ arrivata altra gente, per lo più donne che si sono unite alla coda. Alcune avevano con loro bambini piccoli o neonati.

Una era con suo figlio, un ragazzo sorridente di circa 12 anni. Un’altra somigliava a Diana Dors, la vamp del cinema britannico, le cui forme voluttuose e il cui rossetto rosso ciliegia avrebbero fatto desiderare a qualsiasi detenuto i piaceri dell’intimità.

Poi c’era una donna anziana che sembrava dell’Asia del sud e che zoppicava appoggiandosi a un bastone da passeggio. Un’altra ancora aveva i capelli coperti da un hijab. C’erano anche alcuni uomini, perlopiù anziani e forse in visita ai loro figli. La maggior parte di loro dava l’impressione di essere già stata qui.

Al banco di registrazione, la donna tarchiata mi ha detto che Assange non poteva ricevere alcun libro. Il motivo? Doveva togliere i libri in eccesso dalla sua cella prima di aggiungerne di nuovi. Sbagliando ancora una volta, chiedo: “Perché?” Con la faccia seriosa, risponde: “Pericolo di incendio”. Mi viene in mente una frase di “Il Maestro e Margherita” di Mikhail Bulgakov, ma non oso dirla: “I manoscritti non bruciano”.

Ho depositato i libri e tutto ciò che avevo in un armadietto: telefono, penna, quaderno, giornali. Tenevo in tasca 25 sterline in contanti – il limite consentito – per comprare gli snack all’interno della prigione.

La donna gentile mi ha dato un lasciapassare cartaceo e un cartellino da portare al collo: “H[is]. M[ajesty’s]. Prison Belmarsh-Social Visitor 2199”. Insieme al mio gruppo, ho attraversato il cortile fino all’ingresso per i visitatori proprio dentro la prigione. Poi un’altra serie di controlli e perquisizioni e la verifica delle impronte digitali, l’esame ai raggi X e l’ispezione di un bel golden retriever che sa fiutare le droghe. Infine, siamo entrati nella sala per attendere i detenuti.

Julian e io ci sediamo, faccia a faccia, io sulla sedia rossa, lui su una di quelle blu. Sopra di noi, globi di vetro nascondono le telecamere che registrano le interazioni tra i detenuti e i loro ospiti.

Non sapendo come iniziare la conversazione, gli chiedo se vuole qualcosa dal bar. Chiede due cioccolate calde, un panino al formaggio e sottaceti e una barretta Snickers. Lo invito a venire con me e a fare le sue scelte.

“Non è permesso”, dice. Vado da solo a mettermi in fila allo stand gestito dai volontari dei Samaritani di Bexley e Dartford. Quando arriva il mio turno, faccio l’ordinazione. I panini sono finiti, dice l’omino, ma il resto è cibo spazzatura: patatine, barrette di cioccolato, cole, muffin dolci.

Torno da Julian, che ha cambiato posto. La sedia rossa è per i detenuti, quella blu per i visitatori e una guardia gli ha ordinato di prendere il posto giusto. Metto sul tavolo il vassoio con le cioccolate calde, le Snickers, alcuni muffin e il mio caffè solubile.

Chiedo perché fosse disponibile solo cibo poco salutare. Sorride e mi dice che dovrei vedere cosa mangiano lì dentro con un budget di €2.30 per detenuto al giorno. Al giorno? Già: una farinata [porridge] per colazione, zuppa leggera per pranzo e poco altro per cena. [Vedi la “Lettera al re Carlo” di Julian, in cui descrive gli orrori di Belmarsh, in questo bel video:].

Julian aveva pensato che stare in prigione significasse pasti comuni su lunghe tavolate, come nei film. Nella pratica, invece, i secondini di Belmarsh ficcano il cibo dentro le celle e lasciano che i detenuti mangino da soli.

È difficile in questo modo fare amicizia con gli altri. Julian Assange è lì dentro da più tempo di qualsiasi altro detenuto, a parte un anziano che ha scontato sette anni contro i quattro e mezzo di Julian. Mi dice che ogni tanto ci sono dei suicidi, tra cui uno la notte precedente.

Poi mi scuso per non aver potuto dargli dei libri, spiegando che mi avevano detto che aveva superato il limite. Sorride di nuovo. Nei primi mesi gli hanno permesso una dozzina di libri. In seguito, fino a 15. Lui ha insistito per averne di più. “Quanti ne hai adesso?” “Duecentotrentadue”, dice maliziosamente. È il mio turno di sorridere.

