Mentre la situazione sul campo si fa sempre più intricata per l’esercito siriano ed i suoi alleati, oggetto di un vero e proprio accerchiamento, composto non solo da Hayat Tahrir al-Sham (HTS, derivante da Al Qaeda) e le altre milizie salafite, ma anche dalle Forze Democratiche Siriane (in particolare dal “Consiglio Militare di Deir ez-Zor” ad esse affiliato; non, quindi, dalle Ypg), sostenute dal fuoco statunitense e dai soliti bombardamenti israeliani, comincia a muoversi l’Iran, che ha necessità di sbrogliare quest’ennesima matassa e deve decidere quanto e come può spendersi.
Dopo aver fatto tappa a Damasco per incontrare Assad, il Ministro degli Esteri iraniano Abbas Araghchi ha incontrato ad Ankara l’omologo turco Fidan, per carpirne la reale funzione svolta nei recenti sviluppi e le relative intenzioni per il futuro.
A parte le frasi di circostanza, in cui entrambi hanno espresso preoccupazione per lo sviluppo degli eventi e la necessità di mettere a posto le cose, la Turchia ha attribuito la crisi attuale “al rifiuto del presidente Bashar al-Assad di impegnarsi in un dialogo politico con l’opposizione e non ad interventi esterni”. Si tratta di una rivendicazione di fatto dell’azione militare jihadista, dato che, oltre a non spendersi per fermarla, la si giustifica.
Nella sostanza, la Turchia lamenta la non risposta positiva da parte di Damasco ai tentativi di normalizzazione dei rapporti effettuati, nei mesi scorsi, per bocca del Presidente Erdogan, con annessa pretesa di ottenere una serie di concessioni importanti dalla controparte siriana.
Di conseguenza, ora la Turchia punta ad imporre sul campo le condizioni per costringere Damasco a sottostare a tali “richieste”, che il giornale libanese Al-Akbar, di tendenza laica, vicino all’Asse di Resistenza, è stato in grado di dettagliare in questi punti:
- aprire un tavolo con le opposizioni integraliste sunnite filo-turche nel contesto di una modifica dell’ordinamento dello Stato, da estendere all’intero territorio nazionale;
- cooperare militarmente contro le milizie curde;
- fare di Aleppo una zona di libero scambio, in cui ci sia la possibilità di investire per la Turchia e per gli imprenditori affiliati che operano attualmente nell’area di Idlib.
In cambio la Turchia s’impegnerebbe a separare i propri “proxy” da HTS (impegno in sospeso da anni e mai portato a termine), a fissare un calendario per il ritiro delle proprie truppe e ad intercedere per far escludere l’area di Aleppo dalle sanzioni USA.
In sostanza, Ankara vorrebbe procurare un posto nel “nuovo” stato siriano ai propri alleati sul terreno, togliersi di mezzo le Ypg curde e stabilire un protettorato sull’area di Aleppo; richieste, queste, ritenute irricevibili da Assad, che non sembra nemmeno ora disposto a cedere alle pressioni.
Anche in questo caso, dunque, gli accordi diplomatici – stipulati questa volta nell’ambito del “formato di Astana” – sono serviti semplicemente ad una delle due parti per riorganizzarsi e presentarsi, qualche anno dopo, con ambizioni simili a prima.
Araghchi, da parte sua, ha incolpato i progetti americani e sionisti per gli sviluppi in corso ed ha fatto sapere, in separata sede, che l’Iran prenderà in considerazione l’ipotesi di intervenire militarmente direttamente in Siria, in caso di richiesta esplicita da parte da parte del governo di Damasco.
Posizione cui fatto eco anche il presidente Pezeshkian, di cui, però, è diventato virale un altro stralcio estrapolato dalla stessa dichiarazione, nel quale afferma che “Assad, per difendersi dai gruppi terroristi, dovrebbe far ricorso alla denuncia al Consiglio di Sicurezza dell’ONU”. A conferma del clima di scetticismo che si è creato intorno a lui negli ambienti vicini all’Asse di Resistenza, in quanto considerato debole e subalterno.
Ad attaccare apertamente la Turchia, in Iran, è lo staff della Guida Suprema. Il consigliere per gli affari esteri, Ali Akbar Velayati, ne critica la subalternità al disegno sionista, pur utilizzando un linguaggio bonario e pan-islamico: “Speravamo che il signor Hakan Fidan, che è una figura esperta nel campo dell’intelligence e della politica estera, sarebbe stato in grado di correggere alcuni degli errori della politica estera turca. Non ci aspettavamo che la Turchia, che ha una lunga storia nell’Islam, cadesse nella trappola tesagli dall’America e dai sionisti. È sorprendente che tali atti vengano commessi in nome del popolo turco, che è rimasto saldo nella sua posizione a favore dell’Islam, con fede ferma nel corso della storia”.
