A settembre, mentre le truppe israeliane avviavano l’ennesima invasione del Libano, Netanyahu volava a New York all’assemblea plenaria delle Nazioni Unite illustrando due scenari.
Il primo mostrava i benefici economici dell’ambita integrazione tra Israele e i paesi arabi del Golfo evocata dagli Accordi di Abramo.
Il secondo dichiarava che Israele era impegnata in una guerra su “sette fronti” contro i propri nemici mortali in tutto il Medio Oriente. Non solo i palestinesi di Gaza e Cisgiordania ma anche Iran, Libano, Siria, Yemen, Iraq, sia come entità statali che come organizzazioni non statali.
Anche un anno prima Netanyahu si era presentato negli Stati Uniti con alcune mappe che indicavano i confini di Israele e le potenzialità del paese, ma con il “dettaglio” che cancellavano completamente l’esistenza dei Territori Palestinesi sia a Gaza che in Cisgiordania.
Di fronte a quelle mappe che cancellavano definitivamente la presenza palestinese e annunciavano la pulizia etnica dell’area, l’azione militare palestinese del 7 ottobre 2023 è stata in qualche modo inevitabile. I palestinesi dovevano scegliere tra lottare per sopravvivere o accettare di essere cancellati silenziosamente, senza colpo ferire.
Dopo il 7 ottobre 2023 e per almeno un anno, i palestinesi hanno costretto il mondo a rimettere il loro diritto di esistenza al centro dell’agenda politica internazionale. Senza ne sarebbero stati liquidati definitivamente.
Il prezzo pagato in termine di vite umane e distruzioni a Gaza è stato enorme, ma il politicidio della questione palestinese era iniziato molto prima del genocidio che oggi tutti hanno sotto gli occhi.
La guerra di Israele sui “sette fronti”, una minaccia per tutti
In questi ultimi mesi in Medio Oriente abbiamo assistito ad un cambio di passo dell’escalation espansionista israeliana sui “sette fronti”, in quella che ormai si configura come una “guerra senza limiti” che si fa beffe delle istituzioni internazionali e della loro legalità, spesso agita su un doppio standard oggi insopportabile per gran parte del mondo non occidentale. La conferma viene dalle complici reticenze dei governi europei sul mandato di cattura della Corte Penale Internazionale contro Netanyahu.
Quindi oltre al fronte palestinese a Gaza e in Cisgiordania si sono aggiunti quello in Libano, in Iran, in Siria e poi ancora Iraq e Yemen.
Quest’ultimo fronte di guerra, in modo particolare, va tenuto sotto osservazione perché il controllo del Mar Rosso appare decisivo per diversi progetti strategici israeliani – e non solo – che partono dal porto di Eilat, che a causa dell'interdizione del traffico marittimo da parte del movimento yemenita Ansarallah (più conosciuto come “gli Houthi”, ndr) ha visto crollare dell’85% la propria attività economica e logistica.
In campo come progetto strategico non c’è solo il Canale Ben Gurion verso il Mediterraneo, inteso come alternativo al Canale di Suez controllato dall’Egitto, ma anche altri corridoi logistici terrestri che partono sempre da Eilat e che vedono coinvolte società facenti capo all’impero economico dello stesso Trump.
Il contesto è quello dell’aperta competizione tra i corridoi infrastrutturali della Via della Seta cinese e l’IMEC – o via del Cotone – statunitense. In pratica è la competizione frontale tra i BRICS e il blocco Euroatlantico nei luoghi strategici del Medio Oriente.
I primi ritengono che la pace e la stabilità siano decisivi per il proprio sviluppo economico, il secondo non esclude affatto che la guerra e l’instabilità siano strumenti utili per complicare le cose, avvelenare i pozzi e fare arretrare le prospettive di crescita e di indipendenza dei BRICS.
In questa area del mondo, il blocco euroatlantico ha a disposizione solo Israele – e in parte la costosa rete di basi militari statunitensi in Medio Oriente – come emanazione diretta dei propri interessi. Per cui se la guerra e l’instabilità regionale sono una priorità o una necessità dell’Occidente collettivo, Israele è la potenza adibita a fare il lavoro sporco per tutti.
Israele come laboratorio della guerra e del suprematismo occidentale
Ci sono alcuni fattori che è importante non sottovalutare:
1) Israele è una potenza nucleare. Dispone di alcune decine di bombe atomiche ed ha sia la dottrina militare che la “mentalità politico/messianica” per usarle.
2) Israele ha la necessità e la volontà di estendere i propri confini. Vuole le terre e le risorse di cui non dispone e l’incremento demografico adeguato per imporsi nella regione. Alimentare l’allarme antisemitismo in Europa e negli USA è funzionale anche a spingere la diaspora ebraica a trasferirsi in Israele e annettere tutti i Territori Palestinesi. Il processo di immigrazione in Israele però si era interrotto a causa dello scontro politico e civile interno contro il governo di destra di Netanyahu ed è diventato più forte dopo il 7 ottobre 2023.
