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07/12/2024

Romania - Golpe elettorale, ma “democratico”, ci mancherebbe…

La Corte Costituzionale della Romania ha deciso all’unanimità di annullare le elezioni presidenziali. L’intero processo elettorale per l’elezione del presidente rumeno dovrà essere ripetuto, con il governo incaricato di stabilire una nuova data.

Le elezioni presidenziali si erano tenute al primo turno il 24 novembre con risultati che avevano rovesciato tutte le previsioni elettorali: il favorito in partenza, il primo ministro socialdemocratico Marcel Ciolacu era infatti giunto solo terzo, dopo il vincitore a sorpresa, l’ex diplomatico Calin Georgescu (considerato non a torto molto di destra, ma soprattutto favorevole a un processo di pace con la Russia) e la «liberale filoeuropea» Elena Lasconi.

A seguito di questi risultati c’erano state contestazioni da parte di due candidati di minoranza che avevano chiesto un riconteggio. Avvenuta la conta, la Corte Costituzionale aveva comunque convalidato il voto, ma la Procura ora ha avviato due indagini per chiarire l’origine “sospetta” dei finanziamenti alla campagna elettorale di Georgescu. Le ipotesi di reato sono “tentata corruzione degli elettori” e “riciclaggio”.

Mercoledì 4 dicembre il presidente uscente Klaus Iohannis aveva dichiarato che la Russia ha condotto una vasta campagna per promuovere il vincitore Georgescu su piattaforme social come TikTok e Telegram. Questa domenica, 8 dicembre, era atteso il secondo turno delle presidenziali che avrebbe visto in campo lo stesso Georgescu e l’europeista Lasconi. Ma la decisione della Corte costituzionale di annullare l’intero processo elettorale del primo turno ha cancellato la scadenza, rimettendo in moto tutta la macchina elettorale.

Fin qui i fatti.

Non è la prima volta che i risultati elettorali in uno «swing state» – uno stato a metà strada, come consensi popolari, tra fedeltà alla Nato e all’Unione Europea oppure al tenersi fuori dai giochi di guerra (cosa che può avvenire sia con partiti di destra che di sinistra) – vengono contestati o annullati.

Abbiamo visto quel che è accaduto in Moldavia, dove in pratica la vittoria «europeista» (con i residenti in maggioranza “contro”) è stata raggiunta solo con i voti dei cittadini emigrati all’Ovest, mentre di fatto si impediva il voto a quelli emigrati in Russia.

Oppure in Georgia, dove si è arrivati ad accusare di brogli il partito che era all’opposizione (quindi senza leve di potere amministrativo adeguato a falsificare il voto) davanti a risultati «inaccettabili» per l’Occidente.

È’ in assoluto la prima volta, invece, che la contestazione dei risultati avviene chiamando in causa le tecniche di propaganda elettorale e i finanziamenti con cui è stata condotta la campagna del candidato presidente Calin Georgescu, risultato a sorpresa in testa al primo turno (peraltro con appena il 22% dei voti).

In pratica, citando uno dei tanti giornali italiani, assolutamente tutti schierati a favore dei candidati rumeni «europeisti» e pro guerra in Ucraina, «sono stati rilevati alcuni account e attività sospette, come un utente di TikTok scoperto mentre versava 381.000 dollari agli influencer sulla piattaforma per promuovere contenuti mirati sul candidato Georgescu. La campagna sul social cinese è stata coordinata da un gruppo Telegram e secondo gli investigatori era coordinata da “attori non statali”, quindi la Russia, e attuata da “una società di marketing digitale molto efficace”. I servizi l’hanno definita una campagna promozionale condotta in maniera “aggressiva” per incrementare la popolarità del candidato».

È da anni che i social vengono utilizzati anche in chiave politico-elettorale. Ricordiamo quanto venne lodata la capacità di Obama con questi strumenti, per arrivare alla Casa Bianca.

E a maggior ragione, da underdog delle campagne elettorali italiane, condotte con Potere al Popolo, sappiamo bene quanto pesi il controllo padronale o politico delle televisioni; e quanto anche, benché in drastico calo, quello dei grandi giornali (tutti di proprietà di gruppi industriali o finanziari, certo non «neutrali» rispetto alla politica).

E sappiamo anche bene quanto gli Stati Uniti, dai tempi della Democrazia Cristiana ad oggi, influenzino con soldi e propaganda le campagne elettorali in Italia e nel mondo, decidendo spesso anche quali risultati siano «democratici» e quali «autocratici» (a seconda di chi vince; se dalla loro parte o contro).

È perciò sorprendente – sul piano delle «forme» della democrazia, non certo sul piano concreto – che ora si arrivi a giudicare «inaccettabile» che in campagna elettorale si faccia propaganda con i mezzi legalmente esistenti e che ci possano essere «influenze» (di paesi stranieri e/o di gruppi industriali e finanziari) che provano ad orientare il voto.

Questa condizione è infatti la realtà quotidiana di tutte le elezioni nel «libero Occidente». O impediamo qualsiasi influenza sul voto (cosa peraltro impossibile, perché un’elezione comporta una legittima battaglia per la conquista dei consensi, escludendo ovviamente la compravendita dei voti), oppure smettiamo di votare.

In realtà, anche in questo caso, le cose sono semplici. Stando ai sondaggi, nel ballottaggio che si doveva tenere domenica 8 dicembre il candidato definito «filo-russo» risultava stra-favorito, con quasi i due terzi dei voti (si veda la foto in apertura).

Questo, sì, era decisamente inaccettabile per il sedicente «libero Occidente». Di fatto viene detto (ai rumeni come ai georgiani, ma anche a noi “vecchi europei”): il risultato non è valido finché non vincono “i nostri”. La riprova? Se i nazifascisti ci aiutano a vincere, allora li chiamiamo “democratici”; se invece si schierano contro di noi, allora gridiamo “allarme!”.

Facciamo notare però che ormai anche nelle «democrazie consolidate» il processo di annullamento dei risultati elettorali e/o di delegittimazione dell’opposizione sta raggiungendo la soglia dell’autocrazia reazionaria.

Lo abbiamo visto in Corea del Sud, con la dichiarazione della «legge marziale» contro il Parlamento (poi ritirata davanti alla rivolta popolare, ma il presidente golpista rifiuta di dimettersi).

Lo stiamo vedendo in Francia, dove il voto aveva premiato la sinistra unita ma Macron aveva dato l’incarico a un tecnocrate europeo che ha governato appena tre mesi con l’appoggio dei fascisti di Marine Le Pen; e dove ora la soluzione sembra sia la spaccatura del fronte di sinistra cooptando i socialisti più corrompibili.

In definitiva: la democrazia parlamentare liberale non sembra reggere il passo della crisi economica e delle pulsioni di guerra. E quindi lascia il passo volentieri alla pura forza, contando su polizia ed esercito. Ma, come sempre, è difficile governare contro il popolo...

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