Lo scritto che Beppe Corlito ci ammannisce in questo articolo dovrebbe essere una presentazione del romanzo di esordio di Vasilij Grossman (un autore “russo-ucraino ed ebreo” particolarmente caro agli anticomunisti che intendono darsi una vernice ‘di sinistra’), ma si risolve, per via di un ‘furor’ polemico privo di solide motivazioni storiche e ideali, in un acido pamphlet antistalinista.
Ciò che ne risulta è infatti un vieto campionario dei pregiudizi e delle mistificazioni create ad arte dalla propaganda di stampo americano nel periodo della “guerra fredda” con lo scopo precipuo di denigrare l’azione e la figura di colui che lo stesso Lenin ebbe a qualificare come “quel meraviglioso georgiano” (definizione che compare nel sottotitolo di una bella biografia di Stalin scritta da Gianni Rocca, che il Corlito, se non fosse accecato da quel ‘furor’, farebbe bene a leggersi).
Tralasciando, per altro, l’uso strumentale, nella sua ‘recensione-pamphlet’, dei riferimenti ai vari personaggi quali specchi deformanti per mettere in cattiva luce la personalità di Stalin, vale la pena di sottolineare che lo stesso recensore, dopo aver criticato i presunti errori di Stalin prima e dopo l’attacco della Germania nazista all’Unione Sovietica, non può non riconoscere, sia pure attribuendoli unicamente al “popolo immortale”, i meriti di Stalin nella conduzione della grandiosa controffensiva dell’Armata Rossa che porterà i soldati sovietici a innalzare, il 2 maggio 1945, la bandiera rossa sul palazzo del Reichstag.
Per quanto riguarda poi il riferimento all’epurazione dei quadri di comando dell’Armata Rossa (1937-38), va detto che essa fu decisa dopo la scoperta della cospirazione militare che il generale Tuchacevskij stava preparando in combutta con le frazioni opportuniste del partito comunista e si rivelò determinante (non per indebolire ma) per rafforzare la successiva resistenza ideologica, politica e militare dello Stato sovietico nel corso della guerra, che il gruppo dirigente del partito sapeva essere inevitabile, con il fascismo.
Eliminando la quinta colonna, Stalin salvò indirettamente la vita a molti milioni di sovietici, poiché questi morti sarebbero stati il prezzo supplementare da pagare nel caso in cui l’aggressione esterna avesse potuto giovarsi dei sabotaggi e dei tradimenti interni.
Certo, il generale Zukov e gli altri capi militari non avevano mai accettato l’inevitabilità di questa epurazione e non avevano nemmeno capito il significato politico del processo a Bucharin; ciò nondimeno, Zukov nelle sue “Memorie” (tomo II, Edizioni Fayard, Parigi, 1970) confuterà le menzogne di Chruscev sugli errori e le responsabilità di Stalin nella seconda guerra mondiale, sottolineando giustamente che la vera politica di difesa era cominciata nel 1928 con la decisione di promuovere l’industrializzazione a tappe forzate.
Stalin, infatti, preparò la difesa dell’Unione Sovietica costruendo più di 9.000 industrie tra il 1928 e il 1941 e seguì la linea strategica di impiantare all’Est del paese una nuova potente base industriale: partendo da questa premessa, Zukov rende perciò omaggio “alla saggezza e alla chiaroveggenza” di Stalin sia prima che durante la guerra, virtù “sancite in modo definitivo dal sommo giudizio della storia”.
Per attaccare il prestigio di Stalin, che fu incontestabilmente il più grande capo militare della guerra antifascista, i suoi nemici amano chiacchierare su “una dogmatica autoritaria che non teneva alcun conto dei processi reali”, quando fu proprio grazie alla lucidità e alla fermezza di Stalin, nel cui nome i soldati russi andavano all’attacco, che l’Unione Sovietica vinse la Grande Guerra Patriottica e salvò, oltre a se stessa, l’intera umanità dal flagello della svastica.
In realtà, Stalin sapeva meglio di chiunque altro quale barbarie avrebbe colpito il suo paese nella eventualità di una vittoria della Germania nazista e lo stesso Zukov ricorda che, se fu scosso nel momento in cui apprese la notizia dello scoppio della guerra, “dopo il 22 giugno 1941 e per tutta la durata della guerra Giuseppe Stalin assicurò la ferma direzione del paese, della guerra e delle nostre relazioni internazionali”.
Concludendo, desidero semplicemente ribadire che in una fase come quella attuale, in cui sembra di essere tornati al periodo 1900-1914, quando le potenze imperialiste decidevano tra loro le sorti del mondo, l’esperienza dimostra che il pensiero e l’opera di Stalin costituiscono, assieme ad altre fondamentali ed essenziali lezioni della storia del ventesimo secolo, una parte integrante del patrimonio ideale, politico e morale del proletariato e delle classi subalterne, che solo una profonda disonestà intellettuale può mettere in dubbio o negare.
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