3) La visione politico/messianica che ispira l’attuale establishment israeliano appare a molti di noi incomprensibile e inaccettabile nel XXI Secolo. Eppure è un’arma ideologica potente e pervasiva sia per legittimare il genocidio dei palestinesi e “l’annientamento dei nemici”, sia il continuo allargamento dei confini in nome della sicurezza di Israele, sia per la legittimazione del suprematismo occidentale contro “la Jungla” rappresentata dagli altri popoli non occidentali, in questo caso particolare quelli islamici. È una “evoluzione” del sionismo più pericolosa e inquietante del progetto coloniale stesso. Israele è diventato il laboratorio e il campo di sperimentazione di tutto questo inquietante apparato ideologico.
Non è un caso che il sionismo può contare ormai da tempo anche su settori politici non ebraici come le destre in Europa o i cristiani evangelici negli Stati Uniti.
Il coinvolgimento dell’Italia
Il clima di guerra permanente e globale negli ultimi tre anni è stato ormai sdoganato anche in Europa intorno al conflitto in Ucraina e allo scontro con la Russia.
L’Italia è già dentro questo scenario di guerra in Europa con le scelte fatte dai governi in questi anni (forniture militari a Kiev, aumento delle spese militari, partecipazione attiva alla guerra ibrida ed ideologica) ma è coinvolta – e lo sarà in misura crescente – anche nella guerra senza limiti in Medio Oriente.
a) C’è una strettissima compenetrazione tra le industrie militari e tecnologiche italiane con quelle israeliane. Non deve preoccupare solo la vendita di armi a Israele ma anche l’acquisto di armi e sistemi d’arma e dual use israeliani per gli apparati militari, di intelligence e di ricerca italiani. Con il boom delle spese militari, questa compenetrazione bellica tra Italia e Israele – se non contrastata con le campagne sulle sanzioni, il disinvestimento e il boicottaggio – è destinata a crescere.
b) Se si apre il fronte di guerra nello Yemen e sul Mar Rosso, l’Italia non solo è già coinvolta con la missione navale Aspides, ma lo sarà ancora di più perché a causa della interdizione degli Houthi ha perso già il 38% degli scambi commerciali tramite traffico marittimo. Non solo. Sono anni che i comandi militari italiani ragionano in termini di “Mediterraneo allargato”, arrivando a ritenere strategici e interni a questo scenario anche il Mar Rosso, il Golfo Persico, l’Oceano Indiano occidentale e il Golfo di Guinea.
c) Come abbiamo visto il sionismo nella sua nuova visione politico/messianica che viene da Israele, agisce ideologicamente e politicamente anche negli altri paesi, incluso il nostro. I paesi europei e gli Stati Uniti per Israele sono una sorta di “fronte interno” in cui la guerra va combattuta e vinta contro coloro che vi si oppongono, frontalmente o blandamente che sia.
Lo si è visto con la rinnovata aggressività dei gruppi sionisti e con la persistente offensiva ideologica che ha spinto alla convergenza suprematismo occidentalista, destre neofasciste e nazionaliste e circoli sionisti.
Israele pericolo anche per il nostro mondo
Questa analisi sulla “guerra senza limiti” e sul ruolo di Israele come pericolo per il nostro mondo e non solo per i palestinesi e i popoli del Medio Oriente, può apparire prematura o velleitaria, ma in qualche modo è tempo che entri nella riflessione e nel dibattito dei movimenti di solidarietà con la Palestina. Un punto di vista del resto suggerito e ben argomentato da John Rees, uno degli esponenti della Stop the War Coalition britannica, una organizzazione che ha contribuito a portare decine di migliaia di persone in piazza per la Palestina in Gran Bretagna.
Il genocidio dei palestinesi mantiene indubbiamente la sua centralità sia nella mobilitazione che nella sensibilità di molta opinione pubblica, ma il punto più alto della contraddizione in Medio Oriente e nello scenario di guerra globale, è diventato indubbiamente il ruolo di Israele come “stato terrorista” e per le conseguenze che produce in una fase di ipercompetizione globale che non esclude affatto la guerra come strumento per affrontare le contraddizioni del modo di produzione capitalistico.
Continuiamo a ritenere che per chi agisce in Italia in solidarietà con i popoli del Medio Oriente, il compito sia quello di spezzare o complicare l’esistenza alle complicità con la macchina da guerra e ideologica israeliana e cercare di indebolirle al massimo.
In secondo luogo riteniamo che il compito dei comunisti in Italia sia quello di lottare e indebolire il proprio imperialismo, a cominciare dai suoi apparati di comando nel nostro paese.
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