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09/12/2024

I jihadisti ex Al Qaeda e i mercenari di Erdogan non sono Robin Hood

di Fulvio Scaglione

Il primo tra tutti i principi della scienza è nominare le cose. Perché dar loro un giusto nome vuol dire farle esistere e creare l’ordine. Ed è talmente vero che “ricevere un nome” è una delle grandi ricompense che Dio offre a coloro che “rispettano il diritto e fanno ciò che è retto”: “Io darò loro, nella mia casa e dentro le mie mura, un posto e un nome, che varranno più di figli e di figlie; darò loro un nome eterno, che non perirà più” (Isaia, 56,5).

Un posto e un nome: yad vaShem, che non a caso è la denominazione del Memoriale della Shoah sul Monte della Memoria, a Gerusalemme.

E quindi c’è qualcosa di profondamente ingannevole e blasfemo, anche se parliamo di politica, nell’uso distorto di certe parole. Per esempio: com’è possibile definire “ribelli” i jihadisti di Heyet Tahrir al-Shams, eredi diretti di Al Qaeda, finanziati dalla petromonarchie del Golfo Persico, cioè da rigide autocrazie islamiche?

O i miliziani addestrati e finanziati dalla Turchia, oggi raccolti sotto la sigla di Fronte di liberazione nazionale dopo essere stati, ai primordi della guerra civile siriana, l’Esercito libero siriano?

Ribelli a chi? A cosa? Nemici di Bashar al-Assad di sicuro. Ma agli ordini di sceicchi ed emiri e del Rais turco Recep Tayyep Erdogan. Da un autocrate all’altro, insomma. In più, nella maggior parte non sono siriani: turchi, ceceni, tunisini, sauditi, tutto tranne che siriani. Lo stesso Al Julani, il capo di Heyet Tahrir al-Shams, è nato a Ryad, capitale dell’Arabia Saudita.

Quindi basta chiamarli “ribelli”, che sa di Robin Hood o di partigiani. Questo è un branco di fanatici e mercenari, null’altro. E così devono essere chiamati, qualunque sia il giudizio che diamo alle diverse parti in causa.

E lo stesso discorso andrebbe fatto per i famosi “volontari” stranieri che combattono nelle file dell’esercito ucraino. Anche qui, non c’entra nulla annacquare il ragionamento col mantra dell’aggressore e dell’aggredito. Non è questioni di ragioni e di torti.

Gli uomini della Legione internazionale di difesa dell’Ucraina (questo il nome ufficiale, di solito abbreviato in Legione straniera) dovrebbero essere circa 20 mila, secondo le stime ufficiali. E tra loro non mancherà di certo una quota di volontari. Ma se uno va a vedere le biografie dei morti (i vivi non amano raccontarsi) scopre che quasi tutti i georgiani, per esempio, non sono certo alla prima esperienza: nel curriculum di combattenti hanno magari la Cecenia e l’Ossetia del Sud.

Come si campa facendo il soldato “volontario”? E se uno continua a guardare, nota che tra i caduti della Legione sono molti, certo la maggioranza, i ragazzi arrivati dall’America Latina. Certo, è consolante pensare che in Ecuador e in Colombia ci siano tante persone che hanno così a cuore le sorti dell’Ucraina da attraversare il mondo e rischiare la vita per difenderla. Ma è anche credibile?

Lo diciamo per l’ennesima volta, per i duri d’orecchi: non è questione di questo o di quello, di ragione o di torto. È questione del modo in cui raccontiamo il mondo. O, magari, del modo in cui NON lo raccontiamo. Nella speranza che prima o poi i nostri desideri diventino realtà.

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