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06/09/2024

Bundesbank vuole eliminare la possibilità di “quantitive easing”

È difficile spiegare in termini macroeconomici l’apparente ottusità di Bundesbank – la banca centrale tedesca – nel voler obbligare la Bce (Banca centrale europea) a non far nulla in più della semplice “lotta all’inflazione”. Ovvero, di fatto, ad aumentare i tassi di interesse quando l’inflazione sale oltre il 2%, il livello considerato (molto arbitrariamente) come “ottimale” per il buon funzionamento dell’economia capitalistica in una certa area.

Persino i giornali economici italiani (dal Sole24Ore a MilanoFinanza) si interrogano con preoccupazione sulle recentissime sortite di Joachim Nagel (presidente di Bundesbank) e del membro del board Bce Isabel Schnabel i quali, in vista della ciclica “revisione della strategia” dell’istituto di Francoforte, consigliano di limitare drasticamente il ricorso al “quantitative easing” quando l’inflazione rimane a lungo troppo bassa.

Come avvenuto per parecchio tempo solo pochi anni fa, quando si uscì da una situazione capitalisticamente assurda (il costo del denaro era diventato negativo, ovvero chi prestava soldi se ne vedeva restituire di meno, anziché di più) solo perché sia la Bce che la Federal Reserve Usa “iniettarono denaro” in quantità mostruose nel sistema finanziario.

Gli strumenti furono più d’uno, ma rimase famoso l’acquisto di titoli di stato europei indipendentemente dal loro rating, abbassando così lo spread tra i titoli “sicuri” – essenzialmente quelli tedeschi – e tutti gli altri.

Questa “politica monetaria non convenzionale”, cui proprio i tedeschi si opposero inutilmente, rese famoso come mago quel Mario Draghi che poi ci siamo ritrovati come modesto presidente del consiglio e ora “deus ex machina” della prossima ristrutturazione interna della UE.

Le conseguenze dei quantitative easing, al mutare delle condizioni generali, non sono state nel medio termine tutte positive, anzi. L’inflazione, grazie anche all’esplosione della guerra in Ucraina, ha superato ad un certo punto il 10%, mettendo in moto la politica esattamente opposta: alti tassi di interesse per riportarla alla “normalità” anche a costo di soffocare una crescita economica già asfittica.

Ma sul fatto che la “generosità” della Bce aveva evitato il tracollo finaziario di mezza Europa il consensus tra gli operatori è stato pressoché unanime. Meglio vivi, ma azzoppati, che morti...

Mentre l’inflazione lentamente cala, e i tassi di interesse si rivelano assurdamente alti imponendo una riduzione contemporanea negli Usa come in Europa, la sortita dei massimi banchieri centrali teutonici punta a cancellare – o limitare fortissimamente – proprio lo strumento del “salvataggio”.

Perché? La ricostruzione fatta dagli analisti è di una semplicità (e banalità) sconcertante. “I banchieri centrali tedeschi sono da sempre avversi ad acquisti significativi di titoli di Stato. Inoltre pesano le forti perdite in bilancio della Bundesbank (21,6 miliardi di euro nel 2023). Il rosso è stato però aggravato dalla mancata condivisione dei rischi: se la Buba avesse acquistato più titoli italiani o spagnoli (a rendimento maggiore di quelli tedeschi) le perdite sarebbero state inferiori.”

Di fatto nella Bundesbank si ragiona come in una normale azienda privata: se ci rimetto qualcosa, non va bene. Ma una banca centrale ha un compito istituzionale del tutto diverso: quello di assicurare le migliori condizioni possibili per lo svolgimento della normale attività economica.

“Di fatto – nota MilanoFinanzaSchnabel propone un approccio asimmetrico, il contrario di quanto definito nell’ultima strategia: la banca centrale dovrebbe tornare al target in modo tempestivo quando il carovita è oltre il 2% (come negli ultimi anni), mentre dovrebbe essere «più paziente» quando è sotto il 2%”.

L’approccio è palesemente contraddittorio, anche perché i banchieri centrali di Berlino lamentano la scarsità di “titoli di stato sicuri” oltre ai propri. E non ci vuole molto a far loro notare che questa scarsità dipende anche, o soprattutto, dall’assenza di “un safe asset europeo”, ossia degli eurobond garantiti dalla Bce.

Proprio l’atteggiamento diffidente verso gli altri paesi europei – considerati “cicale” – ha portato Bundesbank, durante il “quantitative easing” draghiano, a comprare solo “titoli buoni”, rimettendoci alla fine circa 20 miliardi perché la “sicurezza” aveva come contraltare rendimenti in quel periodo negativi (come detto prima: il costo del denaro era diventato negativo). Se avesse comprato invece più titoli italiani, greci, spagnoli, ecc, “le perdite sarebbero state inferiori”.

Dietro l’ottusità teutonica, insomma, ci sono sia una cultura monetaria legata alle politiche di “austerità”, sia un certo nazionalismo inconfessabile dentro un quadro istituzionale “comunitario” (ma tra diseguali).

Ma anche uno statuto della Bce scritto con i piedi (anche in quel caso su pressione tedesca ed olandese). Al contrario della Fed statunitense, infatti, che ha due obiettivi da tener presente (il tasso di inflazione e quello di disoccupazione), la Bce ha un solo bersaglio: l’inflazione, e chissenefrega di recessione, disoccupazione, ecc.

Non sembra solo una coincidenza che questa impostazione folle – capitalisticamente parlando – rialzi la testa proprio mentre la recessione bussa alle porte tedesche al punto che Volkswagen annuncia, per al prima volta nella storia, la chiusura di stabilimenti in Germania.

Con quell’idea in testa, insomma, non puoi far altro che sbagliare. Sempre.

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