Velayati ha sottolineato, poi, che l’Iran continuerà il suo assoluto sostegno al governo siriano fino alla fine.
Ora gli occhi sono puntati alla riunione del “formato di Astana”, quello artefice della tregua rotta dagli islamisti qualche giorno fa, che dovrebbe tenersi nei prossimi giorni a Doha: verranno messi attorno ad un tavolo i Ministri degli Esteri di Turchia, Iran, Russia, ma non del Qatar, secondo quanto sostenuto dallo stesso Araghchi.
L’emirato, pur accreditato come “neutrale” da molti osservatori, sta utilizzando il proprio vasto ecosistema mediatico (Al-Jazeera, Middle East Eye, Middle East Monitor) per rinverdire la narrativa della “rivoluzione siriana contro il dittatore sanguinario”, con annessi appelli incessanti alle minoranze religiose di Aleppo e dintorni a stare tranquille e sicure, sotto il dominio di HTS.
Dopo il vertice di Doha, l’Iran sarà costretto a decidere che genere di impegno spendere sullo scenario siriano. E qui i dilemmi e le variabili sono molteplici.
Dal punto di vista diplomatico, ci sarà da fidarsi di eventuali nuovi impegni presi dalla Turchia?
Dal punto di vista militare, il tempo stringe e sembra chiaro che l’esercito siriano, per difendersi ed eventualmente contrattaccare, ha bisogno di rinforzi importanti. Un disco verde per un contrattacco totale, in forze massicce, verso Idlib sembra improbabile; ma, d’altro canto, anche limitarsi a congelare il fronte attuale, o come si configurerà fra qualche tempo, lasciando l’esercito siriano nelle condizioni attuali, potrebbe essere considerato inaccettabile, almeno da parte della Guida Suprema.
Sono e sarebbero in bilico il corridoio Hama-Homs e la possibilità concreta che i jihadisti si avvicinino ad un pezzo rilevante del confine con il Libano, mettendo in crisi alcune vie di rifornimento alla Resistenza Libanese e Palestinese. Questa eventualità è da scongiurare a tutti i costi, in quanto avrebbe ripercussioni negative anche sugli altri fronti della “guerra totale” sionista.
In ogni caso, Teheran, per impegnarsi direttamente o anche per inviare milizie sciite aggiuntive dall’Iraq, deve garantirsi di non effettuare un’operazione azzardata, esponendo le truppe agli incessanti bombardamenti sionisti e degli USA o alle azioni di disturbo della Forze Democratiche Siriane, che sono già avvenute. Lo stato sionista non vede l’ora di poter infliggere direttamente delle perdite all’Iran e veder coinvolti gli USA in un confronto militare diretto sul territorio siriano.
Per ottenere una relativa sicurezza aerea, servirebbe coinvolgere la Russia, ripristinandone il controllo dello spazio aereo nelle aree della Siria controllate dal governo centrale, come avvenuto fino al 2020, e mettendo in funzione i sistemi antiaerei che Mosca non ha mai utilizzato durante i continui bombardamenti sionisti dall’8 ottobre 2023 in poi.
Sul fronte interno, potrebbe riaccendersi la dialettica fra Autorità Suprema e Governo, replicando quanto accaduto dopo l’uccisione di Haniyeh: l’esecutivo spinge per l’utilizzo della via esclusivamente diplomatica, con la motivazione di evitare un innalzamento della tensione in vista un imminente cessate il fuoco a Gaza (rispetto al quale le medesime voci si addensano anche ora, del resto), salvo poi dover sottostare alle pressioni dei cosiddetti conservatori, dell’Ayatollah e del suo staff ad intervenire militarmente, una volta che la situazione precipita (in quel caso, gli attentati con i dispositivi elettronici e l’uccisione di Nasrallah, in Libano, portarono al secondo attacco diretto nei confronti dello stato sionista) sia critica.
Come si vede, la matassa è realmente intricata e le decisioni prese dall’Iran, piaccia o non piaccia, avranno una ripercussione forte sulle Resistenza arabo – palestinese in tutto lo scenario bellico dell’area.
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