Gli chiedo se ha ancora la radiolina che aveva faticato a ottenere il primo anno. Ce l’ha, ma non funziona più a causa di una spina difettosa. Il regolamento consente a ogni detenuto di avere una radiolina acquistata nei negozi del carcere, ma poi le autorità hanno sostenuto che non c’era più disponibilità di apparecchi radio per lui.

Quando l’ho saputo, gli ho mandato una radiolina. Mi è stata restituita. Poi gli ho inviato un libro su come costruire una radio. Anche quello mi è stato restituito.

Sono passati vari mesi e ho contattato uno dei più noti ex ostaggi britannici di Hezbollah per chiedergli un consiglio. Infatti, l’ascolto del BBC World Service sulla radiolina che i suoi rapitori gli avevano dato gli ha permesso di non impazzire.

E allora, dietro mia sollecitazione, Julian ha scritto al governatore della prigione dicendo che sarebbe stata una cattiva pubblicità per la prigione se fosse uscita la notizia che Belmarsh negava ad Assange un privilegio che Hezbollah concedeva ai suoi ostaggi. La prigione ha dato a Julian la sua radio.

“Vuoi il mio aiuto per convincere le autorità a riparare o sostituire la spina rotta?” “No grazie,” mi ha risposto. “Mi creerebbe solo problemi inutili.”.

Ma come fa a tenersi completamente aggiornato, lui che è così appassionato delle notizie del mondo? Risposta: il carcere gli permette di leggere le rassegne stampa; inoltre, gli amici gli scrivono. Con l’invasione dell’Ucraina e di Gaza, dico, ci dovrebbero essere tante occasioni, per gli informatori (whistleblower) del mondo, di inviare documenti a WikiLeaks, no?

Julian esprime il suo rammarico per il fatto che WikiLeaks non sia più in grado di denunciare i crimini di guerra e la corruzione come in passato. La sua incarcerazione, la persecuzione del governo statunitense e le restrizioni poste ai finanziamenti di WikiLeaks non hanno fatto altro che allontanare i potenziali informatori. Esprime la paura che gli altri media non riescano a colmare il vuoto.

Belmarsh non gli offre programmi di istruzione o attività sociali, come suonare in un’orchestra, fare sport o partecipare alla redazione di un giornale carcerario, che sono normali in molte altre prigioni.

Il regime è punitivo, anche se i circa 700 “abitanti” di Belmarsh sono lì soltanto in custodia cautelare, cioè in attesa di giudizio o di appello. Ma si tratta di detenuti di categoria A, quelli che “rappresentano la minaccia più grave per il pubblico, la polizia o la sicurezza nazionale”: persone accusate di terrorismo, omicidio o violenza sessuale.

Parliamo di Natale, che è un giorno come un altro a Belmarsh: niente tacchino, niente canti, niente regali. La prigione è chiusa ai visitatori il giorno di Natale e quello successivo; infatti, il carcere ha informato la moglie, Stella Moris, che lei e i loro due figli piccoli, Gabriel e Max, non possono vedere Julian la vigilia di Natale.

Invece può partecipare alla Messa cattolica celebrata dal cappellano polacco, che è diventato un amico.

L’ora di visita sta per finire. Ci alziamo e ci abbracciamo. Lo guardo, incapace di dirgli addio. Ci abbracciamo di nuovo, senza parole.

I visitatori si dirigono verso l’uscita, mentre i prigionieri rimangono seduti. Io sono libero di uscire, ma lui deve tornare in cella. A parte le visite occasionali, le sue giornate sono tutte uguali: lo spazio ristretto, la solitudine, i libri, i ricordi, la speranza che avrà successo l’appello dei suoi avvocati contro l’estradizione e il carcere a vita negli Stati Uniti.

Mentre varco le porte automatiche verso il mondo esterno, mi vengono in mente le ultime parole di “Un giorno nella vita di Ivan Denisovich” di Aleksandr Solzhenitsyn, tradotte dal mio compianto amico e agente letterario Gillon Aitken: “La sua condanna è stata di tremilaseicentocinquantatré giorni, dalla mattina di ogni giorno fino allo spegnimento delle luci. I tre giorni in più erano dovuti agli anni bisestili”.

Fonte

Nessun commento:

Posta un commento